Quantcast
Channel: Casa e Condominio | La Legge per tutti
Viewing all 10351 articles
Browse latest View live

Come nasce una servitù

$
0
0

Il codice contempla vari modi per la costituzione del diritto di servitù: ecco quali sono.  

Quando due immobili sono vicini tra loro si rende spesso necessaria la costituzione di un diritto di servitù, al fine di soddisfare le esigenze più varie. Si tratta, come si sa, di una relazione che intercorre tra due fondi appartenenti a proprietari diversi, tale per cui uno viene posto al servizio dell’altro. Se ci chiediamo come nasce una servitù, scopriamo che ciò può avvenire in tanti modi, partendo dal classico contratto fino ad arrivare all’acquisto per usucapione. Chiariamo tutto nel dettaglio.

Cos’è il diritto di servitù

Il diritto di servitù è un rapporto giuridico che interessa due fondi vicini appartenenti a proprietari diversi. Esso consiste, in poche parole, nel peso imposto su un fondo (detto servente) a vantaggio dell’altro terreno (fondo dominante) [1].

Nella servitù di passaggio, ad esempio, il proprietario del fondo servente dovrà consentire a quello del fondo dominante di transitare sul proprio terreno, in quanto costituisce l’unico accesso alla via pubblica. Ancora, con la servitù di acquedotto si acquisisce il diritto di far passare le proprie acque sul fondo altrui. Con la servitù di parcheggio si ottiene la possibilità di lasciare l’auto sulla proprietà servente. La servitù di elettrodotto permette il passaggio di cavi e condutture elettriche sull’immobile altrui.

Come può notarsi, questo può avere i contenuti più vari. Ecco, secondo la legge, come nasce una servitù.

Servitù coattive e volontarie

Il nostro codice civile prevede diversi modi per costituire una servitù prediale. Dobbiamo innanzitutto distinguere tra:

  • servitù coattive, imposte direttamente dalla legge per esigenze di natura pubblica;
  • servitù volontarie, che nascono per volontà dei proprietari dei fondi coinvolti.

Le servitù coattive sono a numero chiuso e si indentificano solo in quelle espressamente riconosciute dalla legge (sono «tipiche»). Al contrario, le servitù volontarie sono espressione della libertà negoziale riconosciuta dalla legge stessa ai titolati dei fondi. Di conseguenza, esse possono avere contenuto più vario, liberamente determinato dalle parti.

Come nasce una servitù volontaria

Secondo il codice civile, la servitù volontaria nasce per contratto o per testamento [2]. Il contratto deve essere stipulato in forma scritta, a pena di nullità. Sia il contratto che il testamento, inoltre, vanno resi pubblici mediante trascrizione (ai fini dell’opponibilità della servitù a soggetti terzi). Non è possibile, invece, costituire una servitù prediale con atto unilaterale inter vivos (che non sia, appunto, un testamento).

Se il fondo è in comproprietà

Se il fondo appartiene a più soggetti, la concessione della servitù da parte di uno soltanto dei comproprietari non vincola gli altri: la servitù, infatti, non si costituisce fino a quando tutti i titolari del bene non l’abbiano concessa (in modo congiunto o separato). Tuttavia il comproprietario che ha concesso la servitù (così come i suoi eredi e aventi causa) resta obbligato nei confronti della controparte a non impedire o rendere difficile l’esercizio del diritto riconosciuto.

Che succede in caso di usufrutto

Se sul bene è presente un usufrutto, il nudo proprietario può costituire la servitù anche senza il consenso dell’usufruttuario, ma ha l’obbligo di non pregiudicare i diritti di quest’ultimo.

La servitù costituite con contratto

Quando una servitù nasce per contratto, essa può assumere un contenuto diverso a seconda dei casi. Vale infatti il principio dell’autonomia negoziale riconosciuta alle parti contraenti, che possono dare al diritto in questione una connotazione rispondente alle loro concrete esigenze. Ovviamente è richiesto che il contenuto sia lecito e non vada a ledere il diritto di proprietà esistente sui fondi considerati. In ogni caso, la stipulazione contrattuale deve:

  • indicare con precisione il fondo dominante e quello servente;
  • specificare il peso imposto e l’utilità garantita ai due fondi (ad esempio il parcheggio dell’auto, lo scarico delle acque, il passaggio per accedere alla via pubblica);
  • descrivere le concrete modalità di esercizio del diritto, nonché l’estensione effettiva dello stesso.

La costituzione delle servitù coattive

Se le servitù negoziali (costituite per contratto o testamento) possono avere il contenuto liberamente stabilito dalle parti, le servitù coattive invece:

  • sono solo quelle previste dalla legge (principio di tipicità);
  • sono regolate esclusivamente dalla legge stessa: estensione del diritto e modalità di esercizio non sono quindi rimesse all’autonomia contrattuale dei proprietari;
  • determinano il diritto ad un’indennità per il proprietario del fondo servente.

Secondo il codice civile, quando «in forza di legge, il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa, in mancanza di contratto, è costituita con sentenza».

In pratica, la presenza dei presupposti di legge determina, per il proprietario del fondo dominante, la nascita di un diritto potestativo alla costituzione della servitù. Questa potrà poi nascere attraverso un contratto, una sentenza del giudice, o un atto amministrativo (se ad esempio il bene coinvolto appartiene alla pubblica amministrazione). In qualunque modo venga costituita, però, il contenuto concreto della servitù (modalità di esercizio e indennità dovuta) è sempre quello determinato dalla legge (anche quindi se la servitù coattiva è nata attraverso un contratto).

La costituzione per usucapione

La servitù può nascere anche per usucapione [3], a patto però che si tratti di servitù apparente. In pratica, occorre che sui fondi coinvolti esistano delle opere o dei segni visibili e permanenti, idonei a rivelare in maniera univoca l’esistenza del diritto (ad esempio, nel caso della servitù di passaggio, occorre la presenza di una strada o di un percorso facilmente riconoscibile, capace di testimoniare l’esistenza della servitù stessa). Se la servitù è apparente quindi, potrà costituirsi:

  • per usucapione ventennale, se in questo tempo (in maniera continua) abbiamo esercitato sul bene un potere di fatto corrispondente all’esercizio della servitù;
  • per usucapione decennale, se abbiamo acquistato il diritto (in buona fede) da chi non ne era titolare e abbiamo trascritto il relativo titolo. Acquisire in buona fede da chi non è proprietario significa, in sostanza, che abbiamo stipulato un contratto ignorando che il nostro interlocutore non era titolare del diritto.

La costituzione per destinazione del padre di famiglia

Anche in questo caso deve trattarsi di una servitù apparente [4]. La costituzione per destinazione del padre di famiglia avviene quando il fondo, originariamente, apparteneva allo stesso proprietario e una parte dello stesso risultava asservita all’altra (anche qui occorre la presenza di opere visibili e durature che identifichino la presenza della servitù: si pensi ad un tracciato o un ponte). In seguito, il fondo viene diviso in due parti, assegnate a proprietari diversi. Se in occasione della divisione l’atto negoziale nulla prevede sulla servitù, è direttamente la legge, in modo automatico, a farla nascere: le due parti, originariamente unite, diverranno rispettivamente fondo servente e fondo dominante.


Per sostituire l’amministratore chi deve convocare l’assemblea?

$
0
0

Vogliamo sostituire l’amministratore: dobbiamo chiedergli di convocare un’assemblea straordinaria ed attendere 10 giorni per la risposta o possiamo convocarla senza avvisarlo?

Per regola generale la convocazione di un’assemblea condominiale, tanto ordinaria quanto straordinaria, avviene sempre su iniziativa dell’amministratore, o per l’adozione di delibere necessarie (come ad esempio l’approvazione del rendiconto) oppure quando questi lo ritenga necessario o, ancora, gliene venga fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio. In quest’ultimo caso, decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta i suddetti condomini potranno procedere direttamente alla convocazione [1].

I casi in cui i condomini, anche singolarmente, possono convocare l’assemblea senza preventiva richiesta all’amministratore sono invece tassativamente indicati nelle seguenti due ipotesi:

  1. quando manca l’amministratore (perché deceduto, oppure perché non sussiste l’obbligo di nominarlo non essendovi più di otto condomini) [2];
  2. quando l’amministratore cessa dall’incarico per perdita del godimento dei diritti civili, perché ha riportato condanne per delitti contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni, per esser stato sottoposto a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione, per esser interdetto o inabilitato, per risultare nell’elenco dei protesti cambiari.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Enrico Braiato

Come fare per non pagare le spese dell’ascensore condominiale?

$
0
0

Voglio acquistare un garage al piano terra di un autosilo che ha un montacarichi e un ascensore. Posso inserire una clausola nel contratto in cui si dice che non devo pagare le spese visto che non li userò?

È sicuramente possibile che nell’atto definitivo di compravendita venga inserita una clausola di esonero totale, a favore del lettore, dal pagamento delle spese relative alla manutenzione, ordinaria e straordinaria, e conservazione dell’ascensore e montacarichi (che sono di regola considerati beni condominiali a meno che non risulti il contrario dai titoli di acquisto). Tuttavia l’inserimento di questa clausola soltanto nell’atto di compravendita relativo al garage non sarebbe sufficiente per rendere opponibile tale esonero nei confronti degli altri condomini (in termini più semplici: non è sufficiente inserire questa clausola nell’atto di acquisto per rendere efficace anche nei confronti di tutti gli altri condomini l’esenzione dal pagamento di queste specifiche spese).

Per evitare, quindi, che il lettore sia tenuto a corrispondere queste spese, la clausola andrà specificamente inserita anche nel regolamento condominiale predisposto dal costruttore–venditore (regolamento che poi andrà richiamato nei contratti di vendita di tutte le unità immobiliari facenti parte del condominio) oppure andrà tale clausola di esonero andrà specificamente approvata da apposita delibera dell’assemblea condominiale approvata da tutti i condomini (nessuno escluso).

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte

Muro divisorio: cosa fare per non pagare le spese?

$
0
0

Il mio vicino sul confine di un area cortilizia mia e sua ha eretto a sue spese un muro. La parte che dà sulla mia proprietà è in pessimo stato. Senza chiedere la comunione forzosa del muro nè pagare metà delle spese cosa fare?

Appare evidente trattarsi di un muro divisorio di cinta di proprietà esclusiva del vicino. Per questo motivo il vicino ha il dovere di affrontare tutte le relative spese di manutenzione e riparazione fra le quali rientrano di certo anche quelle evidenziate dal lettore. Quindi potrebbe metterlo in mora invitandolo e diffidandolo a completare l’esecuzione dei lavori necessari ad eliminare l’attuale stato antiestetico e pericoloso del muro in questione. Rimanendo tale richiesta inevasa, il lettore potrebbe effettuare a sue spese i predetti lavori per poi richiedere al vicino l’integrale restituzione di tutti i relativi costi sostenuti e documentati.

Comunque, considerati i loro pessimi rapporti, è verosimile ritenere che per ottenerne l’effettiva restituzione sarà costretto ad agire in giudizio, con conseguente notevole aggravio di spese. Pertanto, qualora i regolamenti comunali lo consentano, potrebbe considerare la cosiddetta costruzione in aderenza secondo cui il vicino, senza chiedere la comunione del muro posto sul confine, può costruire sul confine stesso in aderenza, ma senza appoggiare la sua fabbrica a quella preesistente. Perché ricorra l’ipotesi della costruzione in aderenza è necessario che la nuova opera e quella preesistente siano autonome dal punto di vista strutturale nel senso che il perimento o la demolizione dell’una non possa incidere sull’integrità dell’altra mentre quando tale autonomia statica non sussiste si ha costruzione in appoggio che scarica cioè sul muro vicino la spinta verticale o laterale del proprio peso.

Da ciò deriva che il lettore potrà comunque costruire a contatto del muro in questione senza in alcun modo appoggiarsi ad esso o incastrarsi in esso nel senso sopra specificato e quindi senza richiederne la comunione forzosa. In questo caso dovrà però fare in modo di non lasciare alcuno spazio fra i due muri in modo tale che la sua costruzione sia proprio in perfetta aderenza con il muro del vicino. Una soluzione di questo tipo gli permetterebbe in breve tempo di risolvere il problema in modo definitivo e con costi contenuti ma soprattutto senza la necessità di doversi rapportare con il vicino.

 

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Alessandro Marescotti

Barbecue: le distanze da rispettare

$
0
0

Chiunque vuol montare un camino o un barbecue presso il confine deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti comunali e, in mancanza, quelle necessarie a preservare il vicino di casa da ogni danno.

La predisposizione di un barbecue, da accendere sul terrazzo per le serate con gli amici, è un classico terreno di scontro tra condòmini. Se da un lato fa parte del diritto di proprietà usare il balcone o il cortile esclusivo in piena libertà, dall’altro lato non bisogna con ciò creare disagi ai vicini di casa, specie quelli dei piani superiori. Non è solo un problema di fumi – per i quali il codice civile stabilisce che gli stessi non possono superare la «normale tollerabilità» – ma anche di distanze dal confine. I chiarimenti provengono da una recente sentenza della Cassazione [1]. Ma procediamo con ordine e vediamo quali sono le distanze da rispettare per il barbecue.

Quando si parla di «confine» non si intende solo quello in senso orizzontale, tra proprietà poste l’una di fronte all’altra, ma anche in senso verticale, tra condòmini dello stesso edificio le cui abitazioni si trovano su due piani diversi. Dunque, nel momento in cui il codice civile stabilisce delle distanze da rispettare queste si applicano anche tra chi vive al piano di sopra e chi invece vive al piano di sotto. A riguardo del barbecue entra in gioco una norma [2] secondo cui, chi presso il confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti comunali e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza. Non si può quindi applicare la norma che in materia di costruzioni richiede una distanza minima di 3 metri atteso che un barbecue non può considerarsi un’opera stabilmente ancorata al suolo. Tuttavia, nondimeno, il forno non deve essere così vicino da molestare il condomino del piano di sopra o il proprietario di casa che abita di fronte.

La prima cosa da fare, quindi, è verificare, presso il proprio Comune, se esistono dei regolamenti edilizi a imporre delle «distanze di sicurezza». Se l’ente locale ha previsto una normativa a riguardo sarà sufficiente attenersi a questa e, nello stesso tempo, evitare che i fumi diventino intollerabili, cosa che il codice civile richiede con una ulteriore norma [3]. Questo significa evitare di “abbrustolire” quando c’è più vento o proprio a ridosso del confine, tanto da costringere il vicino a chiudere le finestre.

Anche il barbecue deve stare a distanze regolamentari

Un esempio riuscirà a chiarire meglio il principio espresso dalla giurisprudenza e, in particolare quali distanze bisogna rispettare per il barbecue.

Immaginiamo che il proprietario di un appartamento al primo piano di uno stabile si accorga che il vicino del piano terreno ha installato un barbecue il cui comignolo è a solo un metro di distanza dalla sua finestra. Nel timore che il fumo possa propagarsi in casa non appena il forno verrà messo in funzione, cita in giudizio il responsabile. Quest’ultimo però si difende sostenendo che il barbecue viene usato sporadicamente, non più di 30 minuti di seguito, e giusto il tempo – quelle poche volte all’anno in cui vengono invitati amici – di fare una “bella figura”. Non si tratta però di uno strumento che viene acceso quotidianamente e, quindi, tale da recare fastidio al vicino. Chi dei due ha ragione?

Secondo la Corte, è necessario spostare il barbecue tutte le volte in cui

  • il regolamento comunale dispone una distanza minima e questa non viene rispettata;
  • in assenza di norme locali, il barbecue, anche solo potenzialmente (ed a prescindere dalla situazione concreta), può comportare un pericolo di danni. La legge stabilisce una presunzione di pericolosità di forni e camini, presunzione che può essere superata solo dimostrando che non vi è alcun pericolo di «danno alla solidità, salubrità e sicurezza» altrui.

In altre parole, la presunzione di pericolosità del barbecue da superare, essendo di pericolo e non di danno, prescinde dall’accertamento in concreto del danno, «dovendo invece essere valutata in concreto la pericolosità del forno ancorché non attivo».

Pertanto, è irrilevante l’accertamento svolto con il forno in funzione essendo sufficiente la potenzialità dell’esalazione nociva o molesta. E, secondo la Cassazione, la distanza di un metro è troppo risicata.

C’è poi un altro aspetto da considerare: quand’anche il barbecue sia posto a distanza sufficiente dal confine, questo non deve comunque infastidire il vicino con fumi troppo forti e invadenti. Qui la norma da rispettare è un’altra [3]: il codice civile stabilisce infatti che le immissioni di fumi e calore non devono superare la soglia della normale tollerabilità e questa – al contrario della distanza – va valutata caso per caso non solo sulla base dell’intensità dell’immissione stessa, ma anche della durata e della ripetizione con cui essa avviene. Come dire: si può perdonare il vicino che, una volta tanto, accende il barbecue e impuzzolisce il proprietario del piano di sopra, ma non più se questo comportamento si ripete spesso e costringe gli altri a stare sempre con le finestre chiuse.

Affitto, chi paga le bollette?

$
0
0

Se le utenze restano intestate al padrone di casa l’inquilino ha 2 mesi per pagare o chiedere giustificativi; in caso contrario può subire lo sfratto.

Che succede se l’inquilino non paga le bollette relative alle utenze dell’appartamento in affitto? E quali conseguenze possono ricadere sul titolare dell’immobile? La morosità è causa di sfratto? La risposta non è sempre uguale e difatti per stabilire, in caso di affitto, chi paga le bollette, è bene operare una distinzione.

Quando un appartamento viene dato in locazione, le utenze di luce, acqua e gas possono seguire due sorti diverse: possono restare intestate al padrone di casa, il quale di volta in volta chiederà all’inquilino il rimborso dei pagamenti effettuati alla società fornitrice del servizio per le bollette periodiche; oppure vengono intestate all’inquilino medesimo, con autonomi contratti dei quali solo quest’ultimo risponderà. Vediamo singolarmente le due ipotesi.

Chi paga le bollette se le utenze sono intestate al padrone di casa?

Quando le utenze di luce, acqua e gas restano intestate al locatore, quest’ultimo dovrà chiedere il rimborso all’inquilino dopo aver effettuato il pagamento. Il caso tipico è quello, ad esempio, dei contatori di gas e acqua che fanno capo a un unico impianto condominiale e i cui consumi vengono riscossi dall’amministratore. Amministratore che deve per legge rivolgersi solo ai condomini – ossia ai proprietari degli appartamenti – e non anche ad eventuali affittuari. Quindi, il locatore prima paga e poi si rivale contro il conduttore. Ma ben potrebbe essere anche una situazione in cui – specie per gli affitti di durata breve – il padrone di casa preferisca non cessare l’utenza e lasciarla intestata a sé.

Gli obblighi di chi prende un appartamento in affitto non si limitano solo al pagamento del canone di affitto, ma comprendono anche i cosiddetti oneri accessori, ossia le spese condominiali e le relative utenze per quanto attiene ai consumi periodici. Eventuali lavori straordinari (come ad esempio la sostituzione di contatori, la riparazione della centralina condominiale del gas, ecc.) sono invece a carico del padrone di casa. È comunque diritto dell’inquilino chiedere l’esibizione della fattura per controllare che l’importo preteso sia a lui imputabile e corrisponda a quello versato al condominio o alla società fornitrice del servizio.

Il pagamento da parte dell’inquilino deve intervenire entro 2 mesi dalla richiesta del padrone di casa, richiesta che, a tal fine, sarà bene che venga formalizzata per iscritto in modo da tenere traccia della stessa e dimostrare che l’affittuario era a conoscenza del debito.

Se l’inquilino non paga gli oneri accessori, e quindi anche le bollette, può subire lo sfratto. In tal caso, però, detto sfratto può scattare solo quando la morosità per gli oneri accessori supera almeno il valore di due mensilità (al contrario, invece, per la morosità nel canone di locazione, per la quale lo sfratto si giustifica dopo appena 20 giorni di ritardo).

L’inquilino ha 2 mesi dalla richiesta per pagare le bollette anticipate dal padrone di casa

Una volta ricevuta la richiesta di pagamento, il conduttore deve versare la somma dovuta, ma prima del pagamento e nel termine di 2 mesi dalla richiesta, ha diritto di ottenere l’indicazione specifica delle spese con la menzione dei criteri di ripartizione e di prendere visione dei documenti giustificativi. Il conduttore che non richiede i documenti nel termine di legge non può poi sospendere, ridurre o ritardarne il pagamento.

Il locatore deve richiedere il pagamento degli oneri accessori al conduttore nel termine di prescrizione di 2 anni che decorrono dalla data di chiusura annuale; se non gli viene espressamente richiesto dall’inquilino, non è tenuto a consegnare a quest’ultimo i documenti giustificativi delle spese poste a suo carico o indicargli i relativi criteri di ripartizione.

Se non paga le bollette, l’affittuario può essere sfrattato

Il vero problema nello stabilire chi paga le bollette quando le utenze dell’appartamento in affitto sono intestate al locatore, è comprendere quali sono le voci che sono a carico dell’inquilino e quali quelle a carico del padrone di casa. Possiamo così sintetizzare il discorso:

SPESA
CHI PAGA
Consumi periodici
Inquilino
Impianto di riscaldamento
– sostituzione integrale- manutenzione straordinaria Padrone di casa
– manutenzione ordinaria Inquilino
Riscaldamento e condizionamento dell’acqua
– installazione e sostituzione- adeguamento a leggi e regolamenti Padrone di casa
– manutenzione ordinaria- pulizia annuale, impianto e filtri, messa a riposo stagionale

– lettura contatori

– forza motrice, combustibile

– consumo combustibile, acqua, energia elettrica

Inquilino
Luce e impianti di illuminazione
– installazione e sostituzione Padrone di casa
– manutenzione ordinaria- consumi Inquilino

Il contratto di affitto può comunque prevedere accordi diversi. Ed è comunque sempre bene che la scrittura privata tra locatore e conduttore menzioni l’obbligo per quest’ultimo di corrispondere le utenze onde evitare di prestare il fianco ad equivoci e contestazioni.

È sempre bene indicare in contratto chi deve pagare le bollette

Chi paga le bollette se le utenze sono intestate all’inquilino?

Più facile è stabilire chi paga le bollette per l’affitto nel caso in cui le utenze siano intestate direttamente all’affittuario. Quest’ultimo, in quanto unico soggetto obbligato con la società fornitrice, sarà tenuto al pagamento e nessuna ripercussione negativa potrà estendersi sul locatore in caso di morosità. In pratica, nel momento in cui il padrone di casa ritorna nel possesso del proprio appartamento, alla scadenza dell’affitto, non eredita i debiti lasciati dall’inquilino.

Secondo una interessante sentenza del Tribunale di Pistoia (leggi Che fare se l’inquilino non paga le bollette), quando l’acqua è gestita dal comune o da altra azienda comunale quest’ultima non può agire contro il locatore per le morosità dell’inquilino. L’eventuale regolamento che disponga diversamente è illegittimo.

Casa in comproprietà: come si ripartiscono le spese condominiali?

$
0
0

Appartamento con 4 eredi comproprietari in eguale misura. Solo uno vi risiede ma gli altri possono usufruirne liberamente. Quale percentuale delle spese condominiali a ciascun comproprietario?

Al fine di rispondere al quesito è bene ricordare la disciplina vigente in materia di spese condominiali.

La vita di condominio comporta la necessità di sostenere una pluralità di spese al fine di provvedere alla conservazione nel tempo dell’edificio ed alla funzionalità dello stesso. Di conseguenza le spese che abitualmente vengono sostenute dai condomini sono funzionali sia alla gestione dei beni comuni sia alla manutenzione ed all’utilizzazione degli stessi. Di norma le spese condominiali si distinguono in due grandi categorie:

  • le spese ordinarie;
  • le spese straordinarie.

Le prime (cioè le spese ordinarie) sono quei costi che si rendono necessari ai fini della gestione delle cose comuni e che hanno cadenza annuale. Per fare un esempio, sono spese ordinarie quelle relative alla pulizia delle scale, alla manutenzione del cortile, alla conservazione dell’impianto di riscaldamento, ecc.

Le seconde (cioè le spese straordinarie), invece, si riferiscono a tutte quelle spese aventi natura occasionale ed eccezionale e vengono sostenute una tantum. Si pensi, ad esempio, ai costi necessari per sostituire l’impianto di riscaldamento od alle spese dovute per rifare la facciata del palazzo, ecc.

I criteri di ripartizione delle spese seguono quanto previsto dalla normativa vigente. Preliminarmente è necessario ricordare che un primo riferimento da tenere in considerazione, quando si affronta il tema della ripartizione delle spese condominiali, è dato dal regolamento di condominio. Quest’ultimo, infatti, può contenere disposizioni contrattuali che – in materia di ripartizione delle spese – derogano alla disciplina codicistica stabilendo criteri di suddivisione in parte differenti. Nel silenzio del regolamento si applicheranno le norme del codice civile le quali prevedono che le spese ordinarie sono a carico di coloro che abitano nell’appartamento, mentre le spese straordinarie sono a carico del proprietario. Più nel dettaglio, il codice civile prevede due principi che regolano la suddivisione delle spese tra i condomini:

  • le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione (cioè salvo che il regolamento condominiale preveda diversamente);
  • se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne.

Alla luce di quanto detto, mentre le spese straordinarie sono sempre a carico del proprietario (sia qualora questi abiti nell’appartamento sia qualora lo abbia locato ad altri), le spese ordinarie devono essere sostenute da coloro che effettivamente occupano l’immobile (cioè coloro che vi vivono abitualmente).

Tanto premesso quanto alla normativa generale vigente in materia di spese condominiali, è possibile adesso rispondere al quesito.

La lettrice scrive che i proprietari dell’immobile sito in condominio sono in tutto quattro ma che solo uno di essi vi ha trasferito la residenza potendo, tuttavia, gli altri usufruire liberamente dell’appartamento comune. Ai fini delle spese straordinarie ciò che rileva è la titolarità del diritto di proprietà: di conseguenza, le spese suddette dovranno essere ripartite in misura eguale tra i quattro proprietari dell’immobile. Diverso è il criterio da applicare per quanto riguarda la ripartizione delle spese ordinarie: queste ultime, infatti, dovranno essere sostenute da coloro che vivono abitualmente nell’appartamento. A tale scopo il fatto di aver trasferito la residenza nell’appartamento ha un valore meramente presuntivo poiché è ben possibile che colui che vi ha la residenza poi viva in tutt’altro posto. Il criterio, quindi, da applicare ai fini della suddivisione delle spese ordinarie è quello che prevede che esse debbono essere ripartite in misura uguale tra coloro che abitano l’appartamento abitualmente o, se taluno degli occupanti fa un utilizzo diverso e maggiore, in proporzione dell’utilizzo stesso.

In conclusione il codice civile non detta un criterio rigido in materia di ripartizione delle spese condominiali, ma lascia ai condomini il compito di individuare di volta in volta il tipo e l’entità di utilizzo che essi fanno delle cose comuni imponendo il pagamento delle spese da sostenere in misura proporzionale all’uso che ne viene fatto. Ovviamente, nell’ipotesi di disaccordo, i condomini potranno ricorrere all’istituto della mediazione (al fine di ottenere una soluzione transattiva della controversia) o, nel caso di esito negativo, potranno adire l’autorità giudiziaria.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Giovanna Pangallo

Assemblea di condominio: unico avviso per più riunioni in date diverse

$
0
0

È lecito l’avviso di convocazione dell’assemblea di condominio che fissi, oltre alla prima e alla seconda convocazione, anche ulteriori date per il prosieguo dei lavori di discussione e deliberazione.

Se un’assemblea di condominio deve decidere numerose questioni, complesse e articolate, che richiedono diverse ore di discussione, l’avviso di convocazione può indicare più date per la prosecuzione della riunione. A prevederlo sono le disposizioni di attuazione al codice civile [1] per come modificate dalla riforma del lavoro del 2012. In particolare, la norma attribuisce all’amministratore la facoltà di fissare più riunioni consecutive in modo da assicurare lo svolgimento dell’assemblea in termini brevi, convocando gli aventi diritto con un unico avviso nel quale sono indicate le ulteriori date ed ore di eventuale prosecuzione dell’assemblea validamente costituitasi.

Le regole da seguire per fissare con un unico avviso più riunioni dell’assemblea di condominio in date diverse sono le stesse già fissate dal codice civile relativamente alla prima e seconda convocazione. Cerchiamo dunque di elencarle.

Innanzitutto la convocazione dell’assemblea compete all’amministratore di condominio. Vi possono però provvedere anche i singoli condomini quando l’amministratore non abbia accolto l’invito, presentato da almeno 2 di questi che rappresentino un senso del valore dell’edificio, di indire una riunione per deliberare su alcune questioni dagli stessi evidenziate. Si pensi ad esempio alla richiesta di convocazione dell’assemblea per decidere la sostituzione dell’amministratore. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, i detti condomini possono provvedere direttamente alla convocazione.

Se il condominio non ha un amministratore, l’assemblea – tanto ordinaria quanto straordinaria –  può essere convocata a iniziativa di ciascun condomino.

L’avviso di convocazione deve contenere l’indicazione dell’ordine del giorno e deve essere comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata per l’incontro. A dover dimostrare il rispetto di tale termine è il condominio; per cui è necessario che l’avviso venga inviato con forme che consentano di provarne il ricevimento, come la raccomandata a.r. o quella a mano, oppure l’email di posta elettronica certificata (Pec). Se tale termine non viene rispettato, i dissenzienti o gli assenti perché non convocati possono ricorrere al giudice, entro 30 giorni, per chiedere l’annullamento della delibera. In assenza di impugnazione, l’assemblea resta valida e non può più essere contestata. Ad esempio, se un condomino non viene convocato e, pur ricevendo dall’amministratore i verbali con la riunione, non impugna la decisione, non può poi rifiutarsi di pagare le spese approvate in riunione.

L’assemblea deve svolgersi in un orari consoni (non ad esempio a mezzanotte per facilitare il quorum in seconda convocazione) e in un luogo accessibile a tutti i condomini. Inoltre, l’assemblea in seconda convocazione non può tenersi nel medesimo giorno della prima.

Se l’assemblea in prima convocazione non può deliberare per mancanza di numero legale, l’assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima”.

Sì all’assemblea unica ma spezzettata nel tempo

Un unico avviso per più riunioni dell’assemblea in date diverse

L’amministratore può fissare più riunioni consecutive con un unico avviso di convocazione. Si tratta cioè della stessa assemblea che si sussegue nel tempo in modo “spezzettato”, in modo da assicurare lo svolgimento dell’incontro di condominio in termini brevi.

In pratica, l’amministratore provvede a inviare un solo avviso di convocazione, nel quale però non indica solo la data di prima e seconda convocazione (coi relativi quorum costitutivi differenti), ma anche le ulteriori date ed ore dell’eventuale sua prosecuzione. Chiaramente se i lavori dovessero terminarsi già alla prima data utile non si darebbe luogo alle successive riunioni.

In ogni caso, anche quando c’è un unico avviso di convocazione per più riunioni dell’assemblea (ed è quindi la stessa riunione che prosegue e viene protratta), detta convocazione deve contenere l’ordine del giorno, ossia specificare gli argomenti su cui l’assemblea è chiamata a deliberare nelle varie date.

L’amministratore deve indicare, nell’avviso di convocazione, che la chiusura della “prima” riunione viene prevista per una certa ora e che se per quell’ora gli argomenti posti all’ordine del giorno non sono stati tutti analizzati, discussi e decisi, la medesima riunione viene sospesa. Essa continua, come prosieguo della precedente, alla data e all’ora indicate nell’unico avviso di indizione assembleare.

Non c’è necessità che l’avviso di convocazione specifichi, per ogni singola data, il luogo ove l’assemblea deve riunirsi, potendo questo essere sempre lo stesso fissato per la prima riunione.


La servitù prediale e personale: le differenze

$
0
0

Le servitù tra immobili si definiscono prediali. Anch’esse possono prescriversi. Le differenze con quelle personali. 

Se un bene immobile trae vantaggio ed utilità da un altro, evidentemente gravato di questo peso e/o limitazione, ci troviamo di fronte ad una servitù. Essa sarà esercitata dal proprietario del bene “avvantaggiato”, con tutte le caratteristiche ad essa connesse. Ad esempio, con una servitù di passaggio, potrà attraversare il bene immobile altrui, senza poter essere ostacolato dal proprietario di quest’ultimo. Fatta questa breve premessa, è bene precisare che, anche la servitù, se non viene utilizzata per un determinato periodo, può “scadere”, cioè prescriversi. Vediamo, insieme, quindi, cosa occorre per la prescrizione in tali casi e quali sono le differenze tra la servitù prediale (immobiliare) e quella personale.

Quando scade la servitù prediale?

La servitù è tipicamente ed esclusivamente di carattere prediale cioè immobiliare. In altri termini, ciò significa che si può parlare di servitù vera e propria, solo quando essa è costituita a carico di un fondo, tecnicamente definito “servente”, ed a favore di un altro, denominato “dominante”.

Giuridicamente parlando, la servitù è qualificata come un diritto reale, che è ampiamente e diffusamente disciplinato dalla legge [1].

La servitù prediale (cioè di natura immobiliare) può essere di vari tipi (di passaggio, di acquedotto, ecc), può costituirsi per forza di legge (servitù coattiva) o per volontà delle parti (servitù volontaria). Come tutti i diritti, se è lesa o turbata nel proprio esercizio, essa può essere oggetto di tutela in sede giudiziale. La servitù prediale, inoltre, può estinguersi per varie ragioni, tra cui, unao delle più note è quella della prescrizione.

A tale riguardo, una servitù prediale si estingue per prescrizione (cioè, in termini poveri scade) quando non è esercitata per vent’anni. Tale conclusione è sancita dal codice civile [2].

Secondo la Suprema Corte di Cassazione [3], per impedire la prescrizione non è sufficiente un uso saltuario della servitù, ed è indifferente la causa che ne ha determinato il mancato esercizio (quale ad esempio, la presenza di lucchetti o cancelli che impediscano il descritto uso) [4].

Ciò che conta, pertanto, è il solo decorso del tempo, senza che la servitù sia stata utilizzata. La prova sarà ovviamente a carico del proprietario del fondo denominato servente, cioè colui che, di fatto, subisce la servitù e che è interessato a far accertare l’estinzione del diritto altrui [5].

Che cos’è la servitù personale?

Quando l’utilità e il peso sul bene immobiliare di proprietà altrui è a vantaggio di una persona e non di un bene immobile di proprietà della stessa, siamo di fronte ad una servitù di carattere personale, che si può costituire solo volontariamente, che si estingue con la morte del titolare, che si prescrive (cioè scade), per non uso, secondo l’ordinario termine decennale sancito dalla legge [6]. Ad esempio, una servitù personale, potrebbe essere quella concessa per raccogliere dei frutti all’interno di un terreno.

Detto ciò, se una servitù è stata costituita volontariamente, a vantaggio di una persona, senza che nell’atto si faccia riferimento all’utilità a favore di un fondo dominante, non necessariamente si tratta di una servitù personale (detta anche irregolare). In altri termini, se la parti del contratto hanno dichiarato di voler costituire una servitù personale, ma in realtà e nella sostanza si tratta di un vantaggio a favore di un bene immobile ed a carico di un altro, la servitù sarà prediale (cioè immobiliare).

A tal proposito, infatti, precisa la Cassazione …che si configura un diritto personale di godimento solo laddove manchi una funzione di utilità fondiaria, funzione che deve essere valutata con riferimento al fondamento oggettivo e reale dell’utilità stessa, a vantaggio diretto del fondo dominante, per la sua migliore utilizzazione…[7].

Rumore del treno: diritto al risarcimento?

$
0
0

Per capire se chi vive vicino a una stazione ha diritto al risarcimento per il rumore provocato dai treni bisogna valutare le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti.

Nel caso di rumori in condominio, se il chiasso e il baccano è quello del vicino di casa o dell’inquilino del piano di sopra che, in piena notte, sposta mobili la prima cosa che viene in mente è chiedere i danni. Ma se il rumore è quello del treno si ha diritto a un risarcimento? Pensiamo a un soggetto che abita in prossimità di una stazione ferroviaria costretto a fare i conti, soprattutto di notte, con lo stridio delle ruote sui binari e con il suono delle sirene che annuncia l’arrivo del convoglio. Secondo il Tribunale di Lecce [1] bisogna valutare la situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e delle abitudini degli abitanti e non si può prescindere dalla rumorosità di fondo di quella stessa zona sulla quale vanno ad innestarsi rumori come immissioni abnormi (quelle dei treni).

Bisogna considerare i rumori di fondo di una certa zona

Come capire se un rumore è molesto?

Ciò significa che non c’è un criterio assoluto per stabilire se il rumore del treno è fastidioso tanto da determinare il diritto al risarcimento. Sarà il giudice a valutare caso per caso, in base alle circostanze del caso concreto. E, come si diceva, occorre tenere conto della rumorosità della zona e delle abitudini degli abitanti considerando il fatto che sia un’area particolarmente trafficata, magari di tipo industriale o pedonale, ecc.

Per intenderci, se la stazione ferroviaria in questione si trovasse in aperta campagna il rumore provocato dai treni in transito sarebbe ancor più intollerabile di quanto non fosse in città dove lo stesso potrebbe essere coperto da altri rumori collegati alla routine della metropoli. Lo stesso se si trovasse in una zona residenziale piuttosto che un un’area industriale.

Ciò significa che il criterio di riferimento deve essere costituito dalla rumorosità tipica di un’area a cui si aggiungono i rumori denunciati come abnormi. Il parametro di base deve essere quello dell’uomo medio: in pratica, né quello particolarmente delicato, né quello che ama la confusione, né quello con l’orecchio superfino, né quello un po’ a corto di udito.

Come provare che un rumore è intollerabile?

Per capire, poi, se il rumore del treno supera la cosiddetta soglia della normale tollerabilità, generalmente il giudice nomina un perito che calcola il livello dei decibel raggiunto, anche tenendo conto delle normative locali. Molto utili sono anche eventuali testimoni.

È chiaro che se, sulla base di questi dati, il giudice si rende conto che il rumore è tollerabile secondo la legge ma intollerabile per le caratteristiche e le abitudini delle persone stabilirà comunque il loro diritto al risarcimento tenendo conto che la salute è l’interesse prioritario da considerare.

Se sulla casa c’è usufrutto chi paga il condominio?

$
0
0

Ripartizione delle spese condominiali tra nudo proprietario e usufruttuario. 

La riforma del condominio (L. 220/2012), nel modificare l’articolo 67 disp. att. c.c., ha chiarito anche la posizione dell’usufruttuario in merito  al pagamento delle spese condominiali. La norma in esame, infatti, dopo aver chiarito che l’usufruttuario esercita il diritto di voto negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione ed al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni (nelle altre deliberazioni, invece, il diritto di voto spetta al nudo proprietario) prevede espressamente una responsabilità solidale del nudo proprietario e dell’usufruttuario per il pagamento dei contributi dovuti all’amministrazione condominiale.

Tale nuova disciplina prevista dall’articolo 67 disp. att. c.c., inoltre, nel disporre la solidarietà tra usufruttuario e nudo proprietario, non distingue tra spese ordinarie (che a norma dell’articolo 1004 c.c. competono all’usufruttuario) e spese straordinarie (che a norma dell’articolo 1005 c.c. spettano al nudo proprietario). Ciò significa che la ripartizione (tra usufruttuario e nudo proprietario) degli oneri condominiali, a seconda della natura ordinaria o straordinaria della spesa relativa, è lasciata alla disciplina dei loro rapporti interni, ben potendo il condominio pretendere l’intero importo dovuto sia dall’usufruttuario sia dal nudo proprietario.

Condominio: il dissenso dalla lite

$
0
0

Il condominio dissenziente rispetto a una causa può evitare la propria responsabilità per le conseguenze delle liti.

L’articolo 1132 c.c. disciplina il dissenso dei condomini rispetto alle liti, prevedendo che qualora l’assemblea dei condòmini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere a una domanda, il condomino dissenziente, con atto notificato all’amministratore, può separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite per il caso di soccombenza. L’atto deve essere notificato entro trenta giorni da quello in cui il condomino ha avuto notizia della deliberazione.

In primo luogo, è opportuno precisare che, comunque, se l’esito della lite è stato favorevole al condominio, il condomino dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese del giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente.

L’atto di dissenso non necessita di forma solenne ma va notificato a mezzo ufficiale  giudiziario.

Vi si ritiene equipollente il dissenso comunicato a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento.

Dissenso solo per liti tra condomino e terzi

La possibilità di separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze sfavorevoli della lite sembra operare per le sole controversie tra condominio e terzi [1] e  non anche per quelle tra condominio e singoli condòmini, relativamente alle quali le spese di soccombenza dovrebbero gravare soltanto sui soggetti che hanno promosso la lite. Si è, però, obiettato, in dottrina, che la norma non opera al riguardo alcuna distinzione e che comunque l’articolo 1132 c.c. accomuna    i due tipi di lite. Per tale motivo ad oggi non vi è una linea certa di indirizzo. Il termine di cui al primo comma dell’articolo 1132 c.c. è previsto a pena   di decadenza e decorre dal giorno in cui il condomino dissenziente ha avuto conoscenza della decisione, presa dall’assemblea, di intentare la lite o di resistervi (e quindi dalla data di assunzione della delibera ove egli abbia partecipato all’assemblea).

La dottrina ha prospettato il caso estremo di una sentenza sfavorevole al condominio intervenuta prima dello spirare del termine previsto per l’opposizione, ritenendo che, in tal caso, il condomino dissenziente non possa estraniarsi ma debba sopportare le conseguenze della soccombenza, e ciò sul rilievo che la norma in commento mirerebbe ad evitare danni futuri e non ad eliminare quelli già verificatisi, salvo che il dissenziente abbia avuto notizia della delibera successivamente alla sentenza.

L’atto di dissenso è atto recettizio di natura sostanziale

Il diritto di rivalsa riguarda le spese ed i danni che si sarebbero evitati se non si fosse proposta l’azione o non si fosse resistito alla stessa.

Secondo alcuni, tuttavia, la possibilità di separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite sussisterebbe non solo nell’ipotesi di soccombenza ma anche nel caso di esito favorevole là dove l’utilità o il vantaggio conseguente alla vittoria della lite fosse divisibile, in maniera tale da poter separare la posizione del dissenziente da quella degli altri condòmini. La dichiarazione del condomino dissenziente di separare la propria responsabilità da quella degli altri condòmini, per il caso di soccombenza del condominio nelle liti che l’assemblea condominiale ha deliberato, è un atto giuridico recettizio di natura sostanziale, da portarsi, in quanto tale, tempestivamente a conoscenza dell’amministratore, o di chi altri rappresenti il condominio, ma per il quale non sono necessariamente richieste forme solenni, né la notificazione a norma della legge processuale (nella specie si è ritenuta valida la dichiarazione di dissenso comunicata mediante raccomandata con avviso di ricevimento) [2].

Non sembra possibile comunicare tale dissenso in assemblea.

Come impugnare una delibera dell’assemblea di condominio

$
0
0

Riunioni di condominio: come si contestano le decisioni dell’assemblea nulle e annullabili; la mediazione e il ricorso in tribunale. 

Le deliberazioni prese dall’assemblea sono obbligatorie per tutti i condòmini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino dissenziente, astenuto o assente può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.

È quanto prevede il nuovo secondo comma dell’articolo 1137 c.c., come modificato  dalla  legge  di  riforma  del  condominio  (L.  220/2012),  che  riconosce espressamente la possibilità di impugnare le delibere assembleari ai condòmini assenti, dissenzienti o astenuti, mentre in precedenza la legge prevedeva espressamente tale facoltà solo in favore dei condòmini dissenzienti.

È prevista, inoltre, una duplice decorrenza dei termini per impugnare, a seconda che il condòmino abbia partecipato o meno all’assemblea che ha approvato la delibera che si intende impugnare.

Rispetto all’originaria formulazione, inoltre, il nuovo articolo 1137 c.c. menziona espressamente la possibilità di chiedere l’annullamento della delibera impugnata.

L’azione di annullamento non sospende l’esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria.

Il nuovo testo dell’articolo 1137 c.c., inoltre, prevede che l’istanza per ottenere la sospensione che sia stata proposta prima dell’inizio della causa di merito non sospende l’efficacia della delibera nè interrompe il termine per la proposizione dell’impugnazione della stessa.

La violazione di legge

Mentre i casi di annullamento sono espressamente disciplinati dal codice, quelli di nullità non sono indicati ed occorre rifarsi ai principi che regolano la nullità del negozio giuridico.

Si ha violazione di legge quando non vengono osservate le norme procedi- mentali prescritte per l’adozione delle delibere assembleari.

Si pensi, ad esempio, a quanto prescritto dal nuovo articolo 66 disp att.    c.c., per il quale: «L’avviso di convocazione, contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, deve essere comunicato almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l’indicazione del luogo e dell’ora della riunione. In caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, la deliberazione assembleare è annullabile ai sensi dell’articolo 1137 del codice su istanza dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati.

L’assemblea in seconda convocazione non può tenersi nel medesimo giorno solare della prima.

L’amministratore ha facoltà di fissare più riunioni consecutive in modo da assicurare lo svolgimento dell’assemblea in termini brevi, convocando gli aventi diritto con un unico avviso nel quale sono indicate le ulteriori date ed ore di eventuale prosecuzione dell’assemblea validamente costituitasi».

La violazione di tali norme procedimentali determina la possibile annullabilità della delibera assembleare.

Vi è subito da dire che, fino ad oggi, si ammetteva l’impugnativa di un singolo condòmino anche quando il vizio relativo alla mancata convocazione di un condomino si era verificato nei confronti di altro  condomino.

A seguito della riforma, invece, che ritiene il deliberato annullabile in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione su istanza dei dissenzienti o degli assenti perché non ritualmente convocati, appare che, contrariamente a prima, tale vizio possa essere eccepito solo da coloro nei confronti dei quali tale vizio si è effettivamente verificato.

Le deliberazioni nulle sono impugnabili in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse (quindi anche dal condomino che abbia partecipato con il suo voto  favorevole  alla  formazione  della  delibera  impugnata).  Sono  tali  quelle che sono state prese fuori dei poteri dell’assemblea ovvero per le deliberazioni con oggetto impossibile, illecito o indeterminato. Sono inoltre inefficaci, e come tali attaccabili in ogni tempo, dai soli condòmini che ne risentono pregiudizio e non vi hanno aderito (nullità relativa), le deliberazioni che violano o ledono i diritti di alcuni o anche di un solo condomino sulle cose o sui servizi comuni o ne rendano difficile l’esercizio o lo disturbino sensibilmente.

La dottrina individua, altresì, ulteriori stati viziati della delibera, quali l’eccesso di potere — allorquando la delibera stessa, ancorché non nulla, né inefficace, sia gravemente pregiudizievole alle cose o ai servizi comuni — e l’incompetenza, quando l’assemblea non ha il potere di decidere (si pensi ad una decisione per lavori alla facciata presa in sede di supercondominio quando invece essa spetta alle assemblee dei singoli fabbricati).

L’impugnazione del condomino che ha votato la delibera nulla

Il condomino il quale abbia partecipato all’assemblea, anche se abbia espresso voto conforme alla deliberazione che si assume nulla, è legittimato a far valere la nullità solo che alleghi e dimostri di avervi interesse; cioè dimostri che la deliberazione, se non annullata, gli arrechi un qualche apprezzabile pregiudizio: da una parte, infatti, il principio di cui all’articolo 1421 c.c., secondo cui la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse non risulta derogato dalle norme in tema di comunione o di condominio; dall’altra,  la regola per la quale chi ha dato causa ad una nullità non può farla valere (articolo 157 c.p.c.) è propria della materia processuale, ma è estranea   alla materia sostanziale, dove l’azione è concessa anche a chi abbia partecipato alla stipulazione di un atto nullo [1].

Il condomino che abbia partecipato, con il suo voto favorevole, alla formazione di detta delibera, può quindi impugnarla salvo che con tale voto egli si sia assunto o abbia riconosciuto una sua personale obbligazione [2].

La nullità della delibera che incida su diritti inviolabili di un condominio

È affetta da nullità e quindi sottratta al termine di impugnazione previsto dall’articolo 1137 c.c. la deliberazione dell’assemblea condominiale che incida sui diritti individuali di un condominio, come quella che ponga a suo    totale carico le spese del legale del condominio per una procedura iniziata contro di lui, in mancanza di una sentenza che ne sancisca la soccombenza, e detta nullità, a norma dell’articolo 1421 c.c., può essere fatta valere dallo stesso condomino che abbia partecipato all’assemblea ancorché abbia espresso voto favorevole alla deliberazione, ove con tale voto non si esprima l’assunzione o il riconoscimento di una sua obbligazione [3].

Quanto all’onere della prova, incombe sul condomino, che chieda l’accertamento dell’invalidità dell’assemblea condominiale, la prova del vizio di costituzione dell’assemblea deliberante, posto a fondamento della pretesa [4].

L’onere della prova della invalidità

Qualora il condomino agisca per far valere l’invalidità di una delibera assembleare, incombe, invece, sul condominio convenuto l’onere di provare che tutti i condòmini sono stati tempestivamente avvisati della convocazione, quale presupposto per la regolare costituzione dell’assemblea, mentre resta a carico dell’istante la dimostrazione degli eventuali vizi inerenti alla formazione della volontà dell’assemblea medesima [5].

Atto introduttivo dell’impugnazione: ricorso o citazione?

Prima della riforma, per un primo indirizzo, in tema di condominio di edifici, la tempestività dell’impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea dei condòmini, che  a norma dell’articolo 1137 c.c. deve essere proposta con ricorso nel termine di trenta giorni dalla data della deliberazione stessa, andava riscontrata con riguardo alla data del deposito del ricorso e non a quella della sua notificazione. Sul punto la Suprema Corte aveva, poi, ritenuto che l’impugnativa potesse avvenire anche con citazione purché la notifica al destinatario fosse effettuata nei trenta giorni (dal verbale se il condomino era presente, ovvero dalla comunicazione dello stesso se assente).

Era, quindi, pacifico che, se anche il codice civile prevedesse la forma del ricorso, l’impugnativa della delibera assembleare potesse avvenire indifferentemente con ricorso o con citazione, e che, in questa ultima ipotesi, ai fini del rispetto del termine di cui all’articolo 1137 c.c. (trenta giorni) occorreva tenere conto della sola data di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio anziché di quella successiva del deposito in cancelleria (iscrizione a ruolo della causa) [6], mentre nel caso di ricorso era il deposito che doveva avvenire nei 30 giorni di cui all’art.  1137  c.c.

Successivamente, a fare chiarezza, è intervenuta la Corte di Cassazione che, a Sezioni Unite, affermò [7] che ai sensi dell’articolo 163 c.p.c. la domanda di annullamento della delibera condominiale si propone con citazione.

La Suprema Corte, nella stessa motivazione della sentenza, ebbe a chiarire che: il termine «ricorso» indicato nell’articolo 1137 c.c. è ivi impiegato nel senso generico di istanza giudiziale; ciò trova conferma nel fatto che, in genere, l’indicazione della forma del ricorso come veste dell’atto introduttivo in determinate materie è sempre accompagnata dalla fissazione di varie altre regole intese a delineare procedimenti caratterizzati da particolare snellezza e rapidità, (l’indicazione del giudice competente, i suoi poteri di sospensione ecc.) tutte regole che invece mancano con riguardo all’impugnazione delle delibere condominiali.

Le Sezioni Unite, tuttavia, precisarono che potevano, comunque, ritenersi valide le impugnazioni proposte impropriamente con ricorso, sempreché l’atto risulti depositato in cancelleria entro il termine stabilito dall’articolo  1137 citato.

Impugnazione della delibera assembleare di condominio solo con citazione

Il nuovo testo dell’articolo 1137 c.c., come modificato dalla L. 220/2012, ha eliminato qualsiasi riferimento al termine ricorso e ha parlato genericamente di  azione  volta  all’annullamento  delle deliberazioni assembleari.

Per cui il Tribunale di Milano (provvedimento 21 ottobre 2013, n. 56369), con una prima pronuncia a seguito della riforma ha ritenuto che l’impugnazione proposta con ricorso è   inammissibile.

Nel caso deciso dal Tribunale di Milano, il ricorso era stato tempestivamente depositato presso la cancelleria del giudice nei termini previsti dalla legge, ma nulla era stato notificato al condominio entro 30 giorni, così che lo stesso, nella persona del suo amministratore, aveva già maturato un legittimo affidamento circa l’acquisita esecutività della delibera impugnata.

In conclusione, anche se trattasi di una prima pronuncia di merito è meglio da oggi in poi stare bene attenti ad impugnare una delibera assembleare con l’atto di citazione e non più con il  ricorso.

Sul punto, con identica motivazione, è intervenuta la Corte di Appello di Napoli con sentenza n. 1048 del  2-3-2015.

L’annullabilità in sede giudiziaria di una delibera dell’assemblea dei condòmini per ragioni di merito, attinenti alla opportunità ed alla convenienza della gestione del condominio, è configurabile soltanto nel caso di decisione viziata da eccesso di potere che arrechi grave pregiudizio alla cosa comune (articolo 1109 c.c.). Il riscontro esercitato dall’autorità giudiziaria sotto l’anzidetto pro- filo non può mai riguardare il contenuto di convenienza ed opportunità della delibera, in quanto il giudice deve solo stabilire se la delibera sia o meno il risultato di un legittimo esercizio dei poteri discrezionali della assemblea [8]. L’eccesso di potere è ravvisabile quando la causa della deliberazione sia falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso il giudice non controlla l’opportunità o convenienza della soluzione adottata dall’impugnata delibera, ma deve solo stabilire se la delibera sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’assemblea [9].

Condominio in causa: la sostituzione dell’amministratore

$
0
0

La rappresentanza attiva e passiva dell’amministratore di condominio: cosa succede al giudizio in caso di sostituzione dell’amministratore con uno nuovo.

L’amministratore può agire in giudizio e proporre impugnazioni, nell’ambito delle attribuzioni conferitegli dall’articolo 1130 c.c., anche senza apposita autorizzazione, e tale potere perdura anche nel caso di cessazione dalla carica, fino alla sostituzione; la cessazione del rapporto di rappresentanza per sostituzione dell’amministratore diviene rilevante durante il corso del giudizio in quanto l’evento sia notificato alle altre parti dal procuratore costituito. In mancanza di tale notifica, tale qualità si presume, se non ritualmente contestata dalla controparte, nel qual caso occorre produrre tempestivamente in giudizio la relativa prova [1].

L’amministratore apparente

Ai sensi dell’articolo 1131 c.c., il terzo che vuol far valere in giudizio un diritto nei confronti del condominio ha l’onere di chiamare in giudizio colui che ne ha la rappresentanza sostanziale secondo la delibera dell’assemblea dei condòmini e, pertanto, non può tener conto di risultanze derivanti da documenti diversi dal relativo verbale: ciò in quanto il principio dell’apparenza del diritto è inapplicabile alla rappresentanza nel processo, essendo in quest’ultimo escluso sia il mandato tacito, sia l’utile gestione. Ne deriva che la notifica di un atto processuale ad un soggetto che non sia stato nominato amministratore del condominio è giuridicamente inesistente, mancando il presupposto della sua legittimazione processuale. La legittimazione ad agire dell’amministratore del condominio nel caso di azioni reali concernenti l’esistenza, il contenuto o l’estensione dei diritti spettanti ai singoli condòmini in virtù dei rispettivi acquisti — diritti che restano nell’esclusiva disponibilità dei titolari — può trovare fondamento soltanto nel mandato conferito all’amministratore da ciascuno dei partecipanti e non nel meccanismo deliberativo dell’assemblea condominiale, ad eccezione delle equivalenti ipotesi di una unanime positiva deliberazione di tutti i condòmini [1].

La legittimazione ad agire del condomino

$
0
0
tribunale-palazzo di giustizia

La legittimazione a rappresentare in causa il condominio dell’amministratore e del singolo condomino.

I singoli condòmini sono legittimati ad intervenire ed a proporre impugnazioni nelle liti nelle quali l’amministratore stia in giudizio per il condominio. Nei casi di tali interventi ed impugnazioni, la rappresentanza dell’amministratore del condominio si restringe a quei condòmini non costituitisi nel giudizio [1]. La peculiare natura del condominio comporta comunque che l’iniziativa giudiziaria di quest’ultimo a tutela di un diritto comune dei condòmini non priva i medesimi del potere di agire personalmente a difesa di quel diritto nell’esercizio di una forma di rappresentanza reciproca atta ad attribuire a ciascuno una legittimazione sostituiva scaturente dal fatto che ogni singolo condomino non può tutelare il proprio diritto senza necessariamente e contemporaneamente difendere i diritti degli altri condòmini.

Il condomino che interviene è parte originale

Pertanto, il condomino che interviene personalmente nel processo promosso dall’amministratore per far valere diritti della collettività condominiale non è un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei ma è una delle parti originarie determinatasi a far valere direttamente le proprie ragioni, sicché, ove tale intervento sia stato spiegato in grado di appello, non possono trovare applicazione i principi propri dell’intervento dei terzi in quel grado fissati nell’articolo 344 c.p.c. [2]. I condòmini, i quali non hanno personalmente partecipato al giudizio di primo grado siccome rappresentati nel processo dall’amministratore del condominio, possono proporre impugnazione in luogo dell’amministratore, presente nel giudizio di primo grado, ma non appellante. Non sussistono, infatti, impedimenti a che i singoli condòmini, i quali in primo grado hanno partecipato al giudizio siccome rappresentati dall’amministratore, propongano personalmente l’impugnazione, se l’amministratore non impugna [3].

In tema di condominio, l’attribuzione, in determinate materie, all’amministratore della legittimazione ad agire in nome del condominio non priva i singoli condòmini del potere di agire a difesa dei propri diritti esclusivi o dei diritti comuni. Tuttavia, la legittimazione del singolo condomino ad agire per la tutela di un proprio diritto esclusivo non comporta la legittimazione ad agire per la tutela di analoghi diritti esclusivi degli altri condòmini [4].

Ogni partecipante al condominio è titolare della facoltà di agire anche da solo e individualmente a difesa dei diritti comuni inerenti al fabbricato condominiale ed alle sue componenti [5].

Impugnativa della delibera di nomina dell’amministratore

La legittimazione all’impugnativa della delibera di nomina dell’amministratore spetta esclusivamente all’amministratore  con  esclusione della possibilità di  impugnativa da parte del singolo condomino, perché trattasi di  delibera  avente la finalità di assicurare la gestione del servizio comune intesa in senso strumentale. Per cui tali delibere tendono a soddisfare soltanto esigenze collettive della gestione stessa, senza attinenza all’interesse esclusivo di uno o più partecipanti, per cui manca la legittimazione ad agire in capo ai singoli condomini [6].


Che fare se non mi pagano l’affitto?

$
0
0

Ho dato in locazione tramite agenzia il mio appartamento a una signora che, dopo un po’, non mi ha più pagato il canone. Dice che lo farà ma ne dubito. Che fare?

In caso di mancato pagamento dei canoni di locazione il lettore ha, principalmente, due possibilità:

  • può chiedere che un giudice intimi lo sfratto, al fine di risolvere il contratto ed ottenere nuovamente la disponibilità dell’immobile;
  • può presentare un ricorso per decreto ingiuntivo, chiedendo che venga intimato alla signora il pagamento di quanto gli deve.

In entrambi i casi sarà necessaria l’assistenza di un legale.

Visti i timori del lettore, la soluzione migliore sia quella di risolvere il contratto e cercare un inquilino che possa garantirgli con più sicurezza il pagamento del canone.

A tal fine, si consiglia di procedere subito con l’azione tesa allo sfratto, poiché nel caso di locazione ad uso abitativo come quello nel caso di specie, dovrà attendere parecchi mesi prima di ottenere qualsivoglia data di rilascio su ordine del giudice, a maggior ragione se l’attuale inquilino ha figli minorenni.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Alessandro Dini

Come fare per comprare casa con i soldi di una vincita?

$
0
0

Mio figlio deve acquistare una casa e, oltre a una mia donazione, deve versare 40.000 € in contanti frutto di vincite alle macchinette. Come deve comportarsi?

La legge [1] non stabilisce alcun limite all’uso dei contanti nel caso di prelevamenti o versamenti sul proprio conto (bancario o postale che sia), ma solo se i movimenti di contante avvengano tra soggetti diversi. In particolare, la legge impone il divieto di pagare in contanti (a soggetti diversi) le cifre di importo pari o superiore ai 1000 euro, limite oltre cui i pagamenti devono essere effettuati con moneta elettronica, bonifici, assegni nominativi o altri strumenti finanziari che consentano la ricostruzione delle transazioni (cosiddetta tracciabilità). Alcuni istituti bancari, tuttavia, richiedono di compilare un modulo e di acquisire informazioni (oltre quelle già detenute e relative al profilo personale del correntista) anche per movimentazioni di contanti (prelievi o versamenti) sul proprio conto. In tale modulo, potrebbe essere chiesto al figlio del lettore di giustificare la provenienza del danaro versato sul conto al diverso fine di operare delle valutazioni circa la ricorrenza di un’operazione sospetta di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Ove ciò dovesse accadere al figlio (se cioè gli fosse chiesto di compilare un modulo in occasione del versamento sul proprio conto di contante per importo pari o superiore a 1.000,00 euro), comunque la legge non impedisce di versare somme pari o superiori ai 1.000 euro sul proprio conto. Al diverso scopo di valutare se trattasi di operazione di riciclaggio o di finanziamento al terrorismo, converrà però al figlio di spiegare comunque la provenienza del contante attraverso l’esibizione (e ove occorra l’allegazione al modulo) delle copie dei tagliandi vincenti e fornendo ogni altra utile informazione su tale vincita. E ciò per evitare una possibile segnalazione di operazione sospetta (sospetto che può essere desunto dalle caratteristiche, entità e natura dell’operazione e da ogni altra circostanza conosciuta sulla base delle funzioni esercitate dal soggetto che effettua l’operazione e tenuto conto anche della capacità economica o dall’attività svolta dallo stesso).

Infine, per il pagamento nei confronti del venditore dell’immobile (una volta versato il contante sul conto), dovrà ovviamente procedere al pagamento a mezzo di bonifico o ricevuta bancaria o cambiale o bollettini mav/rav o assegno non trasferibile sia bancario che circolare o, infine, moneta elettronica.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte

Delibere assembleari: nullità e annullabilità

$
0
0

Come e quando impugnare le votazioni dell’assemblea di condominio: i termini e i vizi che comportano nullità e annullabilità della delibera.

La differenza tra nullità ed annullabilità di una deliberazione condominiale riveste una importanza fondamentale in relazione alla impugnativa della delibera assembleare.

La comprensione delle differenze tra queste due categorie giuridiche, rapportate alle peculiarità della disciplina del condominio, comporterebbe — da un lato — uno snellimento del contenzioso, che sarebbe così epurato da impugnazioni evidentemente tardive e — dall’altro — l’eliminazione del metodo casistico con cui, talvolta, i giudici di merito affrontano e risolvono le singole controversie, con una conseguente uniformità di giudizi per fattispecie che divergono soltanto per aspetti secondari. Tale uniformità di giudizi, assicurerebbe, poi, l’applicazione del principio della certezza del diritto e di eguaglianza di regolamento, rispetto a posizioni uguali.

Preliminarmente occorre precisare che a seguito della riforma del 2012, i casi di annullabilità sono espressamente previsti dal codice civile, che all’articolo 1137 sancisce: «Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al  regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. L’azione di annullamento non sospende l’esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria».

Le azioni con cui si vantano le nullità, invece, sono elaborazioni della dottrina che fa riferimento ai vizi generali del negozio giuridico: mancanza della volontà, contrarietà a norme imperative, mancanza dell’oggetto  ecc.

Le definizioni giurisprudenziali di nullità e annullabilità delle delibere

Incominciamo la nostra analisi da due decisioni della Corte di Cassazione [1] con cui si è chiarito il discrimine tra annullabilità e nullità delle delibere.

È stato stabilito che i casi di nullità possono essere ricondotti alla impossibilità ed alla illiceità dell’oggetto, mentre per tutti gli  altri, si è in presenza di ipotesi di mera annullabilità.

Ciò si è affermato, mutando profondamente l’atteggiamento della Suprema Corte precedente a queste due pronunce, in quanto si è fortemente ridimensionato il campo di azione della nullità, con corrispondente allargamento della nozione di annullabilità alle ipotesi residuali. Tale spostamento del discrimine tra le due categorie, che ha il pregio di limitare le impugnazioni di delibere assembleari, anche lontane nel tempo e spesso per fondamento opposizioni a decreti ingiuntivi per oneri condominiali non pagati, ed in definitiva di cristallizzare situazioni che, se pur nate a seguito di un procedimento viziato, non siano state impugnate  tempestivamente.

In ciò, infatti, risiede l’aspetto pregnante della distinzione tra nullità ed annullabilità, nella prospettiva dell’esame delle liti condominiali, in quanto nel primo caso l’impugnativa può essere proposta senza limiti di tempo mentre nel secondo entro trenta giorni dall’assemblea, se il condomino che vi abbia partecipato sia stato contrario o si sia astenuto, o dalla comunicazione del verbale, se il condomino non vi abbia  partecipato.

Parimenti importante risulta il dato che, in caso di nullità, l’impugnativa può proporla chiunque dei condòmini mentre nell’altro caso, soltanto colui che sia stato pregiudicato dalla deliberazione.

Con il novello indirizzo giurisprudenziale, ci si è uniformati al regime, codicisticamente previsto, per le società di capitali, attraverso un procedimento logico e giuridico che passa per la armonizzazione delle norme sul condominio con quelle previste per la comunione in  generale.

In buona sostanza, si ritiene che se in tema di comunione, l’articolo 1105, terzo comma c.c. prevede che, per la validità delle deliberazioni, tutti i partecipanti devono essere stati preventivamente informati dell’oggetto della delibera e, l’articolo 1109 c.c. contempla, nel caso in cui non sia stata osservata la disposizione del terzo comma dell’articolo 1105 cit., il potere di ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente di impugnare le deliberazioni nel termine di decadenza di trenta giorni, la statuizione del termine di decadenza esclude che, in tema di comunione, il difetto di informazione configuri una causa di nullità. Conseguentemente, nel ragionamento seguito dalla Suprema Corte, sarebbe ragionevole dubitare che l’articolo 1136, sesto comma c.c., in tema di condominio, disciplinando la stessa fattispecie  e usando la stessa formula, alla mancata convocazione di un condomino abbia ricollegato conseguenze diverse e ben più gravi.

Articolando, poi, un collegamento con il regime previsto per il negozio giuridico e, meglio ancora, per le società di capitali, in virtù del quale l’articolo 2379 c.c. delimita la nozione di nullità delle deliberazioni delle società per azioni alle sole ipotesi di impossibilità ed illiceità dell’oggetto [2], lo applica alla disciplina del condominio.

La delibera nulla e la delibera annullabile

È nulla, quindi, la delibera quando è assente o è del tutto carente un elemento costitutivo, secondo la configurazione richiesta dalla legge, per cui essa si considera inidonea a dar vita alla nuova situazione giuridica, che il diritto ricollega al tipo legale, in conformità con la funzione economico — sociale sua caratteristica; per contro è annullabile la delibera in presenza di deficienze considerate meno gravi, secondo la valutazione degli interessi da tutelare fatta dalla legge. Annullabile, quindi, è l’atto in cui un elemento essenziale sia viziato: l’atto che, pur non mancando degli elementi essenziali del tipo e dando vita precaria alla nuova situazione giuridica che il diritto ricollega al tipo legale, può essere rimosso.

Conseguentemente, in materia di condominio degli edifici, non sono ammissibili cause di nullità diverse dalla impossibilità giuridica e dalla illiceità dell’oggetto, intendendosi per impossibilità giuridica la inidoneità degli interessi contemplati ad essere regolati dall’assemblea che delibera a maggioranza ovvero a ricevere quel determinato assetto stabilito in concreto, e per illiceità dell’oggetto la violazione delle norme imperative, alle quali l’assemblea non può derogare, ovvero la lesione diritti individuali, attribuiti ai singoli dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni.

La mancata convocazione come causa di annullabilità

Per rimanere al caso trattato dalla innovativa pronuncia della Corte di Cassazione [3], quindi, in caso di mancata convocazione di un condomino all’assemblea condominiale, in quanto non rientrante nei casi di nullità individuati, della impossibilità giuridica e dell’illiceità dell’oggetto, si verte in ipotesi di annullabilità della deliberazione e, come tale, il termine di decadenza per la sua impugnazione è di trenta giorni dalla assemblea o dalla comunicazione e soltanto da parte del soggetto leso, e non più da parte di tutti i   condòmini.

Il principio è confermato da una successiva decisione, secondo cui le delibere condominiali, analogamente a quelle societarie, sono nulle soltanto se hanno un oggetto impossibile o illecito, ovvero che non rientra nella competenza dell’assemblea, o se incidono su diritti individuali inviolabili per legge. Sono invece annullabili, nei termini previsti dall’articolo 1137 c.c., le altre delibere «contrarie alla legge o al regolamento di condominio», tra cui quelle che non rispettano le norme che disciplinano il procedimento, come ad esempio per la convocazione dei partecipanti, o che richiedono qualificate maggioranze per formare la volontà dell’organo collegiale, in relazione all’oggetto della delibera da approvare [4].

Il mutamento di rotta è di tutta evidenza, se solo si pone lo sguardo all’ampia giurisprudenza precedente che faceva conseguire alla mancanza della convocazione l’inevitabile nullità assoluta della delibera, che poteva esser fatta valere da qualsiasi condomino anche presente in assemblea [5].

Il nuovo orientamento pare in linea con l’esigenza, da perseguire, di certezza dei rapporti e con la conseguente intollerabilità di situazioni che, ormai consolidatesi nel tempo, possano essere rimesse in discussione senza che alcun fondamentale diritto sia stato violato.

Considerato l’ambito di applicazione delle norme condominiali ed il forte restringimento delle ipotesi di nullità, in previsione della riforma della normativa si potrebbe ipotizzare l’allungamento del termine previsto dall’articolo 1137 c.c. a sessanta giorni, decorrenti dall’assemblea — per i presenti dissenzienti — e dalla comunicazione, per gli  assenti.

L’ultima considerazione da fare è quella relativa ai vizi procedimentali, che se non impugnati nei trenta giorni, non potranno più costituire, come lo erano stati fino ad ora, un’occasione in sede di opposizione a decreto ingiuntivo con il quale si chiedeva il pagamento degli oneri condominiali, per paralizzare, con una nullità l’azione di recupero, fondando sul vizio della delibera posta a fondamento stesso della spesa effettuata, che veniva, ad es. per mancata convocazione dello stesso condomino che poi si oppone, ad essere artatamente sfruttata per interessi egoistici.

Questo nuovo indirizzo della Suprema Corte in materia di nullità e annullabilità delle delibere condominiali è stato confermato con la sentenza resa a Sezioni Unite [6]. Essa costituisce un vero e proprio trattato sulla questione nullità-annullabilità delle delibere condominiali. Il motivo di detta decisione consiste nel fatto che il nuovo indirizzo giurisprudenziale (dal 2000 in poi) ogni tanto veniva disatteso da sentenze isolate della stessa Corte di Cassazione, da ciò la necessità di una sentenza resa a Sezioni Unite.

In particolare tale sentenza ha evidenziato che i vizi dell’oggetto come causa di nullità sono ricollegati ai confini posti in materia di condominio al metodo collegiale ed al principio di  maggioranza.

Secondo la Corte «tanto l’impossibilità giuridica, quanto l’illiceità dell’oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all’assemblea, considerato che la prima consiste nell’inidoneità degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l’assetto stabilito in concreto e che la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, cui l’assemblea non può derogare, ovvero con la lesione di diritti individuali.

Per tali motivi il dettato di cui all’articolo 1137 c.c. va interpretato nel senso che, per deliberazioni contrarie alla legge, si intendono le delibere assunte dall’assemblea senza l’osservanza delle forme prestabilite dall’articolo 1136 (ma pur sempre nei limiti delle attribuzioni di cui agli articoli 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.). Inoltre, le cause di nullità, afferente all’oggetto, raffigurano le uniche cause di invalidità riconducibili alla sostanza degli atti, alle quali l’ordinamento riconosce rilevanza e costituendo vizi gravi non sono soggette a termine di  impugnazione».

La classificazione delle delibere annullabili

Per cui volendo operare una classificazione, sono da considerare annullabili le delibere che decidono in violazione di:

  • regole sul procedimento di convocazione dell’assemblea;
  • regole sulla costituzione dell’assemblea;
  • regole sulla concreta ripartizione dei contributi condominiali;
  • norme sul funzionamento dell’assemblea (deleghe);
  • mancato raggiungimento dei quorum previsti per legge.

Inoltre, sono annullabili le delibere che sono gravemente pregiudizievoli delle cose comuni e che invadono il campo esecutivo  dell’amministratore.

Le ipotesi di delibere radicalmente nulle

Sono invece da considerarsi radicalmente nulle le delibere:

  • prive degli elementi essenziali;
  • prese al di fuori dell’assemblea;
  • contrarie a norme di ordine pubblico (penali, amministrative, fiscali);
  • prese al di fuori delle competenze dell’assemblea (al di fuori dell’oggetto parti comuni);
  • che ledano il diritto di uno o più condòmini sulle parti comuni (innovazioni vietate);
  • che incidono sulla proprietà esclusiva;
  • invalide in relazione all’oggetto, ossia quelle viziate da eccesso di potere (quando quella composizione assembleare non è quella competente a deliberare, ad esempio: la delibera del supercondominio composto da più fabbricati che approva i lavori di rifacimento delle facciate che sono bene comune di singoli fabbricati e non del supercondominio; oppure la delibera di approvazione della pitturazione della scala A di un condominio composto da più scale, approvata in sede di assemblea generale di tutti i condomini del fabbricato) [7].

Dal punto di vista pratico la decisione in esame costituisce una sicura traccia per tutti gli operatori del diritto siano essi avvocati o amministratori di condominio. Infatti, questi ultimi sono tenuti a porre in esecuzione solo le delibere annullabili e non quelle completamente nulle.

Appartamento condominiale pignorato: come si ripartisce il suo debito?

$
0
0

Condominio costituito da 6 scale/civici. Il debito per le spese condominiali di un immobile pignorato dovrà essere suddiviso su tutto il condominio o solo sulle proprietà del civico in cui insiste l’appartamento pignorato?

La risposta al quesito presuppone che sia data conferma ad un dato preliminare. È cioè indispensabile sapere se esistono parti comuni a tutti i sei edifici, cioè se tutti i condomini-proprietari che abitano le sei distinte scale dispongono di parti (ad esempio viali, cortili, parcheggi e simili) che per loro destinazione o per l’uso che se ne fa possano considerarsi comuni a tutti e sei i civici e non ad alcuni soltanto di essi. Se così fosse, ci troveremmo dinanzi al cosiddetto “supercondominio[1] che non è altro se non quel fenomeno che si verifica allorchè esistono parti comuni a più edifici o a più condomini. Questa premessa risulta essenziale perché alla domanda del lettore si risponde dicendo che i debiti del condomino moroso, ove nel suo caso esistessero i presupposti per dirsi esistente un supercondominio (ed il presupposto è, appunto, quello che si è indicato poco sopra: cioè l’esistenza di parti comuni a tutti indistintamente i sei edifici), andrebbero ripartiti a seconda che facciano riferimento a debiti relativi esclusivamente alle parti comuni alla singola scala ovvero a debiti relativi alle parti comuni di tutti e sei i civici. In altri termini: i debiti del condomino, ove esistessero parti comuni a tutti e sei i civici, andrebbero distinti in debiti per le spese della parti comuni della singola scala (da ripartirsi solo fra i proprietari di quella scala) e debiti per le spese relative alle parti comuni a tutti i civici (da ripartirsi ovviamente fra tutti i proprietari di tutti i civici). Naturalmente, tale ripartizione richiederebbe una contabilità distinta che l’amministratore dovrebbe aver cura di tenere. In ogni caso, se esistono parti comuni a tutti i civici, la ripartizione da tenere in considerazione è quella indicata indipendentemente dal fatto che vi sia stata o meno una distinta gestione contabile per il supercondominio e per le singole scale.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte

Che cos’è il diritto di prelazione dell’inquilino?

$
0
0

Se il proprietario/locatore vuol vendere l’immobile locato, l’inquilino ha il diritto di prelazione sull’acquisto. Modalità e limiti del diritto di prelazione.

 

In presenza di un contratto di locazione, la legge disciplina le regole che il proprietario deve rispettare alla scadenza del primo periodo di decorrenza contrattuale. Sostanzialmente, a parte alcuni casi particolari (tra questi, la decisione di vendere l’immobile affittato), il locatore deve concedere il rinnovo all’inquilino.

Ebbene, se alla prima scadenza contrattuale, il proprietario è intenzionato a cedere il proprio appartamento, deve concedere al conduttore (cioè l’inquilino) la possibilità di acquistarlo a preferenza sugli altri ipotetici e potenziali acquirenti. Tecnicamente, tale diritto si definisce di prelazione.

 

Che cos’è il diritto di prelazione dell’inquilino?

Il contratto di locazione abitativa ha, normalmente, una durata di 4 anni, con la possibilità di rinnovo automatico per un periodo corrispondente (cioè altri 4 anni). Detto ciò, la legge [1], consente al proprietario d’impedire il predetto rinnovo automatico soltanto in presenza di alcune circostanze, tassativamente indicate.

Ad esempio, il proprietario può inviare disdetta all’inquilino se vuole destinare l’immobile a uso abitativo, artigianale, commerciale o professionale proprio o del coniuge, dei genitori, dei figli e dei parenti entro il secondo grado.

Oppure, sempre ad esempio, il proprietario può evitare il rinnovo per i successivi 4 anni, allorquando voglia vendere l’immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili a uso abitativo, oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione.

Ebbene in quest’ultimo caso, cioè se è intenzione del locatore vendere l’immobile affittato, deve necessariamente riconoscere all’inquilino, il diritto di prelazione sulla predetta vendita.

In altre parole, deve essere concessa al conduttore la possibilità di acquistare l’immobile locato prima ed a preferenza rispetto a tutti gli altri. Ovviamente tale facoltà potrà essere esercitata limitatamente, e cioè entro sessanta giorni dalla comunicazione ricevuta, soltanto se saranno rispettate le condizioni di vendita proposte dal proprietario, tra le quali chiaramente, il prezzo richiesto.

È bene precisare che, se il locatore non rispetterà il diritto di prelazione concesso dalla legge a favore dell’inquilino, ad esempio vendendo l’appartamento locato senza avvisare il conduttore, questi potrà esercitare il diritto di riscatto nei riguardi dell’acquirente dell’immobile e/o dei successivi, entro sei mesi dalla trascrizione del contratto [2].

L’inquilino ha sempre il diritto di prelazione?

Il diritto di prelazione è concesso all’inquilino soltanto in occasione della prima scadenza, cioè qualora il proprietario abbia manifestato la volontà d’impedire il rinnovo del contratto, ad esempio, per gli ulteriori 4 anni, motivandolo con l’intenzione di vendere l’immobile locato.

Tale conclusione è stata sancita dalla Suprema Corte di Cassazione la quale ha precisato che il «diritto di prelazione non è normativamente previsto, in favore del conduttore in assoluto, in quanto conduttore, ma solo nella limitata ipotesi in cui il locatore gli abbia intimato disdetta per la prima scadenza, comunicandogli di voler cedere la proprietà a terzi. E ciò, come misura atta a compensare in qualche modo il sacrificio del mancato godimento dell’immobile tolto in locazione, per l’ulteriore quadriennio normativamente previsto, a fronte della utilità, per il locatore, purchè sprovvisto di altri immobili ad uso abitativo, oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione, di poter vendere a terzi il bene» [3].

Viewing all 10351 articles
Browse latest View live