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Tetto in eternit: il compromesso è valido?

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Amianto: la legge impone la rimozione al proprietario dell’immobile, ma non sanziona la vendita.

Il capitolo amianto è ancora caldissimo: sono migliaia ancora i siti in Italia ricoperti di eternit. E nonostante la legge abbia imposto dei precisi obblighi di rimozione ai proprietari di immobili, c’è ancora chi non solo è inottemperante, ma cerca anche di rifilare la patata bollente ad altri, vendendo l’abitazione con la copertura in amianto. Ma che succede se si scopre solo in un secondo momento che nell’immobile acquistato è presente il materiale notoriamente nocivo per la salute? Se il tetto è in eternit, il compromesso è valido? A dare una soluzione è una recente ordinanza della Cassazione [1]. Ma procediamo con ordine e pariamo da un esempio.

Immaginiamo una persona interessata ad acquistare una casa; dopo aver visto numerosi appartamenti si convince per una piccola villetta bifamiliare. Firma così il compromesso con il proprietario. In attesa di andare dal notaio, il futuro acquirente fa visionare l’immobile a un amico, tecnico e specializzato del settore, il quale nota che la copertura di una dependance è in eternit e che, pertanto, va immediatamente rimossa. Così parte subito la diffida al venditore, che viene posto davanti a una secca scelta: o restituire tutto il prezzo dell’anticipo e sciogliere il contratto o provvedere lui stesso allo smantellamento dell’amianto, sostenendo le relative spese. Quest’ultimo però non ne vuole sapere; sostiene che, essendo la copertura del tetto ben visibile, l’acquirente ben poteva, con un po’ di diligenza in più, accorgersi del problema. E, anzi, sospetta che dietro tale richiesta si nasconda solo il pretesto per liberarsi dall’accordo dopo aver trovato un’occasione più conveniente. Tra i due inizia così una causa. Chi ha ragione? Il venditore che ritiene di essersi comportato in buona fede per non aver oscurato il tetto in amianto? O l’acquirente che, ammettendo la propria ignoranza tecnica, sostiene che gli è stato venduto un bene di valore inferiore a quello rappresentato?

La Cassazione, in questo caso, dà ragione al venditore. Prima però di dispiegare perché e, soprattutto, “quando” il compromesso è valido se il tetto della casa è in amianto, ricordiamo la lettura delle nostre due guide su questo tema: Cosa fare se il vicino ha la tettoia in eternit e A chi spetta rimuovere l’amianto da un immobile.

Secondo la Suprema Corte, se il futuro acquirente scopre solo dopo aver firmato il compromesso che il tetto dell’edificio è in eternit non può chiedere la risoluzione del preliminare di vendita qualora l’immobile sia comunque abitabile e privo di pericolo effettivo. La legge del 1992 [2] vieta, infatti, la vendita e l’utilizzo di tale materiale ma non prevede la rimozione generale dello stesso nelle costruzioni già esistenti al momento della sua entrata in vigore.

C’è però sempre la possibilità di chiedere la riduzione del prezzo della vendita, atteso che l’abitazione, con l’amianto da smantellare, può risultare di qualità inferiore rispetto a quella rappresentata durante le trattative. Ma su questo incide molto la specifica pericolosità della copertura. E a tal fine è necessario far intervenire l’Arpa (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente). Se quest’ultima verifica che la presenza dell’amianto, nel caso concreto, non comporta alcun rischio per la salute (ad esempio perché tenuto in buon stato o perché si tratta di minima estensione) e che pertanto l’immobile è idoneo ai fini abitativi, allora non può trovare ingresso neanche la richiesta di uno “sconto” sul prezzo di vendita. Insomma, tutto va valutato in base alle caratteristiche della copertura: non è sempre detto che la presenza del tetto in amianto diminuisca il valore dell’abitazione tale da poter giustificare la risoluzione del contratto.

La Cassazione ricorda che la legge 257/92 citata vieta «per il futuro la commercializzazione e l’utilizzazione di materiali costruttivi in fibrocemento, ma non impone la rimozione generalizzata di tali materiali nelle costruzioni (come quella oggetto di promessa di vendita) già esistenti al momento della sua entrata in vigore».


Vendita immobile: a carico di chi sono le spese di condominio?

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Spese ordinarie: responsabile il solido l’acquirente solo per gli arretrati dell’anno in corso e di quello precedente. Spese straordinarie: conta chi era condomino all’approvazione dei lavori.

Nel caso di vendita di un appartamento chi deve pagare le spese di condominio eventualmente lasciate in arretrato dal vecchio proprietario? E chi deve versare  quelle derivanti da lavori straordinari approvati dall’assemblea prima del rogito? I chiarimenti arrivano da una recente ordinanza della Cassazione [1]. La Corte fornisce la soluzione per dirimere tutte quelle questioni che, spesso, conseguono alla vendita di un immobile: a carico di chi sono le spese di condominio? Deve pagare il venditore, al corrente della morosità in quanto titolare dell’appartamento all’epoca in cui il debito è sorto? oppure l’acquirente che, al momento della riscossione, è invece l’unico condòmino e, come tale, soggetto passivo delle richieste  dell’amministratore? Cosa prevede la legge in questi casi? Cerchiamo di fornire una soluzione.

Per stabilire a carico di chi sono le spese di condominio dopo la vendita dell’immobile, è bene fare una distinzione fondamentale tra oneri ordinari di gestione e spese straordinarie. E a tal fine richiamiamo quanto abbiamo già detto nella nostra guida Spese di condominio: paga chi compra o chi vende?

Come non pagare le spese di condominio lasciate dal venditore? Con l’attestazione dell’amministratore!

Oneri della gestione ordinaria di condominio

Quando si parla, genericamente, delle «spese di condominio» ci si riferisce di solito alla gestione ordinaria, ossia al contributo mensile che, in forma fissa, bisogna versare per contribuire alle spese di amministrazione e tenuta delle cose comuni (pulizia scale, luce, ascensore, giardino, ecc.). Chi deve pagare queste spese: il venditore dell’appartamento o l’acquirente? In questo caso, il codice civile stabilisce che:

  • per le spese relative all’anno in cui è avvenuto il passaggio di proprietà (a prescindere che esso consegua a vendita, donazione, ecc.) e per quelle dell’anno precedente, l’amministratore può rivolgersi sia al venditore che all’acquirente. In altre parole può chiedere, indifferentemente, sia all’uno che all’altro l’integrale versamento della somma lasciata in sospeso. A riguardo si parla di «responsabilità in solido»;
  • per le spese relative agli anni pregressi resta responsabile solo il venditore;
  • per le spese relative agli anni successivi a quello del rogito è obbligato solo l’acquirente.

Come detto, per l’anno in cui è avvenuta la vendita e per quello precedente esiste una responsabilità in solito tra venditore e acquirente. L’amministratore potrebbe chiedere l’intero pagamento all’uno o all’altro. Se intimato a pagare è l’acquirente, questi deve corrispondere all’amministratore quanto dovuto per dette spese e poi richiedere al venditore il rimborso di quanto ha dovuto versare.

Come si difende l’acquirente che non vuol pagare il condominio?

Come può difendersi l’acquirente che non vuol subire il rischio di pagare le morosità del venditore? In due modi:

  • chiedere al venditore di farsi rilasciare dall’amministratore di condominio una certificazione con cui si attesti che non vi sono arretrati e che, alla data della vendita della casa, sono state integralmente pagate le spese condominiali maturate fino a quel momento. Non è diritto dell’acquirente richiede personalmente tale dichiarazione all’amministratore, il quale ben potrebbe opporsi per tutelare la privacy di chi, in quel momento, è ancora condomino; ma può pretendere che sia il venditore a procurarsi tale documentazione;
  • stabilire nel contratto di vendita che delle spese di condominio eventualmente maturate nell’anno in corso o in quello precedente si faccia carico solo il venditore e che, quindi, non ricadano anche sull’acquirente. Attenzione però: tale patto ha valore solo tra le parti e, quindi, non vincola anche il condominio che ben potrà rivolgersi ugualmente al nuovo condomino (salvo poi il diritto di regresso verso il venditore).

Spese per lavori straordinari

Diverso è il discorso quando si parla di oneri straordinari, ossia di quelle spese deliberate dall’assemblea una tantum per lavori che non riguardano la gestione ordinaria. In questo caso, secondo la sentenza in commento, in caso di vendita dell’appartamento, è tenuto a pagare chi era condomino al momento dell’approvazione dei lavori. Non rileva, quindi, il successivo momento di ripartizione delle spese secondo millesimi. Per comprendere meglio la questione ricorriamo a un esempio.

L’eventuale clausola nel contratto di vendita che stabilisce la responsabilità del solo venditore non ha effetto verso il condomino

L’esempio

Immaginiamo che l’assemblea di condominio voglia rifare il tetto. Vengono presentati più preventivi dalle ditte interessate a svolgere l’appalto. L’assemblea decide di affidare i lavori a una di queste e, pertanto, dopo aver approvato il preventivo, autorizza l’amministratore a firmare il contratto. Così avviene e l’impresa manda sul cantiere i propri operai. Dopo qualche mese i lavori vengono ultimati e la ditta presenta la fattura. L’amministratore provvede alla ripartizione della spesa secondo i millesimi di ciascun condomino e porta il piano di divisione in assemblea affinché venga approvato, in modo da poter poi procedere alla riscossione delle singole quote. Senonché, una settimana prima di quest’ultima assemblea, uno dei condomini vende il proprio appartamento; l’acquirente, non informato della precedente riunione che aveva approvato il rifacimento del tetto, si trova a “giochi fatti”, a dover sostenere una spesa non preventivata. In particolare, il nuovo condomino sostiene di non dover pagare la quota perché di tanto non era stato messo al corrente; spetta quindi al venditore pagare degli oneri che lui stesso, del resto, alla prima assemblea, aveva approvato. Il condominio però non ne vuole sapere e sostiene che è proprio diritto riscuotere gli oneri da chi, in quel momento, ha la qualità di condòmino. Chi ha ragione tra i due?

A pagare le spese straordinarie è chi ha approvato i lavori

Il principio espresso dalla sentenza Cassazione afferma che è responsabile del pagamento delle spese condominiali per lavori la persona che era proprietaria al momento dell’approvazione degli stessi, non rilevando la circostanza che questa abbia venduto la propria abitazione prima dell’assemblea di ripartizione delle spese. In altre parole, tenuto al versamento delle quote millesimi è l’ex condomino ed è solo a quest’ultimo che l’amministratore può notificare il decreto ingiuntivo. È irrilevante la vendita dell’appartamento prima della assemblea di ripartizione delle somme.

Secondo la Corte, infatti, a rendere obbligato l’ex condomino al pagamento delle spese era il fatto di avere avuto la qualifica di condomino al momento dell’assemblea di approvazione dei lavori; invece, la successiva assemblea di ripartizione delle spese deve considerarsi non come momento costitutivo dell’obbligazione, ma solo come momento di precisazione dell’importo da corrispondere.

Come mandare via l’amministratore di condominio senza avvocato

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In caso di gravi irregolarità commesse durante la gestione del condomìnio, il singolo condòmino può ricorrere al giudice, anche senza avvocato, per mandare via l’amministratore.

Se l’amministratore non vuole andarsene e, nonostante le gravi inadempienze, fa di tutto per non convocare l’assemblea necessaria alla sua revoca, ogni singolo condòmino può ricorrere al tribunale affinché dichiari decaduto l’amministratore d’urgenza. Se però fare una causa può essere un disincentivo, sia in termini di costi che di tempo, arriva una buona notizia dalla Cassazione [1]: il ricorso – che si svolge in forma camerale (e, quindi, con forme libere e celeri) – non necessita di avvocati. Insomma, la parte può difendersi anche da sé. Ma procediamo con ordine e vediamo come mandare via l’amministratore di condominio senza avvocato.

Come si revoca l’amministratore di condominio?

Revoca senza giusta causa

L’amministratore non è un lavoratore dipendente del condominio e, quindi, come tutti i professionisti con un contratto “esterno”, può essere mandato via in qualsiasi momento e anche senza bisogno di motivazioni particolari. Tuttavia, in assenza di giusta causa, l’amministratore revocato potrà chiedere all’assemblea il risarcimento del danno (anche se tale possibilità non è riconosciuta da tutti i giudici) pari al compenso che avrebbe ricevuto se il contratto fosse stato rispettato.

La revoca dell’amministratore può essere decida dall’assemblea con la seguente maggioranza: 50%+1 degli intervenuti che rappresentino almeno 500/1.000 del valore dell’edificio (ossia la metà dei millesimi). Attenzione però: il regolamento di condominio può prevedere maggioranze diverse.

Per una trattazione più approfondita leggi la nostra guida su Come si revoca l’amministratore di condominio.

Si può andare dal giudice per mandare via l’amministratore anche senza avvocato

Revoca per giusta causa

Se l’amministratore si macchia di colpe gestionali particolarmente gravi o che comportano danni per il condominio, ogni singolo proprietario può chiedere la convocazione dell’assemblea per mandare via il professionista. In particolare è possibile chiedere la revoca per giusta causa dell’amministratore se questi:

  • non ha aperto il conto corrente condominiale o comunque non lo utilizza correttamente e sistematicamente nell’interesse del condominio;
  • ha commesso gravi irregolarità fiscali.

La legge indica anche altre cause di irregolarità che consentono la revoca dell’amministratore:

  • l’omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto condominiale, il ripetuto rifiuto di convocare l’assemblea per la revoca e per la nomina del nuovo amministratore o negli altri casi previsti dalla legge;
  • la mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi, nonché di deliberazioni dell’assemblea;
  • la mancata apertura ed utilizzazione del conto corrente condominiale (situazione ancor più grave se si accerta una cattiva gestione dei fondi presenti sul conto corrente);
  • la gestione secondo modalità che possono generare confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell’amministratore o di altri condomini;
  • l’aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio;
  • qualora sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio, l’aver omesso di curare diligentemente l’azione e la conseguente esecuzione coattiva;
  • l’inottemperanza agli obblighi di tenuta dei registri condominiali (anagrafica condominiale, verbali assemblee, nomina e revoca amministratore, contabilità), o il non aver fornito al condominio che ne fa richiesta l’attestazione dello stato dei pagamenti delle spese condominiali e delle liti in corso;
  • l’omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati identificativi della persona o società incaricata dell’amministrazione, e l’indirizzo dei locali ove sono conservati i registri condominiali obbligatori.

La revoca dell’amministratore non deve essere per forza motivata e può avvenire in qualsiasi momento

Che fare se l’assemblea non vuol revocare l’amministratore

In caso di mancata revoca da parte dell’assemblea (perché non convocata o perché non in grado di deliberare), ciascun condomino può rivolgersi al Tribunale.
In caso di accoglimento della domanda giudiziale, il ricorrente, per le spese legali, ha titolo alla rivalsa nei confronti del condominio, che a sua volta può rivalersi nei confronti dell’amministratore revocato.

Il procedimento in tribunale per la revoca

Per il ricorso in tribunale non c’è bisogno dell’avvocato

Viene presentato ricorso per ottenere dal tribunale la revoca dell’amministratore. Per questa procedura il condomino che agisce non ha bisogno di un avvocato: il procedimento è infatti atipico perché diretto alla mera gestione di interessi nell’ambito della volontaria giurisdizione. Dunque, il singolo proprietario esclusivo che chiede al giudice la revoca dell’amministratore può difendersi personalmente perché il procedimento non decide su posizioni soggettive. Il procedimento di revoca dell’amministratore ha natura camerale e carattere eccezionale e urgente: serve infatti a evitare potenziali danni da mala gestione; risulta dunque ispirato a rapidità, informalità e ufficiosità; inoltre non viene ammessa la partecipazione del condominio e dei condomini, laddove l’unico legittimato a contraddire è l’amministratore “incriminato”.

La procedura

Il Tribunale, sentito l’amministratore in camera di consiglio, emette un decreto motivato, che accoglie o rigetta la richiesta di revoca.

Contro il decreto è possibile presentare reclamo alla corte d’appello, entro 10 giorni dalla notificazione dello stesso alle parti.

Anche la corte d’appello decide in camera di consiglio, sentito l’amministratore.

Unico legittimato a resistere in giudizio è l’amministratore, per difendere i propri interessi, e non il condominio [2].

Una volta revocato l’amministratore, il condominio deve poi provvedere a nominare un nuovo amministratore, secondo le regole generali; ma non può rinominare l’amministratore precedentemente revocato.

Zona di ville e di lusso, niente bonus prima casa

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Al di là di come è accatastata la casa, per l’agevolazione fiscale conta il piano urbanistico.

Sorpresa: chi ha comprato una casa accatastata come A/2, A/3, A/4, A/5, A/6, A/7, A/11 e, quindi, rientrante tra le categorie per le quali è ammesso il bonus prima casa, potrebbe non aver ugualmente diritto all’agevolazione fiscale se la zona ove è situato detto immobile è da ritenersi di lusso in base al piano urbanistico del Comune. Con la conseguenza che il contribuente dovrà, oltre che pagare le sanzioni all’Agenzia delle Entrate, corrispondere la differenza di imposta. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza [1].

In cosa consiste il bonus prima casa

Chi ha letto la nostra guida sull’agevolazione fiscale sulla prima casa (meglio conosciuto come «bonus prima casa») saprà che tale beneficio, consistente in un notevole risparmio di imposta:

  • in caso di vendita soggetta ad Iva (perché effettuata da un’impresa costruttrice), l’aliquota ridotta è al 4% (invece del 10%; per gli immobili A/1, A/8 e A/9 l’Iva è al 22%). Ci sono poi l’imposta di registro, l’imposta ipotecaria e quella catastale, tutte nella misura fissa di 200 euro ciascuna;
  • in caso di vendite soggette a imposta di registro (perché effettuata da privato), l’aliquota ridotta è al 2% (invece del 9%). C’è poi l’imposta ipotecaria fissa di 50 euro e l’imposta catastale fissa di 50 euro.

Su quali case è concesso il bonus

C’è poi da considerare che, insieme alle altre condizioni imposte dalla legge, è necessario che l’immobile acquistato coi benefici rientri in una delle seguenti categorie catastali:

  • A/2 (abitazioni di tipo civile)
  • A/3 (abitazioni di tipo economico)
  • A/4 (abitazioni di tipo popolare)
  • A/5 (abitazioni di tipo ultra popolare)
  • A/6 (abitazioni di tipo rurale)
  • A/7 (abitazioni in villini)
  • A/11 (abitazioni e alloggi tipici dei luoghi).

Come si vede, restano esclusi solo gli immobili di lusso ossia quelli corrispondenti alle categorie catastali

  • A/8 (abitazioni in ville)
  • A/9 (castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici).

Resta esclusa anche la categoria A/10, corrispondente a uffici e studi privati, poiché altrimenti ne resterebbe frustrata la finalità della norma di agevolare l’acquisto di immobili come abitazione.

Conta anche il piano urbanistico comunale

Con la sentenza in commento, la Cassazione ritiene che il bonus prima casa vada negato agli edifici che rientrano nella zona da ritenersi «di lusso» in base al piano urbanistico comunale; detti immobili, infatti, assumono di per sé prestigio per via dell’ambiente in cui sono collocati, a prescindere quindi dalle caratteristiche intrinseche di costruzione.

La Suprema Corte ha già chiarito in passato [2] che, in tema di benefici fiscali per l’acquisto della prima casa, l’abitazione in zona qualificata dal piano urbanistico comunale (Puc) come destinata a “ville con giardino” deve essere ritenuta di lusso. E ciò al di là delle qualità dell’immobile e dalla relativa classificazione catastale. In base alla legge del 1969 [3], infatti, conta la collocazione urbanistica che dà di per sé prestigio ai locali. Rilevano, in altri termini, non già le caratteristiche intrinseche all’edificio qualificato come “villa”, bensì l’ambiente ove è situato, il quale costituisce indice di particolare pregio e risulta quindi sufficiente, anche da solo, a qualificare la casa come “di lusso”.

Risultato: il proprietario che ha già acquistato con il bonus prima casa dovrà versare il residuo dell’imposta inizialmente pagata in modalità “scontata”. Senza contare le sanzioni.

Cosa fare prima di comprare casa

L’insegnamento che la sentenza vuole dare, prima di pagare l’aliquota ridotta del bonus prima casa, è di controllare non solo la categoria catastale dell’immobile da acquistare ma anche le previsioni del Puc del Comune (benché adottato in epoca successiva alla costruzione dell’immobile “incriminato”). Non rilevano invece le modifiche del Puc successive dell’acquisto della casa da parte del contribuente con il bonus.

 

In sintesi

Per ottenere il bonus prima casa è la destinazione urbanistica decisa dallo strumento di pianificazione territoriale adottato dal Comune. E ciò perché secondo la normativa sui benefici fiscali l’immobile inserito nella zona di lusso finisce per godere del prestigio derivante dall’ambiente circostante a prescindere dalle sue finiture e da altri elementi edilizi.

Che fare contro l’impianto di aerazione rumoroso del ristorante?

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Secondo la Cassazione il ristorante o la pizzeria non sono considerabili attività in sé rumorose; per cui ad esse si applicano le regole valide per tutti gli altri privati.

Avere un ristorante o una pizzeria sotto casa può essere una fortuna quando non c’è niente nel frigorifero. Ma nelle sere dei weekend, quando tanta gente affolla i locali, chi ha voglia di dormire trova difficile riposo. Oltre al via vai dei clienti, ci sono anche i condizionatori, necessari a garantire una temperatura accettabile per chi è seduto ai tavoli. Insomma, in queste situazioni la pace è davvero un lontano ricordo. Ma allora che fare contro l’impianto di aerazione rumoroso del ristorante? La soluzione è in una sentenza della Cassazione di qualche giorno fa [1].

Il primo aspetto da tenere presente è che, secondo i giudici, pizzerie e ristoranti non sono da considerare attività in sé «rumorose»; ad esse quindi non si applicano le specifiche normative in materia di emissioni sonore. La conseguenza è fondamentale: le soglie consentite per i locali di ristorazione non sono quelle più elevate stabilite per le attività commerciali classificate come «rumorose», attività che, senza tali previsioni, resterebbero totalmente inibite (si pensi, tanto per fare un esempio, a un aeroporto). Per ristoranti e pizzerie vale invece la disciplina del codice civile prevista per i privati cittadini, che impone ai rumori di rimanere entro la soglia della «normale tollerabilità». La norma è generica e richiede una valutazione caso per caso, a seconda della collocazione geografica dell’immobile e dell’orario di produzione del rumore (per maggiori chiarimenti leggi Quali rumori sono vietati in condominio?).

Detto ciò, tutto ciò che si deve fare per difendersi dall’impianto di aerazione del ristorante è dimostrare la rumorosità dello stesso. Lo si può fare chiamando dei testimoni, ma potrà anche essere utile una sollecitazione all’Arpa (l’Agenzia Regionale per la protezione dell’ambiente), la quale valuterà se l’impianto di aerazione è conforme a legge e le emissioni di rumore prodotte sono o meno «tollerabili».

Ultimo aspetto da tenere presente per difendersi dall’impianto di aerazione del ristorante è che, quando il rumore è avvertito da più persone (e non solo dal condomino “confinante”), siamo in presenza del reato di disturbo del riposo delle persone e, pertanto, è possibile sporgere querela ai carabinieri.

Annunci di affitti rivolti solo a una categoria di persone: è legale?

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Dalle mie parti, in numerosi annunci di affitto si specifica che l’appartamento non viene concesso a studenti universitari e immigrati extracomunitari o, comunque, stranieri: sono leciti questi divieti? La Costituzione non dovrebbe tutelarci nel sancire il principio di uguaglianza?

Il nostro ordinamento riconosce il principio di «autonomia negoziale», principio che lascia ai privati la facoltà di scegliere come, quando, con chi e se contrarre un accordo. Nessuno può essere obbligato a scegliere la propria controparte contrattuale, neanche dallo Stato o dalla Costituzione. Sarebbe un’illegittima invadenza nell’autonomia economica privata che è uno dei cardini di ogni Stato moderno. Allo stesso modo, quindi, il proprietario di un appartamento è libero di dare in affitto l’immobile a una o più categorie determinate di persone.

L’obbligo di contrarre con tutti e indistintamente esiste solo per la pubblica amministrazione o per i servizi pubblici o di pubblico interesse: ad esempio, il gestore di un’azienda di trasporti (treni, aerei, pullman, ecc.) non può impedire l’acquisto del biglietto alle persone di colore; il titolare di un cinema non può vietare l’ingresso agli immigrati; la società che gestisce una rete autostradale non può scegliere quali auto far entrare e quali no (salvo vi siano ragioni di pubblica sicurezza che prescindono, quindi, dalla persona in sé). Lo stesso principio di uguaglianza, sancito dalla nostra Costituzione al famoso articolo 3, secondo cui tutte le persone sono uguali senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, si rivolge solo alla pubblica amministrazione (ossia allo Stato) e al legislatore. Significa, in termini pratici, che se è vero che un privato può scegliere con chi concludere i propri affari (sarebbe legittimo il cartello apposto all’entrata di un negozio che vieti l’ingresso a tutte le persone non appartenenti a una determinata cerchia politica), questo non vale per un ente pubblico. Inoltre, l’articolo 3 della Costituzione è indirizzato espressamente al legislatore (Parlamento e Governo) affinché questi non scrivano mai leggi che possano pregiudicare il principio fondamentale dello Stato democratico che è appunto il principio di uguaglianza.

Risultato: è legale pubblicare annunci di affitti rivolti solo a una categoria di persone, in quanto il locatore – proprietario dell’appartamento – è libero di scegliere se e a chi dare il proprio appartamento.

Non si dimentichi poi che, come è legittimo lasciare piena autonomia di scelta al padrone di casa, è ben possibile che lo stesso regolamento di condominio contenga degli espliciti limiti. Ad esempio, l’assemblea – purché  all’unanimità – può imporre ai proprietari degli appartamenti di non dare l’immobile in affitto a studenti universitari (per via del chiasso che questi potrebbero produrre) o a soggetti stranieri ed extracomunitari. Sono limiti che valgono anche per i successivi acquirenti dell’abitazione, sempre che il limite contenuto nel regolamento – approvato, come detto, con il consenso unanime di tutti i condomini – venga reso conoscibile all’acquirente tramite richiamo nel rogito oppure trascrizione nei pubblici registri immobiliari.

Quali tasse per l’affitto della casa?

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Quando si stipula un contratto di affitto si deve pagare l’imposta di registro, l’imposta di bollo e dichiarare come redditi fondiari i canoni di locazione percepiti, che saranno tassati con l’Irpef.

Tasse e affitto: un binomio che per anni non è andato d’accordo. Tant’è che è dovuta intervenire un’apposita norma di legge [1] a stabilire che l’affitto non registrato (il cosiddetto affitto in nero) è nullo, ossia è come se non fosse mai stato firmato. Con la conseguenza che l’inquilino se ne può andare di casa quando vuole senza dover rispettare i termini contrattuali, può smettere di pagare il canone senza il rischio di ricevere ingiunzioni di pagamento e, per di più, non può essere sfrattato con la procedure accelerata (che prevede al massimo due udienze in tribunale, ma che presuppone l’esistenza di un contratto scritto e regolarmente registrato). Per maggiori approfondimenti leggi Affitto in nero: rischi.

Insomma, è vero che nel momento in cui il locatore registra il contratto di affitto della casa deve pagare le tasse (sia l’imposta di registro che quelle sui canoni percepiti mensilmente, anche in caso di morosità, salvo l’avvio del procedimento di sfratto), ma è anche vero che solo con la registrazione ci si può tutelare da un inquilino che non vuole lasciare l’immobile o pagare le mensilità. Ma quali sono le tasse per l’affitto della casa? Quanto deve pagare il proprietario dell’appartamento nel momento in cui “dichiara” il contratto all’Agenzia delle Entrate? Sono previsti sconti fiscali? E fino a quando andranno corrisposte le tasse nel caso in cui l’inquilino si mostri inadempiente? Di questo cercheremo di parlare nel corso del presente articolo.

Se l’affitto è in nero l’inquilino non deve rispettare la scadenza

La registrazione del contratto di affitto

Prima di spiegare quali sono le tasse per l’affitto della casa, ricordiamo che la registrazione della locazione è un onere che spetta al locatore (il proprietario dell’appartamento) [2]. Egli vi deve provvedere entro 30 giorni dalla firma del contratto. Entro 60 giorni deve darne comunicazione (mostrando le prove documentali del versamento dell’imposta) al conduttore e all’amministratore del condominio. Se il padrone di casa non provvede alla registrazione dell’affitto può sempre procedere al pagamento l’inquilino, anche perché, in caso di affitto in nero, per l’imposta di registro evasa sono responsabili in solido tanto il locatore quanto il conduttore. Come detto questa responsabilità solidale (che implica il diritto per il fisco di chiedere l’integrale pagamento sia all’uno che all’altro indifferentemente) vale solo per l’imposta di registro e non per le altre tasse sulla locazione, quelle cioè applicate sui canoni di affitto, delle quali risponde solo il locatore. È proprio di queste che ora ci occuperemo, spiegando quali tasse per l’affitto della casa deve pagare chi dà in locazione un proprio appartamento.

Le tasse da pagare sull’affitto di casa

Quando si dà un appartamento in affitto ci sono essenzialmente tre imposte da pagare:

  • l’imposta di registro, che va versata all’atto della registrazione del contratto di locazione e che grava tanto sull’affittuario quanto sul proprietario della casa;
  • l’imposta di bollo;
  • l’imposta sui canoni di locazione singolarmente percepiti dal padrone di casa e che grava unicamente su quest’ultimo.

Imposta di registro sull’affitto di casa

Come abbiamo appena detto la prima imposta da pagare è quella che si versa all’atto della registrazione del contratto, registrazione necessaria per rendere valido il contratto. In assenza di registrazione l’affitto è nullo da un punto di vista civilistico (è come se gli accordi non fossero mai stati sottoscritti), salvo che la registrazione avvenga entro 30 giorni dalla firma del contratto. La registrazione nei primi 30 giorni salva il contratto di affitto dalla nullità. Invece, una volta scaduto tale termine non c’è più possibilità di tornare indietro e sarà necessario firmare un nuovo contratto. Esiste però un secondo orientamento – sposato di recente dalla Cassazione – secondo cui è la registrazione tardiva è ugualmente sufficiente a sanare la nullità anche dopo i 30 giorni (leggi Si può registrare un affitto dopo 30 giorni?).

Invece, da un punto di vista fiscale, la registrazione tardiva è sempre possibile e comporta, anzi, una riduzione delle sanzioni. In questo caso, se ci si ravvede entro il primo anno dalla firma del contratto è possibile sfruttare il cosiddetto ravvedimento operoso che implica un trattamento di favore per chi regolarizza il contratto.

Affitto non registrato: impossibile chiedere un decreto ingiuntivo contro l’inquilino moroso

A quanto ammonta l’imposta di registro sull’affitto?

L’importo di registro dovuta per il contratto di affitto varia a seconda dell’immobile locato o affittato. In particolare:

  • per fabbricati a uso abitativo, l’imposta di registro è pari al 2% del canone annuo moltiplicato per il numero delle annualità;
  • per fabbricati strumentali per natura, l’imposta di registro è pari all’1% del canone annuo, se la locazione è effettuata da soggetti passivi Iva; in tutti gli altri casi, l’imposta di registro è pari al 2% del canone;
  • per fondi rustici, l’imposta di registro è pari allo 0,50% del corrispettivo annuo moltiplicato per il numero delle annualità;
  • per tutti gli altri immobili l’imposta di registro è pari al 2% del corrispettivo annuo moltiplicato per il numero delle annualità.

SI può ottenere una riduzione del 30% della base imponibile su cui calcolare l’imposta di registro in presenza di due condizioni:

  • si deve trattare di un contratto di locazione a canone concordato;
  • l’immobile si deve trovare in uno dei Comuni «ad alta tensione abitativa».

In pratica, in questi casi, il corrispettivo annuo da considerare per il calcolo dell’imposta va assunto per il 70%. Il versamento per la prima annualità non può essere inferiore a 67 euro.

Ci sono tre tasse da pagare quando si affitta una casa: l’imposta di registro, quella di bollo e quella sui redditi fondiari (tassata con l’Irpef)

A quanto ammonta l’imposta di registro sulla cauzione dell’affitto?

Se l’inquilino versa una cauzione all’atto della firma dell’affitto su tale somma non bisogna pagare l’imposta di registro. Se però il deposito è pagato da un terzo estraneo al rapporto di locazione, va versata l’imposta nella misura dello 0,50%.

Quando pagare l’imposta di registro per il contratto di affitto?

Per i contratti di affitto che durano più anni (ad esempio quelli di durata 4+4 o 3+2) si può scegliere di:

  • pagare l’imposta di registro al momento della registrazione. In tal caso si versa l’imposta dovuta per l’intera durata del contratto (2% del corrispettivo complessivo). In tal caso si ha diritto a uno sconto che consiste in una detrazione dall’imposta dovuta pari alla metà del tasso di interesse legale (0,5% per il 2015 e 0, 2% a partire dal 1° gennaio 2016) moltiplicato per il numero delle annualità. Se però l’affitto viene disdetto prima della scadenza naturale e l’imposta di registro è stata versata per l’intera durata, si può ottenere il rimborso dell’importo pagato per le annualità successive a quella in cui avviene la disdetta anticipata del contratto;
  • pagare l’imposta di registro anno per anno (2% del canone relativo a ciascuna annualità, tenendo conto degli aumenti Istat), entro 30 giorni dalla scadenza della precedente annualità.

Imposta di bollo sull’affitto della casa

Oltre all’imposta di registro, in caso di casa in affitto bisogna anche versare l’imposta di bollo. Per ogni copia da registrare, l’imposta di bollo è pari a 16 euro ogni 4 facciate scritte del contratto e, comunque, ogni 100 righe.

Imposta sui canoni di locazione

C’è un ultimo tassello da riempire per chi si chiede quali sono le tasse per la casa in affitto. I canoni di locazione costituiscono un reddito per chi li percepisce (il locatore, ossia il proprietario dell’immobile o l’usufruttuario). Andando ad incrementare il suo reddito, tali canoni vanno dichiarati annualmente all’Agenzia delle Entrate e, quindi, vengono tassati ai fini Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Il locatore può scegliere tra due diversi regimi per dichiarare e tassare i redditi percepiti con l’affitto: il regime fiscale ordinario e la cedolare secca. Analizziamoli singolarmente.

Regime fiscale ordinario per l’affitto di casa

Il regime fiscale ordinario prevede che l’ammontare dei canoni, ridotto a forfait del 5%, sia qualificato come reddito fondiario e confluisca nel reddito complessivo tassato con l’Irpef.

Cedolare secca

Un regime di tassazione opzionale che prevede l’applicazione di un’imposta sostitutiva di Irpef, addizionali regionale e comunale e imposte indirette di registro e di bollo relative al contratto di locazione: questa è la cedolare secca sugli affitti. In particolare, in alternativa al regime fiscale ordinario, il locatore può optare per la cedolare secca che implica una tassazione dei canoni in misura fissa, pari al:

  • 21% del canone per i contratti a canone libero (quelli di durata 4+4 anni);
  • al 10% del canone per i contratti a canone concordato (quelli di durata 3+2 anni).

Questo regime implica anche dei vantaggi per l’inquilino (leggi Cedolare secca: cosa comporta per l’inquilino?).

L’opzione si esercita, di regola, al momento della registrazione del contratto mediante la compilazione del quadro RLI oppure online attraverso uno dei software messi a disposizione dall’agenzia delle Entrate, e può essere espressa solo in dichiarazione esclusivamente per i contratti per i quali non sussiste l’obbligo di registrazione (quelli di durata non superiore a trenta giorni complessivi nell’anno). Una volta esercitata, la scelta vale fino alla scadenza naturale del contratto, ferma restando la possibilità di optare per la cedolare anche in una delle annualità intermedie.

Affitti brevi

Per gli affitti brevi, con durata inferiore a 30 giorni, le regole sono parzialmente cambiate a partire da quest’anno. È stata introdotta una ritenuta del 21% applicata al momento del pagamento dei canoni dagli intermediari e dai gestori dei portali telematici (è la cosiddetta tassa Airbnb). La ritenuta esaurisce il prelievo se il locatore opta per la cedolare in dichiarazione dei redditi, altrimenti è a titolo d’acconto. È prevista la ritenuta alla fonte (per cui a versare l’imposta non è più il locatore ma l’intermediario). È infine disposta la facoltà di optare per la cedolare anche per le sublocazioni e i contratti a titolo oneroso stipulati dal comodatario, ma solo per gli affitti brevi (per gli altri, la cedolare resta off-limits).

Affittacamere e B&B

Per i contratti di ricettività turistica conclusi da affittacamere, albergatori, gestori di case vacanze e bed & breakfast, i proventi costituiscono redditi d’impresa se l’attività svolta per «professione abituale» (è il caso dell’albergatore) o redditi diversi, se l’attività non è esercitata abitualmente, come di solito nel caso dei B&B.

Se oltre all’alloggio vengono forniti altri servizi non meramente accessori, i proventi vanno dichiarati non come redditi fondiari, ma come redditi diversi o d’impresa, se l’attività è svolta per professione abituale.

Che succede in caso di morosità?

Chi non dichiara l’affitto è ovviamente un evasore. Da un punto di vista fiscale, a partire dal 1° gennaio 2017, la mancata tassazione dei canoni di locazione viene così sanzionata:

  • dal 90% al 180% del canone di locazione per la dichiarazione infedele;
  • dal 60% al 120% per la dichiarazione omessa (con un minimo di 200 euro) se presentata entro il termine per quella del periodo d’imposta successivo.

I redditi da locazione vanno dichiarati – e quindi tassati – anche se l’inquilino è moroso. Tuttavia, è possibile smettere di versare l’Irpef sui canoni di locazione non percepiti a condizione:

  1. che la locazione sia a uso abitativo;
  2. che il mancato pagamento dei canoni derivi dalla morosità del conduttore;
  3. che quest’ultima venga accertata giudizialmente a seguito del procedimento per convalida di sfratto per morosità.

Queste condizioni devono essere concomitanti e, pertanto, se la morosità nel pagamento riguarda un immobile commerciale (negozio, ufficio, capannone), il locatore dovrà pagare l’Irpef, anche se ha esperito il procedimento di convalida di sfratto, poiché la norma in questo caso non gli attribuisce alcun effetto fiscale [4].

Scambio case per brevi periodi: come funziona?

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Ho una casa vacanza che offro gratuitamente ad altre persone, conosciute su internet, le quali mi danno in cambio la possibilità di vivere, per brevi periodi, nel loro appartamento. Si tratta, insomma, di scambio casa a fronte del quale non percepisco alcun reddito. Ho degli obblighi fiscali?

Si sta diffondendo sempre di più l’attività di scambio case, anche grazie alle intermediazioni delle piattaforme online che fanno intermediazione o si limitano semplicemente ad ospitare le inserzioni e gli annunci. In pratica, il proprietario di un appartamento concede ad altre persone di vivere nel proprio appartamento per qualche giorno, settimana o addirittura mesi, con o senza la sua presenza; in cambio, l’ospite offre a sua volta al titolare dell’immobile la possibilità di usufruire, per uguale periodo, di una propria casa. Questa pratica, molto simile al baratto, che consente di sfruttare il proprio appartamento per visitare posti nuovi senza dover spendere nulla in affitti, sta funzionando soprattutto per le case vacanze o quelle situate nelle grandi città, meta di turisti. In questo modo infatti si realizzano due finalità: si rimane titolari di un immobile senza essere obbligati a rimanere sempre nello stesso luogo e senza dover pagare canoni di locazione.

Ma come vengono trattati, sotto un profilo fiscale, tali contratti? Sono necessarie delle autorizzazioni? Si devono pagare le tasse? Insomma, come funziona lo scambio case?

Chi “baratta” l’utilizzo del proprio appartamento con quello di un’altra persona, sia che ciò avvenga in forma occasionale che sistematica, non realizza un reddito e, quindi, non è soggetto a tassazione. Quindi, in caso di scambio casa, se l’ospitalità avviene a titolo gratuito – senza cioè la percezione di alcun reddito – non c’è bisogno né di dichiarare l’attività al fisco, né di dover “denunciare” eventuali redditi derivanti dall’utilità che in tal modo si ottiene.

Che succede, però, se viene prevista la necessità di versare un contributo spese? La possibilità, in questi casi, di configurare un reddito tassabile dipende da come tale versamento viene giustificato in contratto. Non c’è alcun obbligo di dichiarazione se ci si limita a offrire un piccolo contributo per spese di pulizia o, nel caso in cui il padrone di casa rimanga all’interno dell’appartamento insieme all’ospite, si partecipi alle spese da questi sostenute per l’acquisto di viveri e altri servizi domestici (si pensi anche alle utenze). Si tratta, infatti, di apporti economici a una spesa sostenuta da un’altra persona che, pertanto, non creano ricchezza in capo a quest’ultima e, quindi, non vanno dichiarati al fisco. Diverso è se questo contributo non viene giustificato e travalica, come importo, lo stretto indispensabile per le spese primarie. In tal caso si potrebbe essere in presenza di un vero e proprio reddito che andrà tassato – nonostante l’apparente attività di scambio-casa – come reddito fondiario. Sul punto leggi Quali tasse per l’affitto della casa?

Infine secondo alcuni regolamenti comunali, anche l’ospite a titolo gratuito deve pagare l’imposta di soggiorno.


Come nasce l’usufrutto

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L’usufrutto permette ad un soggetto di fruire di un bene altrui: ma in che modo si costituisce questo diritto? Ecco cosa dice la legge.

L’usufrutto si iscrive nella categoria dei diritti reali di godimento previsti dalla legge (insieme a uso, abitazione, enfiteusi e servitù). In pratica, il titolare del bene (nudo proprietario) concede all’usufruttuario il godimento dello stesso, col solo limite di mantenere inalterata la destinazione della cosa (ad esempio immobile ad uso commerciale o abitativo). Ma come nasce l’usufrutto? Il codice civile prevede diversi modi per istituire tale diritto: dal contratto al testamento, dalla costituzione per legge a quella per usucapione. Analizziamo tutto con chiarezza.

Cos’è l’usufrutto

L’usufrutto è uno dei diritti reali di godimento previsti dal codice civile [1]. Può riguardare ogni tipo di bene (mobile, immobile, universalità di mobili, aziende, titoli di credito ecc.), sia materiale che immateriale (come i diritti d’autore). Il diritto in questione mette in relazione due soggetti: colui che ha la proprietà del bene (nudo proprietario) concede quest’ultimo in godimento all’usufruttuario. In pratica, il primo soggetto mantiene la titolarità della cosa, ma è il secondo a fruirne concretamente. Il codice civile infatti, dispone che l’usufruttuario ha il diritto di godere del bene con un unico limite: quello di rispettarne la destinazione economica (ad esempio, se si tratta di un immobile ad uso abitativo non potrà essere utilizzata come negozio, bed and breakfast e così via). L’usufruttuario ha il diritto di conseguire il possesso della cosa e i frutti di quest’ultimo (ad esempio il canone di locazione derivanti dall’affitto dell’immobile).

l’usufrutto ha durata necessariamente limitata

Come visto, il proprietario rimane tale solo sulla carta: di fatto, egli non può fruire della cosa concessa in usufrutto. Per questo motivo, tale diritto ha durata necessariamente limitata (altrimenti verrebbe compresso troppo il diritto del nudo proprietario). Secondo la legge l’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario, se questo è una persona fisica. Se si tratta di una persona giuridica (si pensi ad una società), invece, la durata massima è di trent’anni. Ma vediamo come nasce l’usufrutto.

Modi di costituzione dell’usufrutto

L’usufrutto può nascere:

  • per volontà della legge (cosiddetto «usufrutto legale»);
  • per contratto;
  • per testamento;
  • per usucapione.

L’usufrutto legale

Si parla di usufrutto legale quando è la stessa legge che impone la costituzione di tale diritto in capo a determinati soggetti. L’esempio classico è l’usufrutto legale dei genitori sui beni dei figli minori, previsto dal codice civile [2]. Tale diritto spetta a chi esercita la responsabilità genitoriale sui figli, fino al conseguimento della maggiore età o all’emancipazione da parte di questi ultimi. L’usufrutto può essere congiunto o esclusivo, a seconda che ad esercitare la responsabilità genitoriale siano entrambi i genitori o uno solo di essi. Esso ricade su tutti i beni del figlio, salvo alcuni espressamente esclusi dalla legge. I genitori, inoltre, hanno l’obbligo di destinare i frutti percepiti al mantenimento della famiglia, all’istruzione e all’educazione dei figli.

La costituzione per contratto e testamento

L’usufrutto non nasce solo per volontà della legge. Nella stragrande maggioranza dei casi il diritto è costituito dalla volontà delle parti, attraverso un atto inter vivos (contratto) o mortis causa (testamento). Quanto al contratto con cui si costituisce l’usufrutto, esso può consistere sia in una scrittura privata che in un atto pubblico da redigere presso un notaio. In ogni caso deve trattarsi di un atto scritto, pena la nullità della stipulazione [3]. Il contratto è inoltre soggetto a trascrizione per fini pubblicitari e per far sì che sia opponibile ai terzi che vantino diritti sul bene. Se costituito per testamento, esso può riguardare una parte o la totalità dei beni del testatore.

La costituzione per usucapione

L’usufrutto, come tutti i diritti reali di godimento, può essere acquistato per usucapione, in virtù di un possesso continuo e ininterrotto che si protragga un certo periodo di tempo. Ci riferiamo all’usufrutto su beni immobili, l’usucapione matura col decorso di vent’anni. Quali sono le condizioni? In pratica ciò avviene quando, pur non avendo formalmente l’usufrutto del bene, ci comportiamo come se fossimo usufruttuari per un tempo di vent’anni (quindi utilizziamo il bene e ne acquisiamo i frutti). Occorre però che, durante questo periodo, non si verifichino atti che interrompano l’esercizio del diritto (si pensi ad un atto formale del proprietario che rivendichi il diritto di utilizzare l’immobile). In questo modo, realizzata l’usucapione, diverremo automaticamente usufruttuari del bene, con la possibilità di ottenere una sentenza giudiziale che attesti tale condizione.

Si può usucapire la proprietà del bene dato in usufrutto?

La legge riconosce anche la possibilità, per colui che sia usufruttuario di un bene, di acquisirne la proprietà per usucapione. Perché ciò possa avvenire, tuttavia, è necessario che il titolare del diritto ponga in essere un atto di interversione del possesso. In pratica, deve effettuare un’azione che sia incompatibile con la sua qualità di (mero) usufruttuario e con la titolarità del bene da parte del nudo proprietario. Si pensi all’usufruttuario che conceda ad altri diritti sul bene (come una servitù) o realizzi opere importanti sullo stesso. In questo modo egli cessa di comportarsi come usufruttuario e si atteggia a vero e proprio proprietario del bene. Se tale situazione permane per il tempo previsto dalla legge (vent’anni per gli immobili) e senza un atto di rivendica da parte del nudo proprietario, l’usufruttuario potrà usucapire il bene oggetto del diritto.

Cos’è l’enfiteusi

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Quali sono le caratteristiche dell’enfiteusi? Quali sono i doveri e i diritti del titolare di questo diritto? Ecco cosa dice la legge.

I diritti costituiti su un bene immobile possono essere i più vari, dall’usufrutto alla servitù, dal diritto di uso a quello di abitazione. Tra questi c’è anche l’enfiteusi. Ma, in sostanza, cos’è l’enfiteusi? Si tratta di un diritto reale di godimento previsto dal codice civile [1]. In pratica, il proprietario di un terreno concede ad un soggetto (enfiteuta) poteri molto ampi, come il diritto di godere del fondo, di farne propri i frutti e di utilizzarne il sottosuolo. L’enfiteuta, da parte sua, assume l’obbligo di migliorare il bene e pagare un canone periodico. Scopo originario dell’enfiteusi era quello di impedire l’abbandono dei terreni agricoli da parte dei loro proprietari.

Diritti e obblighi dell’enfiteuta

Il contenuto dell’enfiteusi è del tutto particolare. Come anticipato, questo diritto reale attribuisce al suo titolare poteri molto ampi, molto vicini a quelli che spettano al titolare. L’enfiteuta diventa quasi il proprietario effettivo del fondo, se non fosse che, come vedremo, il suo diritto può estinguersi per prescrizione (mentre la proprietà è imprescrittibile). Se analizziamo i poteri dell’enfiteuta, infatti, scopriamo che egli ottiene gli stessi diritti del proprietario con riguardo ai frutti, all’utilizzo del sottosuolo e alle accessioni (ossia alle opere e costruzioni presenti sul bene) [2]. Il concedente, infatti, conferisce all’enfiteuta ogni facoltà relativa al godimento e all’utilizzo dell’immobile, rinunciando a godere della sua stessa proprietà.

Dal canto suo però, l’enfiteuta assume obblighi precisi:

  • quello di pagare al concedente un canone periodico, che può consistere in una somma di denaro o in una «quantità fissa di prodotti naturali»;
  • soprattutto, quello di migliorare il fondo.

Quanto al primo dei doveri, va precisato che l’enfiteuta non può rifiutarsi di pagare il canone o pretendere una riduzione dello stesso qualora il fondo diventi sterile o i frutti dello stesso vadano perduti. L’obbligo di migliorare l’immobile, invece, rappresenta l’essenza stessa dell’enfiteusi. Il diritto in questione era visto con favore dal legislatore del 1942, spinto dalla volontà di frenare l’abbandono dei terreni agricoli ed incentivarne la produttività e lo sfruttamento. Occorre chiedersi, a questo punto, cosa vada inteso per «miglioramento del fondo». Quali sono le attività che l’enfiteuta è tenuto a compiere? In poche parole, egli deve realizzare delle opere o porre in essere qualsiasi azione che:

  • incrementi il valore del terreno;
  • aumenti la produttività dello stesso.

L’obbligo di miglioramento è la caratteristica principale che distingue l’enfiteusi dalla locazione.

La durata dell’enfiteusi

Secondo il codice civile, l’enfiteusi può essere:

  • perpetua, quindi contratta a tempo indeterminato;
  • a tempo determinato.

Nel secondo caso, tuttavia, l’enfiteusi deve avere una durata minima di vent’anni. La ragione risiede nel contenuto stesso del diritto: in pratica, per consentire all’enfiteuta di apportare adeguati miglioramenti al fondo. É vietata inoltre la subenfiteusi.

Come nasce l’enfiteusi

Il diritto di enfiteusi può nascere in diversi modi:

  • per contratto: la stipulazione deve avere forma scritta a pena di nullità ed è soggetta a trascrizione nei registri immobiliari;
  • per testamento;
  • per usucapione, in ragione del possesso continuato e ininterrotto per un tempo di vent’anni.

Per poter usucapire il diritto di enfiteusi, quindi, è necessario che per vent’anni il soggetto si sia comportato, di fatto, quale titolare del diritto stesso. Si pensi a chi, pur in assenza di un accordo scritto, abbia pagato il canone periodico al proprietario e abbia apportato miglioramenti al fondo.

Come si estingue l’enfiteusi

L’enfiteusi si estingue:

  • decorso del tempo previsto, se è stata costituita a termine (ricordiamo che la durata minima è vent’anni);
  • per decorso della prescrizione: il titolare non fa uso del diritto per vent’anni;
  • rinuncia del titolare;
  • confusione, ovvero quando l’enfiteuta diventa egli stesso proprietario del terreno;
  • affrancazione (l’enfiteuta diventa proprietario, pagando una somma di denaro prestabilita);
  • devoluzione (il proprietario chiede in giudizio la liberazione del fondo, a seguito di notevoli inadempienze dell’enfiteuta);
  • perimento totale del fondo.

In caso di perimento parziale del fondo l’enfiteuta può scegliere di:

  • rinunciare al suo diritto (ottenendo però il rimborso dei miglioramenti effettuati);
  • chiedere una riduzione del canone, qualora questi risulti eccessivo per la parte rimanente del terreno.

In ogni caso, quando l’enfiteusi finisce, l’enfiteuta ha diritto al rimborso per i miglioramenti effettuati, per una somma pari all’aumento di valore ottenuto dal fondo grazie alla sua opera. Se per questo è stata instaurata una causa in cui è stata accertata l’esistenza effettiva dei miglioramenti, l’enfiteuta può trattenere il fondo fino a che non gli venga versato quanto dovuto.

L’affrancazione

La legge attribuisce all’enfiteuta il diritto all’affrancazione, ossia a divenire egli stesso proprietario del terreno. Come? Occorre pagare una somma pari a 15 volte il canone annuo [3]. Si tratta di un diritto potestativo attribuito al soggetto. Significa che non c’è bisogno del consenso del concedente, il quale non può dunque opporsi. Se l’enfiteuta manifesta la volontà di esercitare il potere di affrancazione e il proprietario non è d’accordo, egli potrà rivolgersi ai tribunali per ottenere una sentenza che gli faccia ottenere la titolarità del terreno.

La devoluzione

Anche il proprietario ha un diritto potestativo stabilito in suo favore. Si tratta del potere di devoluzione. In pratica, egli può chiedere al giudice che il fondo sia liberato dall’enfiteusi. In questo modo egli assisterà a una riespansione del suo diritto di proprietà: potrà nuovamente e completamente godere del terreno di cui è titolare. Tale potere può essere esercitato:

  • se l’enfiteuta non adempie all’obbligo di migliorare il fondo;
  • se l’enfiteuta, addirittura, ha deteriorato il bene;
  • se l’enfiteuta è in mora nel pagamento di due annualità del canone.

Attenzione però, perché se l’enfiteuta paga i canoni arretrati prima che il processo giunga a sentenza (anche se solo di primo grado) il proprietario non può più esercitare il suo potere di devoluzione. In più, anche se il proprietario ha già instaurato la causa per la devoluzione, l’enfiteuta può comunque esercitare il diritto di affrancazione (sempre, come visto, pagando una somma pari a 15 volte il canone annuo).

Credito di imposta in caso di sfratto dell’inquilino moroso

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Il locatore ha diritto ad un credito di imposta di importo pari alle imposte pagate sui canoni di locazione non percepiti: serve però una sentenza di convalida di sfratto per morosità.

I canoni di locazione, in quanto redditi fondiari, anche quando non effettivamente percepiti (perché non pagati dal conduttore), concorrono a formare il reddito complessivo del locatore (che possiede gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale).

Nella locazione di immobili ad uso abitativo, in caso di mancato pagamento da parte dell’inquilino, il Fisco considera comunque i canoni come reddito fondiario (tassabile), fino a quando non si conclude il procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità [1]. Una volta convalidato lo sfratto, nessun reddito può imputarsi alla locazione degli immobili.

Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti, come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità, è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare.

Dunque se prima (e durante) il procedimento di sfratto i canoni non sono stati pagati, il locatore deve versare le relative imposte, ma avrà poi diritto al credito di imposta.

Il locatore di immobili ad uso abitativo, dopo la conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto può [2]:

  • recuperare la maggiore imposta versata per i canoni di locazione non incassati, ma assoggettati a tassazione negli anni precedenti;
  • non assoggettare a tassazione il canone di affitto non percepito ma solo la rendita catastale rivalutata.

Le regole appena esposte si applicano esclusivamente alle locazioni ad uso abitativo, ossia ai fabbricati abitativi appartenenti alla categoria catastale “A“ (A/10 escluso).

I canoni di locazione relativi ad immobili ad uso non abitativo, invece, devono essere sempre dichiarati, indipendentemente dalla loro percezione.

Per determinare il credito d’imposta spettante è necessario riliquidare la dichiarazione dei redditi di ciascuno degli anni per i quali, in base all’accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità, sono state pagate maggiori imposte rispetto a quelle dovute in quanto commisurate ai canoni di locazione non riscossi, anziché alla rendita.

Nell’effettuare le operazioni di riliquidazione si deve tener conto di eventuali rettifiche ed accertamenti operati dagli uffici.

Resta fermo che l’eventuale successiva riscossione (totale o parziale) dei canoni di locazione per i quali si è usufruito del credito d’imposta comporterà per il contribuente l’obbligo di dichiarare il maggior imponibile determinato tra i redditi soggetti a tassazione separata, salvo opzione per quella ordinaria.

Infine, per quanto riguarda i periodi d’imposta utili cui fare riferimento per la determinazione e richiesta del credito d’imposta, vale il termine di prescrizione ordinaria di dieci anni. Pertanto, si può effettuare il calcolo con riferimento alle dichiarazioni dei redditi presentate negli anni precedenti, ma non oltre quelle relative ai redditi 2007, sempreché, ovviamente, per ciascuna delle annualità risulti accertata la morosità del conduttore nell’ambito del procedimento di convalida dello sfratto.

Ai fini del credito di imposta serve tale documentazione:

  • sentenza di convalida di sfratto per morosità
  • dichiarazioni dei redditi degli anni precedenti dalle quali risulti dichiarato il reddito relativo ai canoni di locazione non riscossi.

Tassa Airbnb, se ho un account ma non sono il proprietario

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La nuova Tassa Airbnb deve essere pagata anche dal titolare dell’account web che non è proprietario dell’immobile affittato?

 

Si fanno sempre più urgenti i chiarimenti da parte dell’Agenzia delle entrate in merito all’applicazione della Tassa Airbnb: il provvedimento attuativo delle Entrate, in particolare, dovrà chiarire come regolamentare le numerose situazioni di fatto venutesi a creare col diffondersi  dei servizi web in merito agli affitti brevi ed ai bed and breakfast.

Non è raro, ad esempio, che un soggetto terzo, non proprietario della casa affittata o utilizzata come b&b, sia il titolare dell’account relativo all’immobile sui portali web d’intermediazione, come Airbnb e Booking, magari a causa della scarsa dimistichezza del reale proprietario nell’utilizzo del pc. Come ci si deve comportare, in questi casi, in merito all’applicazione della Tassa Airbnb? È possibile, cioè, che il reddito derivante dall’affitto sia imputato a chi, in realtà, non lo percepisce? Oppure quest’ultimo deve essere trattato come un intermediario a tutti gli effetti, anche se sta, ad esempio, soltanto aiutando un parente?

In attesa di ulteriori delucidazioni, analizziamo che cosa dice l’ultima stesura della norma che ha introdotto la Tassa Airbnb per capire come ci si deve comportare.

Tassa Airbnb: che cos’è, come si applica

Va chiarito, in primo luogo, che la tassa Airbnb non è una nuova imposta, ma si tratta la possibilità di estendere la cedolare secca del 21% agli affitti di durata minore di 30 giorni, compresi quelli che prevedono servizi accessori di fornitura di biancheria e di pulizia dei locali; i contratti devono essere stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio  di attività d’impresa, direttamente o tramite intermediari.

In buona sostanza, alle tipologie di affitto elencate si può applicare la tassazione separata del 21%, grazie alla nuova normativa, dal 1° giugno 2017. La cedolare secca può essere inoltre applicata ai  corrispettivi lordi derivanti dai contratti di sublocazione e  dai contratti di comodato a titolo oneroso che hanno ad oggetto il godimento dell’immobile da parte di terzi.

Se il pagamento dei canoni, però, non è effettuato direttamente al proprietario, ma al portale web o a un diverso soggetto che esercita attività d’intermediazione immobiliare, quest’ultimo ha l’obbligo di effettuare una ritenuta del 21%. In pratica, erogherà al proprietario il canone, o compenso, decurtato del 21%, che poi verserà all’erario. Quest’obbligo sussiste anche nel caso in cui l’intermediario intervenga nel pagamento dei canoni o corrispettivi.

Inoltre, portali web e intermediari hanno l’obbligo di comunicare  tutti i dati relativi ai contratti di affitto breve e assimilati conclusi per loro tramite.

Queste sono la novità che hanno destato maggiori perplessità, soprattutto a causa delle numerosissime situazioni di fatto “anomale” che si sono venute a creare nel tempo a causa della capillare diffusione degli affitti brevi, dei b&b e dei relativi servizi web d’intermediazione.

Tassa Airbnb: titolare dell’account web non proprietario

Come anticipato, sono molto frequenti le situazioni in cui il titolare dell’account web (ad esempio su Booking, Airbnb, Homelydays) non sia il proprietario dell’immobile e non vi sia una sublocazione o un comodato.

Se il titolare dell’account è un property manager (si tratta di chi gestisce case e appartamenti in affitto, ad esempio si occupa delle prenotazioni, dell’accoglienza degli ospiti, della manutenzione, etc.), a rigor di logica dovrebbe essere assimilato a chi esercita un’attività di intermediazione immobiliare: questo porterebbe all’applicazione, però, di una doppia ritenuta del 21%, quindi di una ritenuta del 42%. Una prima ritenuta, difatti, dovrebbe essere operata dal portale d’intermediazione all’incasso, una seconda dal property manager.

La situazione si complica ancora di più se il titolare dell’account- non proprietario non è un intermediario, ma, ad esempio, un parente che offre semplicemente un aiuto al reale proprietario: che cosa succede in questi casi? Viene assimilato comunque a un intermediario, oppure addirittura al titolare, con relativa imputazione di un reddito che in realtà non è il suo?

Quest’ultima conclusione sarebbe una forzatura, specie in relazione agli affitti brevi, posto che i redditi di fabbricati, anche se assoggettati alla cedolare secca, possono essere indicati nel relativo quadro della dichiarazione dei redditi solo se si è titolari di un diritto in tal senso.

Vero è che le situazioni di fatto che si sono create negli anni sono il frutto di un settore che è cresciuto esponenzialmente, ma con una regolamentazione fiscale che è stata “lasciata a sé stessa”. Non dimentichiamo, a tal proposito, che gli affitti brevi sono tassati come tutti gli altri affitti, è solo la registrazione del contratto presso l’Agenzia delle entrate a non essere obbligatoria. Anche i redditi derivanti dall’attività di b&b occasionale, peraltro, vanno dichiarati, come redditi diversi.

Ad ogni modo, così com’è formulata, la nuova normativa non è completa, ma necessita di numerosissimi chiarimenti: il rischio, nell’incertezza, è che la situazione rimanga immutata, o peggio, che il settore crolli per timore di un’applicazione arbitraria ed eccessivamente penalizzante delle nuove previsioni.

Esproprio per pubblica utilità: ho diritto da un’indennità fissa?

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Ho ricevuto una notifica di esproprio per pubblica utilità sui miei terreni per la messa in opera di un elettrodotto. Ho diritto ad un’indennità perpetua o fissa per un certo numero di anni?

Il lettore è uno degli oltre 50 destinatari di un provvedimento di occupazione di urgenza, finalizzato alla definitiva espropriazione del fondo per la realizzazione di un parco eolico con annesse infrastrutture di supporto (elettrodotto, centrale elettrica, condutture sotterranee ecc.).

Preme individuare la soluzione ideale per ottenere un giusto indennizzo per la proprietà espropriata. Sul punto, la legge prevede che l’amministrazione è legittimata ad emanare un decreto di occupazione d’urgenza, tra le altre ipotesi, anche quando il numero degli immobili da espropriare è elevato [1]. In questi casi non è raro che l’ammontare dell’indennità offerta ad ogni singolo proprietario sia stata determinata mediante criteri e modalità di quantificazione automatiche, poiché la complessità della procedura di espropriazione e l’obbligo di rispettare tempi rapidi impediscono l’esecuzione di valutazioni approfondite sulle particolarità di ogni singolo appezzamento. Questa è la ragione per cui la legge riconosce agli espropriati la facoltà di accedere a quantificazione alternative e indipendenti dalla procedura di esproprio. La scelta di una opzione piuttosto che di un’altra comporta vantaggi e svantaggi; dunque, vale la pena chiarire il quadro completo, sia normativo che fattuale, specificando la via migliore di cui servirsi.

Per verificare la congruità dell’indennità offerta rispetto al valore della porzione di fondo che verrà espropriata, è opportuno rivolgersi in tempi brevi a un consulente tecnico (perito agrario) affinché proceda alla stima dell’immobile del lettore. L’esigenza di celerità è dettata dal fatto che la legge prevede un termine di soli trenta giorni, dalla data della immissione in possesso, per comunicare formalmente la volontà di accettare l’offerta oppure avvalersi del procedimento di quantificazione alternativo con la partecipazione del perito di fiducia. Si consiglia di accettare l’offerta proposta quando, dal confronto dell’ammontare determinato dall’amministrazione e l’indennità quantificata dal suo perito, la differenza sia trascurabile. Infatti, se accetta l’indennità, il lettore avrà diritto a ricevere immediatamente un acconto dell’80% della somma totale che gli sarà dovuta; inoltre non gli verrà addebitata alcuna spesa. Invece, nel caso in cui volesse preferire il ricalcolo della indennità mediante il procedimento peritale, rischierebbe di dover pagare i costi sostenuti dall’amministrazione per l’affidamento degli incarichi di consulenza ma, d’altra parte, può contare su uno studio più mirato, che tenga conto di tute le variabili e le qualità intrinseche del suo immobile. In particolare, la legge prevede che l’espropriato è tenuto a pagare le spese se la stima è inferiore a quella offerta in precedenza, sono divise a metà se la differenza tra i due valori non supera il decimo mentre nulla sarà dovuto se la nuova quantificazione sia maggiore almeno un decimo di quella offerta. Pertanto, si consiglia di rifiutare l’offerta e preferire la soluzione su menzionata (procedura peritale) quando la quantificazione effettuata in privato determini un ammontare considerevolmente maggiore rispetto a quello offerto, tenuto conto che, per far valere le sue ragioni e la congruità delle valutazioni effettuate dal suo perito, il lettore potrà sempre contare sull’opposizione alla stima. Infatti, qualora volesse, entro 30 giorni dalla notifica della nuova stima o del decreto di esproprio, può comunque impugnare di fronte alla corte d’appello le valutazioni effettuate dai tecnici, i quali magari non hanno tenuto in debita considerazione le sue valutazioni e quelle del suo tecnico. In questa ipotesi sarà il giudice a individuare definitivamente l’importo mediante l’ausilio di consulenti d’ufficio. A titolo esaustivo si rileva che, oltre al valore della porzione espropriata, il lettore ha diritto a ricevere una indennità aggiuntiva poiché il suo terreno è coltivato a grano e, a causa della procedura in oggetto, subirà dei danni per la distruzione delle colture e per il mancato raccolto. La legge prevede infatti il riconoscimento di un’ulteriore somma al proprietario che sia anche imprenditore agricolo. Infine, il lettore è destinatario di una procedura di occupazione d’urgenza: ciò significa che l’atto notificato non è il definitivo, ne seguirà un altro (decreto di esproprio) che dovrà essere emanato entro il termine stabilito dall’amministrazione e comunque non oltre i cinque anni dall’avvio della procedura. Il 18 marzo si perfezionerà la immissione in possesso di parte del suo fondo, a decorrere da quella data e fino a quando non gli verrà corrisposta l’indennità, avrà diritto a ottenere annualmente un corrispettivo per l’occupazione subita. L’ammontare sarà pari a 1/12 della somma che gli è stata offerta. Quindi, se l’indennità è 1000, avrà diritto a ricevere annualmente 83, quanto meno fin quando non sarà determinato con esattezza e liquidato il giusto ammontare. Per le ragioni qui espresse, nel caso del lettore è necessario affidare quanto prima un incarico di consulenza a un perito di fiducia. Successivamente, carte alla mano, egli avrà tutte le informazioni necessarie per decidere quale strada intraprendere, considerati i vantaggi e gli oneri che ogni opzione comporta.

Articolo tratto da una consulenza del dott. Nicola Giofrè

Quando il portiere del condominio può andare in ferie?

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Il portiere non può richiedere ferie dal 1° luglio al 31 agosto, oltre che dal 20 dicembre al 10 gennaio.

Se è vero che la funzione del portiere è quella di custodire l’edificio condominiale e i singoli appartamenti, preservandoli da ladri e altri malintenzionati, è anche vero che questi non può andare in ferie proprio quando i proprietari degli appartamenti sono assenti per le vacanze. Diversamente la sua funzione verrebbe meno proprio nel momento di maggiore bisogno. Proprio per questo il contratto collettivo di lavoro (Ccnl) dei Proprietari di fabbricati prevede [1] che il portiere del condominio non può andare in ferie dal 1° luglio al 31 agosto e dal 20 dicembre al 10 gennaio per come chiarito anche da una sentenza del Tribunale di Roma [2]. Questo però non toglie che il portiere non abbia diritto al riposo settimanale e annuale, per come previsto anche dalla Costituzione. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di districare questa apparentemente complicata matassa, chiarendo quando il portiere del condominio può andare in ferie.

Il diritto alle ferie dei portieri degli edifici condominiali

Come tutti i lavoratori anche i portieri devono riposarsi dal lavoro. Questo diritto è concesso loro, in via generale dalla Costituzione e dalla legge. In particolare la normativa di settore stabilisce che i portieri hanno diritto ogni anno a 26 giorni di ferie, calcolati escludendo le domeniche, le festività nazionali, quelle infrasettimanali, quelle del Santo Patrono. Lo stipendio per i giorni di ferie è lo stesso di quello che viene percepito durante il servizio e non subisce diminuzioni.

Il portiere non può accumulare i giorni di ferie relativi a più anni e usarli tutti in una volta.

Chi decide quando il portiere può andare in ferie? 

La scelta dei giorni di ferie spetta, per metà, al portiere e, per l’altra metà, al condominio (quindi all’amministratore, sentita l’assemblea). Il portiere ha quindi la possibilità di individuare 13 giorni dell’anno (su un totale di 26) in cui assentarsi dal lavoro. Tali giorni, però, non possono essere quelli che vanno dal 1° luglio al 31 agosto e dal 20 dicembre al 10 gennaio. Infatti, per ragioni di sicurezza dello stabile, nei periodi in cui molti inquilini partono lasciando il proprio appartamento incustodito, il portiere non può andare in vacanza. In ogni caso l’amministratore di condominio, sentita l’assemblea, può accordare al portiere uno o più giorni di ferie a ridosso dei suddetti periodi tra luglio e agosto e tra dicembre e gennaio; si tratta di una concessione, tuttavia, che se anche ripetuta negli anni, non può diventare “consuetudine” e, quindi, non fa acquisire al portiere un diritto di esigerla anche per il futuro.

Nel momento in cui il portiere decide il periodo di ferie, deve comunicarlo al condominio per iscritto almeno tre mesi prima dall’inizio dei giorni di ferie richiesti.

Se il portiere non comunica i giorni che ha deciso di utilizzare come ferie, spetta all’amministratore comunicargli, con almeno tre mesi di anticipo, la collocazione di tutto il periodo di ferie, che andrà goduto dal primo aprile dell’anno in corso fino al 31 marzo dell’anno successivo, in non più di due tranches, salvo diversi accordi.

Che succede se il portiere vuol andare in ferie d’estate?

Se il portiere chiede le ferie nel periodo che va dal 1° luglio al 31 agosto o dal 20 dicembre al 10 gennaio, l’amministratore può rigettare la richiesta anche senza sentire prima l’assemblea. Infatti rientra nei suoi doveri di mandato quello di garantire tanto le parti comuni dell’edificio quanto la sorveglianza e sicurezza dell’intero condominio. Se il portiere dovesse assentarsi dal lavoro nei suddetti periodi senza autorizzazione dell’assemblea il suo comportamento potrebbe dar luogo a licenziamento.

Le ferie dei portieri a Milano

Da segnalare come il contratto integrativo per i Dipendenti da Proprietari di Fabbricati valido per la provincia di Milano ha inteso modificare il Contratto Collettivo nazionale di lavoro. Il portiere può scegliere due settimane consecutive di ferie nel periodo dal 15 giugno al 15 settembre: il periodo di ferie estive prescelto dovrà essere comunicato dal lavoratore all’amministrazione entro il mese di marzo di ogni anno; e l’amministratore, in considerazione delle particolari esigenze del condominio, potrà esercitare la facoltà di anticipare o posticipare il periodo feriale prescelto dal lavoratore sino ad un massimo di 10 giorni.

Il portiere non può rinunciare alle ferie

Il diritto alle ferie non è disponibile; in altre parole il portiere (come ogni altro lavoratore) non può rinunciare ai giorni di riposo, neanche se viene remunerato adeguatamente [3]. Quindi il condominio non può – neanche per ragioni di sicurezza – barattare tutto o parte del diritto alle ferie del portiere con una maggiore retribuzione.  In caso di cessazione del rapporto di lavoro, spetterà al lavoratore un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto dovuta per le giornate di ferie non ancora godute e maturate fino alla data della cessazione stessa.

Come funziona l’usufrutto

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Usufrutto e nuda proprietà: diritti e obblighi dell’usufruttuario.

L’usufrutto è il diritto del soggetto (usufruttuario) di godere e disporre della cosa altrui traendo da essa tutte le utilità che possono derivarne, con l’obbligo di non mutare la destinazione economica del bene.

Il proprietario della cosa gravata da usufrutto si spoglia delle proprie prerogative di uso e godimento e conserva per questo motivo la cosiddetta nuda proprietà del bene. Ciò vuol dire che egli resta il titolare del bene ma non può usarlo né farne propri i frutti in quanto tali diritti spettano all’usufruttuario.

Per esempio, Tizio, titolare di un immobile ad uso abitativo, riconosce l’usufrutto a Caio: Tizio conserva la proprietà ma non può utilizzare l’immobile; Caio acquista il diritto di uso e godimento ma non diventa proprietario, non può modificare la destinazione economica dell’immobile (per esempio da uso abitazione a uso commerciale) ma può trarre i frutti del bene (per esempio eventuali canoni di locazione).

L’usufrutto è necessariamente temporaneo: qualora le parti non abbiano stabilito un termine di durata, esso non si estende in ogni caso oltre la vita dell’usufruttuario (o dopo trent’anni se l’usufruttuario è una persona giuridica).

Inoltre, l’usufrutto:

  • non può essere trasmesso agli eredi;
  • se è ceduto a terzi, si estingue comunque con la morte del cedente (primo usufruttuario);
  • non può essere oggetto di legato di usufrutto successivo col quale viene disposto che, alla morte del primo usufruttuario, l’usufrutto passi ad altri soggetti;
  • non può essere oggetto di riserva nella donazione cioè il donante non può riservare l’usufrutto dei beni donati a vantaggio proprio o di terzi.

Su quali beni si può costituire l’usufrutto?

L’usufrutto può avere ad oggetto beni mobili, immobili, crediti, titoli di credito, aziende, universalità e beni immateriali. Ciò che conta è che si tratti di beni infungibili (insostituibili) e inconsumabili.

Se l’usufrutto ha ad oggetto beni consumabili (per esempio alimenti) si ha il cosiddetto quasi usufrutto. Quest’ultimo si caratterizza per il fatto che i beni, in quanto consumabili, diventano necessariamente di proprietà dell’usufruttuario e, dato che non possono essere restituiti, sarà restituito al precedente titolare il valore corrispondente o altrettanti beni della specie e quantità di quelli ricevuti.

L’usufrutto si può costituire:

  • per legge (usufrutto legale): quando è la legge a prevedere l’usufrutto in capo ad un determinato soggetto (per esempio usufrutto dei genitori sui beni del figlio minorenne);
  • per contratto: le parti decidono volontariamente di costituire un usufrutto tramite contratto; quest’ultimo deve avere la forma scritta ed è soggetto a trascrizione;
  • per testamento;
  • per usucapione.

Diritti e obblighi dell’usufruttuario

L’usufruttuario ha il diritto di:

  • conseguire il possesso del bene e di goderne;
  • fare propri i frutti civili (es. interessi) e naturali (es. prodotti del terreno agricolo) della cosa;
  • cedere il proprio diritto a terzi (non però per successione ereditaria);
  • ricevere un’indennità, al momento della cessazione dell’usufrutto, per gli eventuali miglioramenti apportati alla cosa;
  • locare il bene;
  • concedere ipoteca sull’usufrutto.

L’usufruttuario ha invece l’obbligo di:

  • restituire la cosa al termine dell’usufrutto;
  • fare a proprie spese l’inventario e prestare idonea cauzione;
  • usare la diligenza del buon padre di famiglia nell’uso e godimento del bene;
  • denunciare le eventuali usurpazioni della cosa: egli può esercitare le azioni possessorie, di rivendica e di denuncia di nuova opera o danno temuto;
  • sostenere spese e oneri di manutenzione ordinaria;
  • pagare imposte, canoni e rendite fondiarie;
  • concorrere con il proprietario alle spese per eventuali cause inerenti il bene, in misura proporzionale al proprio interesse.

Sono invece a carico del nudo proprietario le riparazioni straordinarie e i carichi a carattere non annuale sulla proprietà.

Estinzione dell’usufrutto

L’usufrutto si estingue, oltre che per scadenza del termine o morte dell’usufruttuario, per:

  • prescrizione: in caso di non uso per vent’anni;
  • consolidazione: quando l’usufruttuario acquista la proprietà del bene;
  • totale perimento del bene;
  • abuso del diritto da parte dell’usufruttuario: quando questi trasferisce il bene ad altri o lo deteriora o lo lascia andare in detrimento per mancanza di manutenzione e riparazioni ordinarie;
  • rinuncia dell’usufruttuario.

Scambio case: come barattare il proprio appartamento con un altro

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Con il contratto di permuta è possibile scambiare la propria casa con un’altra e, se di valore superiore, ottenere il conguaglio in denaro.

Non tutti ne sono a conoscenza e in pochi lo utilizzano, ma esiste un contratto che consente, al proprietario di una casa, di scambiare il proprio immobile con quello di un altro. E se uno dei due beni vale più dell’altro, l’equilibrio viene ripristinato versando al relativo proprietario la differenza del valore in denaro. Si tratta della permuta, comunemente chiamata «baratto» ed è il contratto che formalizza lo scambio di un bene (non solo mobile, ma anche immobile) con un altro. La sua regolamentazione è contenuta nel codice civile [1] per cui si tratta di un meccanismo pienamente legale e utilizzabile da chiunque. In questo modo, firmando una permuta è possibile barattare il proprio appartamento con un altro.

Quali sono i vantaggi dello scambio di case?

I vantaggi della permuta sono evidenti. Innanzitutto chi vuol cambiare casa non deve effettuare due operazioni distinte (prima la vendita e poi l’acquisto o viceversa), con conseguente duplicazione di spese: si pensi al doppio passaggio dal notaio, all’agenzia e, non in ultimo, alle tasse. Inoltre con la permuta non c’è bisogno di reperire i soldi necessari all’acquisto del nuovo immobile; spesso infatti il problema di chi compra casa è riuscire a vendere prima quella vecchia per avere la somma necessaria ad acquistare. Non in ultimo, il vantaggio della permuta sta nei tempi; con un’unica operazione si realizzano contemporaneamente due fini: ci si libera del vecchio appartamento e se ne ottiene uno nuovo.

Lo scambio di immobili comporta un altro grande vantaggio per chi, precedentemente, ha acquistato la prima casa con i relativi benefici fiscali e vuole barattarla con un’altra. Come noto, il bonus sulla prima casa si perde (e, in tal caso, bisogna pagare imposte e sanzioni al fisco [2]) se, prima di 5 anni dall’acquisto, l’immobile “agevolato” viene venduto senza acquistarne un altro entro 1 anno dal rogito. Con la permuta questo pericolo scompare perché, nello stesso tempo in cui si vende la casa, si acquista già l’altra.

Quando conviene ricorrere allo scambio di case?

Le ragioni per ricorrere allo scambio di case possono essere le più svariate. Si pensi, ad esempio, a due persone, ciascuna proprietaria di una “seconda casa” destinata alle vacanze, che hanno entrambe voglia di cambiare luogo di villeggiatura e godere di nuovi paesaggi; così, senza dover ricorrere ad operazioni immobiliari troppo complicate, barattano il proprio appartamento tra di loro. Si pensi anche all’ipotesi di una famiglia in formazione che, alla nascita di un nuovo figlio, intende trovare casa più grande e accetta di scambiare la propria abitazione con quella di un uomo anziano, rimasto vedovo, che invece ha l’esigenza opposta. In tale ipotesi, il proprietario della casa più piccola, oltre a cederne la titolarità a quello della casa più grande, dovrà versargli anche un conguaglio in denaro. Nello stesso tempo, l’anziano realizza l’esigenza di vivere in un ambiente più raccolto, gestibile, meno dispendioso e, nello stesso tempo, ottiene la disponibilità di un piccolo gruzzoletto per provvedere alle esigenze della vecchiaia.

Anche i costruttori ricorrono a volte alla permuta inserendo, nel compromesso, una clausola in virtù della quale, se l’acquirente dell’appartamento non riesce, prima del rogito, a vendere la propria casa, l’azienda si impegna a prenderlo in permuta. In verità questa ipotesi è più rara atteso che le ditte di costruzione hanno oggi bisogno di liquidità.

Insomma, con lo scambio di case è possibile cambiare immobile senza affrontare i classici problemi legati ad agenzie immobiliari, reperimento di offerte, notai e passaggi di proprietà. L’operazione è unica e si compie con un solo contratto (per il quale, comunque, è sempre necessario l’intervento del notaio).

Quanti contratti bisogna firmare nel caso di scambio di case?

Anche se l’effetto della permuta è quello di trasferire la proprietà di due immobili diversi, tutto avviene con la firma di un unico contratto davanti al notaio. L’eventuale obbligazione di pagare la differenza di valore sussistente tra le due case viene anch’essa inclusa nello stesso contratto.

Che differenza c’è tra la permuta e la vendita?

La permuta richiede un solo contratto che comporta il reciproco trasferimento della proprietà di immobili. La vendita invece richiede due diversi contratti ciascuno dei quali prevede lo scambio dell’immobile contro il prezzo.

Chi paga le tasse nel caso di scambio di case?

Poiché, quando si baratta un appartamento con un altro, tutte e due le parti interessate sono venditori e acquirenti nello stesso tempo, le spese notarili si dividono in parti uguali. Lo stesso vale per le tasse. Si paga una sola imposta di registro che è pari al 2% se si tratta di prima casa; negli altri casi è del 9%.

Come si calcola l’imposta di registro in caso di scambio case?

Benché i passaggi di proprietà siano due, in caso di scambio di case è sufficiente pagare una sola imposta di registro. L’Agenzia delle Entrate, con una circolare [3], ha precisato che, per determinare l’importo dell’imposta di registro, è necessario calcolare l’imposta «relativa a ciascun trasferimento in modo da individuare quella più elevata, a prescindere dal fatto che il maggiore importo derivi dall’applicazione di un’aliquota più elevata o da un maggior valore del bene». In pratica, si deve pagare l’imposta di registro più alta.

L’imposta di registro grava al 50% su entrambe le parti.

A quanto ammontano l’imposta catastale e ipotecaria?

Quanto alle imposte ipotecaria e catastale queste vengono calcolate come in tutti gli altri casi, in misura fissa, paria 50 euro ciascuna. Anche in questo caso vanno versate una sola volta benché i passaggi di proprietà siano due.

Si può fare lo scambio case con una società o una immobiliare?

Lo scambio case può avvenire sia tra privati, sia tra persone giuridiche (società, associazioni, ecc.), sia tra un privato e una persona giuridica (ad esempio, una ditta costruttrice e l’acquirente di un immobile). In quest’ultimo caso, però (scambio tra un privato e un’azienda) non c’è alcun vantaggio fiscale. Difatti, le due operazioni saranno entrambe soggette ad autonoma e differente tassazione. In particolare:

  • il trasferimento dell’immobile al privato è soggetto a imposta di registro (2% se prima casa; 9% negli altri casi) e alle ipocatastali in misura fissa (100 euro complessive);
  • il trasferimento dell’immobile all’azienda è soggetto a Iva più le imposte fisse (registro, ipotecaria e catastale) per 600 euro complessivi (200 euro ciascuna). Inoltre, per tale atto di permuta, dev’esser corrisposta l’imposta di bollo.

Quali precauzioni bisogna adottare prima di uno scambio case?

Prima del baratto di una casa è opportuno effettuare le seguenti verifiche:

  • chiedere presso l’Agenzia delle Entrate (Ufficio del Territorio) una visura ipocatastale dell’immobile da acquistare: questo certificato consente di verificare che la casa di cui si vuol diventare proprietari sia libera da ipoteche, da pignoramenti e sia effettivamente di titolarità del soggetto che ne sta trattando la vendita;
  • chiedere al venditore di farsi rilasciare, dall’amministratore di condominio, una attestazione dalla quale si evinca che non ci sono spese di condominio insolute. Diversamente, per le eventuali morosità del venditore dell’anno del rogito e di quello precedente, risponde in solido anche il nuovo proprietario;
  • farsi rilasciare l’Ape, ossia l’attestato di prestazione energetica che indica la classe di consumo dell’immobile;
  • farsi rilasciare una certificazione da cui si evinca che gli impianti elettrici, idrici e del gas sono a norma.

Come comprare casa senza mutuo

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Attraverso il contratto di vendita con riserva di proprietà è possibile acquistare immediatamente la disponibilità di una casa e viverci, pagando a rate il prezzo di acquisto, senza accendere un mutuo.

Quando si vuole acquistare casa si va incontro a due tipi di problemi: il reperimento di una consistente liquidità necessaria a pagare l’acconto iniziale al venditore e la ricerca di un mutuo bancario confacente al proprio reddito. La stessa banca può finanziare non oltre l’80% del prezzo di acquisto, salvo che il mutuatario offra ulteriori garanzie ad integrazione dell’ipoteca sulla casa. In pochi sanno però che anche chi non ha la possibilità di accedere a un finanziamento può comprare casa senza mutuo sfruttando un tipo di contratto da sempre previsto all’interno del nostro codice civile [1]: la «vendita con riserva di proprietà». In pratica, con questo meccanismo, il venditore consente all’acquirente di pagare il prezzo dell’immobile a rate, secondo il tasso di interesse convenuto in contratto proprio come avviene con un finanziamento della banca. Nello stesso tempo gli dà la possibilità di prendere possesso della casa e di abitarla sin dal rogito. Tuttavia la proprietà dell’immobile non si trasferisce subito, ma solo al versamento dell’ultima rata concordata (il che potrebbe voler dire dopo diversi anni). In questo modo, qualora l’acquirente dovesse smettere di pagare, il venditore non ha bisogno di lunghe e costose cause per ritornare proprietario della casa, poiché questa è sempre rimasta a lui intestata.

Vantaggi per il venditore

Il vantaggio per il venditore è quello di trovare un acquirente senza difficoltà e con la garanzia di un reddito fisso e costante. Nello stesso tempo, in caso di morosità, questi non ha bisogno di ricorrere al tribunale per ottenere la risoluzione del contratto (fatta salva la procedura per il rilascio dell’abitazione in caso di ostruzionismo, eventualmente con l’ufficiale giudiziario e l’ausilio della forza pubblica). Inoltre è sufficiente un solo atto notarile; non c’è quindi bisogno di un secondo rogito per il trasferimento della proprietà.

La struttura è simile a quella di un leasing, contratto col quale si concede in affitto un bene con la possibilità, dopo un certo periodo di tempo, di divenirne proprietari (pagando il prezzo del riscatto) o di recedere dal contratto.

Vantaggi per l’acquirente

I vantaggi per l’acquirente sono ancora più evidenti: non ha necessità di procurarsi un capitale iniziale, né un mutuo bancario; può avere subito una casa da abitare e, pur non essendone proprietario (e, quindi, non potendola né vendere né dare in ipoteca), la può utilizzare secondo i propri scopi. Non solo: eventuali creditori non potrebbero pignorargli l’immobile atteso che questi, se non corrisponde l’ultima rata, non ne diviene titolare.

Obblighi del venditore

Con il contratto di vendita con riserva di proprietà, il venditore:

  • concede all’acquirente la possibilità di pagare l’immobile a rate mensili, parametrate in base al prezzo di vendita e spalmate su un arco temporale concordato in contratto. Insieme alla rata viene convenuto un tasso di interesse (che deve essere indicato per iscritto e che non può essere ovviamente usurario);
  • consente all’acquirente, già al pagamento della prima rata, di abitare all’interno della casa, di prenderne possesso e di utilizzarla secondo le proprie esigenze;
  • trasferisce la proprietà della casa solo al pagamento dell’ultima rata. In buona sostanza, l’acquirente diventa proprietario dell’immobile solo una volta corrisposto tutto il prezzo, alle scadenze e con gli interessi convenuti. In caso di mancato pagamento anche di una sola rata, il contratto di scioglie e il venditore non ha necessità di rientrare nella titolarità del bene, perché questa è sempre rimasta sua. Il passaggio di proprietà, infatti, si compie solo con il versamento dell’ultima rata.

Obblighi dell’acquirente

L’acquirente, poiché entra in possesso di un immobile non proprio, è tenuto a usarlo rispettandone la destinazione d’uso, senza apportare modifiche, curandolo secondo la diligenza del buon padre di famiglia e provvedendo alle spese di manutenzione ordinaria. La manutenzione straordinaria resta a carico del venditore.

Poiché il proprietario dell’appartamento resta il venditore, questi mantiene anche lo status di condomino ed è pertanto tenuto a pagare il condominio. In contratto, però, si può prevedere il diritto di chiedere il rimborso all’acquirente delle somme corrisposte all’amministratore.

Accordi aggiuntivi

Il contratto può poi prevedere ulteriori clausole “personalizzate” come ad esempio il diritto dell’acquirente di recedere dall’accordo dopo un certo periodo, consentendo al venditore di incamerare le rate sino ad allora trattenute.

Svantaggi di acquistare una casa senza mutuo

Il meccanismo che abbiamo appena descritto comporta degli svantaggi difficilmente superabili. Il primo di questi è che eventuali debiti contratti dal venditore ricadono sull’acquirente. Poiché la proprietà si trasferisce solo una volta pagata l’ultima rata, fino a quel momento i creditori del venditore possono sempre pignorare l’immobile o iscrivervi ipoteca; il che frustrerebbe l’investimento del compratore che non avrebbe possibilità di difendersi e di opporre il proprio contratto benché anteriore.

Un altro problema della vendita con riserva di proprietà è che non consente al venditore di ottenere una liquidità immediata mentre spesso chi vende lo fa per comprare un’altra casa, necessitando quindi di una somma di denaro; difficilmente potrebbe, quindi, accettare un pagamento rateizzato nel tempo. Per superare questo problema si prevede spesso l’intervento, nell’operazione, di una società di leasing che, dopo aver acquistato l’immobile dal venditore, accetta poi di concederlo in locazione finanziaria all’interessato all’acquisto.

Negli altri Stati è possibile acquistare casa senza mutuo

In molti ordinamenti è prevista la vendita con riserva di proprietà. Nel settore immobiliare è particolarmente diffusa negli Stati Uniti dove l’acquisto della casa senza mutuo si chiama «land contract» o «contract for deed»: si tratta di una forma contrattuale in forte crescita per via della recente crisi dei mutui.

Chi deve pagare la Tari

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La tassa sui rifiuti copre i servizi comunali di smaltimento e raccolta della spazzatura: vediamo chi deve versarla e quali sono le esenzioni previste.

La Tari (Tassa sui rifiuti), in vigore dal 1 gennaio 2014, ha sostituito i precedenti tributi previsti dalla legge per i servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti (in ordine rigorosamente cronologico: Tarsu, Tia e Tares). Si tratta di un’imposta riscossa dalla singola amministrazione comunale. La Tari fa parte dell’Iuc (Imposta unica comunale), che include anche l’Imu (Imposta municipale propria) e la Tasi (Tributo per servizi indivisibili). L’importo della Tari varia da comune a comune e comprende una parte fissa e una parte variabile: la prima è calcolata in base alla superficie dell’immobile oggetto di tassazione; la seconda in relazione alla quantità di spazzatura prodotta (per cui ci si basa sul numero dei componenti il nucleo familiare). La normativa di riferimento è la legge di stabilità per il 2014 [1]. Scopriamo dunque chi deve pagare la Tari.

Chi paga la Tari

Il presupposto della tassa sui rifiuti è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o aree scoperte (a qualsiasi uso adibiti) suscettibili di produrre rifiuti urbani. É tenuto al pagamento, infatti, «chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani». In pratica, vige il principio del «chi inquina paga»: la tassa è a carico dell’utilizzatore concreto dell’immobile. Se ad esempio occupo una casa in affitto per tutto l’anno, sarò io che dovrò pagare la tassa sulla spazzatura (e non il proprietario di casa: per ulteriori informazioni, clicca qui). Ancora, non rileva la destinazione impressa al bene (è indifferente quindi che venga utilizzato ad uso abitativo o commerciale).

Detenzione temporanea dell’immobile

Viceversa, se ho occupato l’immobile per meno di sei mesi nel corso dello stesso anno solare, la tassa è dovuta dal proprietario del bene (o da chi ne detiene il possesso a titolo di usufrutto, uso, abitazione e superficie).

Pluralità di possessori o detentori

Se l’immobile è occupato da più persone, sono obbligate in solido al pagamento della Tari. Significa che per il comune è indifferente il soggetto che paga. Ognuno degli occupanti può pagare per tutti. Allo stesso modo, in caso di mancato pagamento, il saldo effettuato da uno solo dei possessori estinguerà il debito comune.

Che succede in caso di multiproprietà

Nel caso di multiproprietà (ossia quando diversi proprietari usufruiscono a turno dello stesso immobile), il soggetto obbligato a pagare la Tari è colui che gestisce i servizi comuni. Egli deve versare il tributo dovuto sia per i locali e le aree di uso comune, sia per quelli utilizzate dal singolo possessore o detentore. Lo stesso soggetto, però, potrà chiedere ai singoli detentori il rimborso della quota dovuta, a seconda del caso concreto, per le aree da loro utilizzate in via esclusiva.

Quando non si paga la Tari

La tassa sui rifiuti non è dovuta per:

  • le aree scoperte pertinenziali o accessorie (che non siano operative) a locali già soggetti alla tassazione;
  • le aree comuni del condominio (come i parcheggi condominiali, i cortili, gli androni e così via), a meno che non siano detenute e utilizzate in via esclusiva da un solo condomino;
  • aree e locali che non possono autonomamente produrre rifiuti (si pensi a balconi, terrazze, cantine, solai ecc.);
  • aree e locali che non possono produrre rifiuti per la presenza di situazioni particolari e specifiche.

Non bisogna pagare la Tari, inoltre, per gli immobili rimasti inoccupati per tutto il periodo d’imposta. Se quindi possediamo una casa o un locale in stato di disuso, dovremo dimostrare di non aver effettivamente utilizzato l’immobile per tutto l’anno solare di riferimento. Per far questo bisognerà staccare tutte le utenze principali (luce e acqua) e mantenere il locale senza arredi (letti, tavoli e così via). In questo modo anche un’ispezione comunale potrà accertare che l’immobile è effettivamente disabitato e che quindi rimane esente dalla tassazione.

Le ulteriori esenzioni del comune

La legge di stabilità per il 2014 dà la possibilità ai comuni di stabilire ulteriori esenzioni dalla Tari per:

  • le abitazioni occupate da una sola persona;
  • le abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o per «altro uso limitato o discontinuo» (si pensi alla casa al mare o in montagna);
  • locali ed aree scoperte (che non siano quindi abitazioni) adibite ad uso stagionale o non continuativo, ma ricorrente: immobili che quindi che utilizziamo in maniera frequente ma comunque non in modo continuativo per tutto l’anno;
  • abitazioni occupate da chi risiede o dimora all’estero per più di sei mesi all’anno;
  • fabbricati rurali ad uso abitativo;
  • attività di prevenzione nella produzione di rifiuti da parte del cittadino: in questo caso la riduzione dell’imposta viene commisurata alla quantità di rifiuti non prodotti.

Queste ed ulteriori esenzioni/riduzioni possono essere deliberate volta per volta dalle varie amministrazioni comunali. Per informarsi sull’esistenza e consistenza delle stesse, quindi, è utile consultare il sito del proprio comune o rivolgersi direttamente agli uffici comunali competenti.

Le tariffe ridotte previste dalla legge

Secondo la legge, la tassa va pagata nella misura massima del 20% della tariffa dovuta quando:

  • non viene svolto il servizio di raccolta dei rifiuti;
  • nello svolgimento del servizio, il comune ha violato gravemente la normativa prevista;
  • il servizio è stato interrotto per motivi sindacali o impedimenti organizzativi inaspettati che abbiamo causato un pericolo o un danno alle persone o all’ambiente.

Può poi capitare che in alcune zone non venga effettuata la raccolta di rifiuti e che il punto di raccolta sia lontano dall’immobile oggetto di tassazione: in questo caso la tassa è dovuta in misura non superiore al 40% rispetto alla tariffa in concreto determinata.

Quanto costa la marca da bollo sul cartello Affittasi?

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Non c’è obbligo di marca da bollo per esporre l’avviso di locazione di certe dimensioni nella propria casa o in negozio. Altrimenti si paga poco più di 30 euro.

Dire che in Italia si paga per tutto è uno dei luoghi comuni preferiti proprio dagli italiani. Insieme ad un altro che si sente molto frequentemente: che in Italia si pagano inutilmente certe cose. I luoghi comuni, quasi sempre, lasciano il tempo che trovano. Ma molto spesso rischiano di creare confusione.

E’ il caso, ad esempio, della marca da bollo sul cartello Affittasi, come per molti altri cartelli: quello per mettere in vendita una casa, quello per pubblicizzare qualcosa. C’è, perfino, chi mette la marca da bollo sul cartello in cui annuncia di dare delle ripetizioni ai ragazzini delle medie, quello con i numeri di cellulare che penzolano e si staccano. Ma è davvero obbligatorio pagare questa tassa? E quanto costa la marca da bollo sul cartello Affittasi?

Cartello Affittasi: quando non si paga la marca da bollo

Ci sono diversi casi in cui sicuramente non c’è l’obbligo di pagare la marca da bollo sul cartello Affittasi [1].

Il primo riguarda la collocazione dell’avviso: non è necessaria la tassa quando il cartello viene esposto sull’abitazione del locatore o nelle immediate vicinanze dell’immobile che si intende affittare. Lo stesso vale quando il cartello Affittasi viene collocato sul cancello o sulla recinzione di casa, sulla ringhiera del balcone, sul portone o sul portoncino di ingresso.

Ma la marca da bollo sul cartello Affittasi non si deve pagare nemmeno quando l’avviso viene esposto sulla cassetta della posta (ammesso che sia ben visibile all’esterno e che non sia soltanto il postino a sapere della casa in affitto).

E’ possibile esporre il cartello Affittasi in un negozio senza l’obbligo della marca da bollo, purché l’avviso abbia a che fare con l’attività del negozio (il caso più emblematico, un’agenzia immobiliare), il titolare del negozio dia il proprio consenso e che venga collocato solo in certi periodi dell’anno.

L’altro caso riguarda le dimensioni.

La marca da bollo sul cartello Affittasi non è necessaria quando l’avviso non supera i 25 centimetri quadri (un foglio A4)

Quanto costa la marca da bollo

Nei casi diversi da quelli sopraelencati sarà necessario pagare la tassa per esporre un annuncio di locazione. La marca da bollo sul cartello Affittasi costa 1,81 euro, ma potrebbe essere obbligatorio pagare qualcosa di più.

E’ il caso del cartello Affittasi di misure superiori ai 25 cmq (quindi più grande di un foglio A4) o collocato in un luogo diverso dalla proprietà o del negozio (ad esempio in un qualsiasi altro punto della città). Occorrerà, a questo punto, chiedere l’autorizzazione al Comune pagando:

  • 16 euro di marca da bollo per la richiesta;
  • altra marca da bollo da 16 euro per l’attivazione e l’autorizzazione all’esposizione del cartello.

Affitto: è possibile l’arbitrato?

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Sia nella locazione a uso abitativo che ad uso commerciale, il divieto di arbitrato è stato ormai abrogato.

Se vuoi dare un appartamento in affitto, ma il timore di finire in un’aula di tribunale ti allontana da qualsiasi proposito, sappi che, a prescindere dal tipo di contratto che hai intenzione di stipulare, puoi sempre predisporre la cosiddetta «clausola arbitrale». In particolare, con questa previsione, tu e l’inquilino vi accordate in anticipo per affidare la soluzione di eventuali controversie future ad arbitri privati e non al giudice. Difatti, è stato abrogato il divieto di arbitrato per quanto riguarda sia le locazioni ad uso abitativo che commerciale. È questo l’importante chiarimento fornito ieri dalle Sezioni Unite della Cassazione [1]. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di spiegare se e quando, in caso di affitto, è possibile l’arbitrato.

Cos’è l’arbitrato?

Non è sempre detto che le cause debbano finire in tribunale. Come con la sanità ci si può rivolgere o all’ospedale pubblico o alla clinica privata, anche con i giudici è lo stesso. In particolare le parti possono accordarsi – sia in anticipo, all’atto della conclusione di un contratto, sia al successivo momento della nascita della lite – affinché eventuali controversie tra loro insorte siano decise da uno o più privati cittadini, da queste stesse scelti. Si tratta dei cosiddetti «arbitri», i quali non devono per forza essere professionisti, ma persone di fiducia. Gli arbitri danno vita a una procedura, detta appunto «arbitrato», disciplinata a grandi linee dal codice di procedura civile, ma nel dettaglio specificata dagli interessati secondo un proprio “regolamento”. L’arbitrato non è possibile solo quando oggetto della vertenza sia uno dei diritti indisponibili.

Chiaramente, se le parti non dovranno pagare la tassa di accesso alla giustizia statale (il cosiddetto «contributo unificato»), dovranno tuttavia remunerare gli arbitri. Il vantaggio della procedura arbitrale, tuttavia, sta soprattutto nei tempi, sicuramente più brevi rispetto ai tribunali (massimo 240 giorni dal momento in cui gli arbitri hanno accettato l’incarico).

In caso di contestazioni sull’affitto che succede?

Le eventuali contestazioni sull’affitto possono essere decise tramite arbitrato. Un tempo questa possibilità era vietata da una legge del 1978 [2] la quale disponeva che è «nulla la clausola con la quale le controversie relative alla determinazione del canone siano decise da arbitri». Ma ora il divieto è stato eliminato sia per quanto riguarda gli affitti a uso abitativo che commerciale. Questa importante precisazione, fornita ieri dalla Cassazione, apre la porta alla più rapida soluzione delle vertenze in una delle materie a più alto contenzioso. Il che potrebbe avere effetti importanti anche sugli investimenti esteri in Italia atteso che, molto spesso, le società che affittano immobili (specie per uso vacanze) sono immobiliari straniere.

Il dubbio si è posto perché già nel 1998 una legge [3] aveva abrogato il divieto di arbitrato per le locazioni a uso abitativo. Così ci si è posti il problema se ciò dovesse valere anche per quelle commerciali. E la risposta della Cassazione è stata affermativa [4]. La ragione è semplice. Lo scopo della norma che poneva il divieto di arbitrato nelle locazioni serviva a tutelare il contraente più debole (l’inquilino) contro l’eventuale imposizione, da parte di quello più forte, di clausole contrattuali che potevano apparire vessatorie; tale veniva considerata quella volta a sottrarre le future controversie relative alla determinazione del canone di locazione al giudice ordinario (con tutte le relative garanzie di un organo terzo e imparziale), per affidarle invece a soggetti privati, ossia agli arbitri. Con il superamento dell’equo canone il legislatore ha cambiato pagina nella concezione dei pesi delle parti nel contratto di affitto, concedendo loro la possibilità di «devolvere ad arbitri la decisione della controversia sul canone». Per cui sarebbe irragionevole per sopravvenuta dissimmetria, contrastante con il principio di uguaglianza, continuare ad escludere il ricorso alla giustizia arbitrale per le locazioni ad uso diverso dall’abitazione, dove il conduttore è un imprenditore o un professionista, dunque un soggetto normalmente meno bisognoso di tutela rispetto al conduttore nelle locazioni ad uso di abitazione.

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