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Channel: Casa e Condominio | La Legge per tutti

Posso denunciare chi non vuole uscire di casa mia?

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La Cassazione chiarisce i limiti della violazione di domicilio.

Quando ospitate qualcuno nella vostra abitazione, che sia un amico, un tecnico o un vicino, è implicito un accordo di rispetto reciproco. Tuttavia, cosa accade quando l’ospite si rifiuta di andarsene dopo una discussione? Questa situazione non solo è scomoda, ma può anche trasformarsi in un vero e proprio reato. Ti chiederai allora: posso denunciare chi non vuole uscire di casa mia? Cerchiamo di fare il punto della situazione e vediamo cosa dice la nostra legge in proposito.

Cosa dice la legge se un ospite si rifiuta di uscire da casa mia?

La legge italiana, con l’articolo 614 del codice penale, tutela la sacralità dell’abitazione come luogo privato. Se un ospite si rifiuta di lasciare la vostra casa dopo essere stato invitato a farlo, si può parlare di violazione di domicilio. E non conta se inizialmente era entrato in modo legittimo, perché ospitato.

In quali casi si configura la violazione di domicilio?

La violazione di domicilio si verifica quando una persona si introduce o si trattiene in un’abitazione altrui senza permesso. Il codice penale punisce chiunque commetta tale atto contro la volontà del proprietario o di chi ha il diritto di escludere altri dall’abitazione. Quindi l’illecito penale non scatta solo quando c’è l’intrusione iniziale non autorizzata ma anche quando ci si intrattiene in un luogo ove inizialmente si era stati accolti pur essendo venuta meno l’autorizzazione del titolare.

Quando scatta la violazione di domicilio?

Il reato di violazione di domicilio si verifica quando una persona supera la soglia di un’abitazione senza permesso. Secondo numerose sentenze, anche il piantonarsi dinanzi alla porta di casa, a un passo dallo spioncino della porta, integra la violazione di domicilio.

Anche il fatto di trattenersi, come detto sopra, ossia il rimanere all’interno dell’abitazione o in sue appartenenze contro la volontà del proprietario o del legittimo occupante costituisce violazione di domicilio.

E attenzione: la violazione scatta anche nei confronti di chi è semplicemente in affitto o ha la casa in prestito (comodato). Il concetto di domicilio infatti non richiede la proprietà dell’immobile.

È necessario un esplicito diniego per configurare il reato?

Non è sempre necessario un diniego esplicito. La violazione di domicilio può essere determinata anche da un dissenso tacito, come ad esempio quando il proprietario rende nota la sua volontà di non ricevere visitatori tramite un terzo, come una segretaria.

La violazione di domicilio si applica solo all’interno della casa?

No, il reato di violazione di domicilio si estende anche all’esterno dell’abitazione. Ad esempio, se una persona si piantona sul pianerottolo o in altre aree comuni del condominio senza essere stata invitata, commette comunque violazione di domicilio. Secondo la Cassazione si ha violazione di domicilio quando qualcuno entra nell’androne del condominio o nel giardino senza che nessuno dei condomini lo abbia invitato. E lo stesso vale se lascia l’auto nel cortile condominiale senza aver avuto il permesso da alcun condomino. Il fatto che si tratti di aree comuni non toglie l’esistenza del reato.

Cosa succede se qualcuno si rifiuta di lasciare il mio ufficio privato?

Se il vostro ufficio non è aperto al pubblico e qualcuno si rifiuta di uscire nonostante il vostro diniego, anche in questo caso si può configurare una violazione di domicilio. Lo stesso dicasi per chi si introduce nello studio di un professionista (ad esempio un avvocato o un commercialista) e non vuole uscire nonostante l’invito della segretaria.


Quando il mediatore non ha diritto alla provvigione?

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Un agente immobiliare ha diritto alla provvigione quando la vendita non si conclude e viene depositata solo la proposta di acquisto?

Quando si tratta di trattative relative a compravendite immobiliari, spesso emergono contrasti in merito al momento a partire dal quale l’agente immobiliare (il cosiddetto mediatore) acquisisce il diritto al pagamento della provvigione. Sappiamo infatti che, prima di arrivare dinanzi al notaio, venditore e acquirente hanno numerosi contatti, alcuni dei quali diretti e partecipati dall’agente stesso. In ragione dell’attività preparatoria da questi svolta, potrebbe il professionista esigere il compenso se l’atto notarile non viene poi stipulato? E quando il mediatore non ha diritto alla provvigione?

La legge italiana regolamenta accuratamente le condizioni a cui la provvigione è subordinata, stabilendo che essa scatta solo nel momento in cui le parti concludono un accordo giuridicamente vincolante proprio grazie all’intermediazione dell’agente. A questi basta mettere in contatto venditore e acquirente senza dover necessariamente presenziare a tutte le successive trattative. Ma il compenso è dovuto solo alla stipula di un contratto, non necessariamente il rogito ma anche il compromesso.

E il deposito della proposta di acquisto? È sufficiente a determinare l’obbligo di pagare il mediatore? Recentemente, una sentenza della Cassazione ha fatto chiarezza su questo delicato tema. Scopriamo i dettagli della pronuncia.

La provvigione è dovuta anche senza la firma del contratto?

In linea di principio, la provvigione è dovuta all’agente immobiliare solo se il contratto di vendita viene effettivamente concluso.

La semplice presentazione di una proposta di acquisto non è sufficiente a garantire il pagamento della provvigione. Ciò è confermato dalla sentenza n. 9612/23 della Cassazione, la quale chiarisce che la stipula di un contratto definitivo (il cosiddetto rogito notarile) o almeno di un contratto preliminare (il cosiddetto “compromesso”) è necessaria per legittimare la richiesta di compenso da parte del mediatore.

Se poi, firmato il compromesso, le parti non addivengono alla stipula del rogito per un motivo non dipendente dal mediatore (si pensi all’agente che non abbia informato l’acquirente di eventuali abusi edilizi), quest’ultimo deve essere pagato.

Cosa dice la legge sul diritto alla provvigione?

L’articolo 1755 del Codice Civile stabilisce che il diritto alla provvigione sorge quando il mediatore ha compiuto l’opera per cui è stato incaricato, cioè quando ha contribuito in modo causale alla conclusione dell’affare. Questo significa che deve esserci un nesso diretto tra l’attività del mediatore e la conclusione della vendita. In altri termini, se mediatore e acquirente si sono conosciuti e hanno iniziato a intavolare trattative deve essere merito del mediatore e non di una loro spontanea iniziativa. Questo porta a un’altra importante conclusione: anche a mandato scaduto, se le parti inizialmente messe in contatto dall’agente concludono l’affare, quest’ultimo deve essere ugualmente pagato.

Che cosa ha stabilito la Cassazione riguardo le clausole contrattuali?

Secondo la Suprema Corte, una clausola che prevede il diritto alla provvigione prima della conclusione effettiva dell’affare, ad esempio al semplice deposito della proposta di vendita, è da considerarsi nulla. In particolare, se tale clausola non corrisponde al momento in cui l’affare è stato effettivamente concluso, essa non ha efficacia giuridica.

La Corte ha anche ribadito che, in caso di mancata vendita, il mediatore ha diritto a un compenso solo se ha svolto un’effettiva attività di ricerca e ha mobilitato le proprie risorse e organizzazione.

In quali casi l’agente non ha diritto alla provvigione?

Se l’affare non viene concluso per qualsiasi motivo, come il recesso anticipato o il mancato accordo su termini cruciali come il prezzo o le modalità di pagamento, l’agente non può richiedere la provvigione. Inoltre, la provvigione non è dovuta se le parti non hanno raggiunto un accordo vincolante e formalmente efficace come appunto il compromesso.

Il mediatore non ha diritto al compenso se non è iscritto all’apposito albo o se ha taciuto circostanze determinanti per il consenso delle parti come:

  • le condizioni economiche dell’acquirente (ad esempio se è un soggetto fallito),
  • eventuali divieti contenuti nel regolamento condominiale che possano influire sull’uso del bene (si pensi a chi voglia acquistare un appartamento per farne un ufficio quando il regolamento di condominio vieti utilizzi diversi dalla civile abitazione),
  • la provenienza dell’immobile da una donazione (il che renderebbe più difficile l’accesso al mutuo),
  • la presenza di abusi edilizi,
  • l’assenza di un certificato di agibilità,
  • difetti di costruzione o altri vizi dell’immobile (infiltrazioni di acqua, impianti rumorosi, ecc.).

Pertanto, se l’acquirente o il venditore non giungono alla stipula del contratto per una di tali ragioni, l’agente non può chiedere di essere pagato.

Violazione distanze, perdita di aria e luminosità

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Il mancato rispetto delle distanze tra edifici può portare a risarcimenti per i danni subiti. Secondo la Cassazione il danno è in re ipsa.

Nel tessuto urbano, il rispetto delle distanze legali tra gli edifici non è soltanto una formale norma da osservare perché imposta dall’ordinamento, ma una garanzia per la qualità della vita degli individui. La vicinanza eccessiva tra le strutture può infatti causare problemi non trascurabili, come la riduzione di luce e aria e il disturbo dovuto a fumi e rumori. Inoltre, proprio le ravvicinate intercapedini tra gli edifici possono diventare facile ricettacolo di animali randagi, odori e rifiuti pericolosi per la salute. Ecco perché la legge fissa diverse misure a seconda del tipo di costruzione, lasciando poi ai regolamenti comunali la possibilità di stabilire regole ancora più restrittive.

Ma la violazione delle distanze, la perdita di aria e luminosità determina, oltre a un illecito civile, anche l’obbligo di risarcire il vicino. Tale risarcimento – ha chiarito la Cassazione – non richiede la prova del danno che si presume già sussistente nella condotta vietata.

In quest’articolo, esamineremo le circostanze in cui la giustizia italiana riconosce e quantifica il danno derivante da tale situazione. Ma prima di tutto vediamo cosa e quali sono le distanze legali tra gli edifici.

Che cosa sono le distanze legali tra gli edifici?

Le distanze legali sono misure previste dalla normativa edilizia per garantire che vi sia spazio adeguato tra un edificio e l’altro. Questo spazio è essenziale per assicurare luce, aria e privacy ai residenti, oltre a mitigare l’impatto visivo delle costruzioni.

Le distanze legali da osservare sono le seguenti:

  • 3 metri: quando si tratta di costruzioni poste su proprietà confinanti. Il regolamento urbanistico comunale può prevedere una distanza superiore (mai inferiore). Secondo la giurisprudenza, questo limite si applica non solo in linea orizzontale (in caso di terreni adiacenti), ma anche verticale (quando si tratta di appartamenti in condominio posti sullo stesso piano o su piani diversi). Tuttavia, sempre con riferimento al condominio, la Cassazione ha preso atto che non sempre è possibile rispettare la distanza di tre metri (a causa delle attuali tecniche di costruzione che portano a realizzare gli appartamenti in modo ravvicinato); in tali situazioni è il giudice a valutare, caso per caso, se la costruzione è suscettibile di produrre un effettivo danno al vicino;
  • 2 metri: quando si tratta di pozzi, cisterne, fosse di latrina o di concime presso i confini, invece, la distanza da rispettare si riduce a due metri
  • 1 metro: quando si tratta di le tubature di acqua, gas e le loro diramazioni;
  • 10 metri è infine la distanza legale tra edifici frontali con almeno una parete dotata di finestre.

Perché il rispetto delle distanze è importante?

Mantenere la distanza corretta tra gli edifici non è solamente una questione di conformità normativa, ma influisce significativamente sulla qualità della vita dei cittadini. Distanze adeguate evitano che gli edifici possano causare ombre eccessive, riduzione della ventilazione naturale e intrusioni visive.

A cosa si ha diritto in caso di violazione delle distanze?

La realizzazione di un’opera in violazione delle norme sulle distanze dà diritto al vicino di chiedere l’arretramento o l’abbattimento dell’opera. Inoltre è possibile chiedere il risarcimento del danno. Tale risarcimento si considera “in re ipsa”, ossia già presunto e insito nell’inosservanza della norma. Non è quindi necessario fornire ulteriori prove.

In questo caso, il semplice mancato rispetto delle distanze stabilite per legge tra edifici è di per sé un danno risarcibile.

La liquidazione equitativa viene fatta dal giudice basandosi su una valutazione dei disagi effettivamente patiti, come la perdita di luminosità e la diminuzione della qualità dell’aria.

Cosa dice la Cassazione sul risarcimento per violazione delle distanze?

Con la sentenza n. 6853 del 16 marzo 2017, la seconda sezione civile della Cassazione ha affermato che il mancato rispetto delle distanze legali è di per sé un danno risarcibile, poiché sottopone di fatto il bene a una servitù.

La sentenza ha respinto il ricorso di un costruttore e confermato la decisione della Corte d’Appello che accordava il risarcimento del danno al proprietario di un appartamento vicino.

Nella stessa sentenza, la Cassazione ha considerato anche i disagi derivanti dai fumi e dai rumori delle macchine in transito. Anche se questi non costituiscono la causa diretta del risarcimento, influiscono sulla liquidazione equitativa del danno, aggravando la situazione già compromessa dalla vicinanza eccessiva degli edifici.

Morosità condominiali non riscosse: cosa fare?

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Cosa succede se l’amministratore non agisce tempestivamente per il recupero dei crediti condominiali? Cos’è il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo?

L’inadempimento anche di un solo condomino potrebbe esporre l’intera compagine a un’azione di recupero da parte del creditore. All’esterno, infatti, il condominio si pone come un’unità granitica, cioè come un soggetto unitario, che agisce per mezzo del suo amministratore. Di conseguenza, se ad esempio l’impresa edile oppure la società fornitrice del servizio elettrico non è stata pagata, potrà agire in giudizio contro l’intero condominio, anche se solo un proprietario non ha versato la propria quota.

Per evitare di giungere a tale situazione, la legge impone all’amministratore di agire tempestivamente per il recupero, anche coattivo, delle somme che i condòmini inadempienti non hanno pagato. In questo contesto generale si pone il seguente quesito: cosa fare nel caso di morosità non riscosse? Scopriamolo.

Cosa sono le morosità condominiali?

Un condomino è moroso allorquando non paga la propria parte di spese condominiali.

Queste solitamente riguardano la gestione ordinaria dell’edificio, e sono pertanto composte da bollette periodiche (luce, gas, ecc.), compenso dell’amministratore, stipendio del portiere, ecc.

Nulla esclude, tuttavia, che nelle spese condominiali possano rientrare anche costi straordinari, come avviene ad esempio quando l’assemblea approva la realizzazione di alcuni lavori (rifacimento della facciata ammalorata, ecc.).

Quando il condomino non paga la quota di spese condominiali che gli è addebitata secondo la ripartizione dettata dalle tabelle millesimali, egli diventa moroso e può essere pertanto soggetto ad azione di recupero crediti da parte del condominio.

Morosità condominiali: cosa deve fare l’amministratore?

Secondo l’articolo 1129 del codice civile, salvo che sia stato espressamente dispensato dall’assemblea, l’amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito esigibile è compreso.

In buona sostanza, la legge impone all’amministratore di agire tempestivamente contro il condomino debitore, in modo tale da scongiurare spiacevoli conseguenze che potrebbero gravare sull’intera compagine, come già illustrato in apertura.

Per adempiere a tale obbligo l’amministratore può (anzi, deve) conferire incarico a un avvocato affinché agisca in giudizio per ottenere il recupero del credito, senza che ci sia necessità di essere autorizzato dall’assemblea: come detto, l’amministratore può autonomamente intraprendere tale iniziativa senza dover attendere il consenso dei proprietari.

Decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo: cos’è?

Il recupero delle morosità condominiali è favorito dalla legge grazie allo strumento del decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo nonostante l’opposizione.

In buona sostanza, nel momento in cui l’avvocato del condominio agisce per il recupero dei crediti, il giudice può ordinare al condomino moroso di pagare immediatamente le somme dovute, senza dover attendere la fine di un (presumibile) lungo processo.

L’opposizione al decreto promossa dal debitore non sospende la provvisoria esecutività dell’ingiunzione, che quindi giustifica sin da subito il recupero coattivo del credito, cioè mediante pignoramento e successiva esecuzione forzata.

Cos’è la sospensione dei servizi comuni?

Secondo la legge [1], in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l’amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.

In pratica, l’amministratore non solo può (deve) agire in giudizio contro il condomino moroso ma può anche inibirgli l’utilizzo dei servizi comuni, come ad esempio il riscaldamento centralizzato.

Si tratta di uno strumento volto a “convincere” il condomino moroso a pagare i propri debiti senza perdere ulteriore tempo.

Cosa fare se l’amministratore non riscuote le morosità condominiali?

Se l’amministratore non si attiva tempestivamente per recuperare le morosità condominiali rischia di essere revocato, eventualmente anche mediante ricorso giudiziario, se l’assemblea non vi provvede.

Il recupero dei crediti del condominio e la cura diligente dell’intera procedura costituisce infatti un obbligo inderogabile per l’amministratore, il cui venir meno costituisce una grave irregolarità che giustifica la revoca giudiziale su ricorso al tribunale anche di un solo condomino.

L’amministratore, quindi, non può tardare il recupero dei crediti, magari per favorire qualche condomino: deve sempre agire tempestivamente, non oltre sei mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale, così da impedire che l’intero edificio possa incorrere in problematiche nei confronti dei terzi che, per la morosità anche di un solo condomino, possano vantare un credito che può poi essere azionato contro l’intera compagine.

L’amministratore in prorogatio deve redigere il bilancio?

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Quanto dura il mandato dell’amministratore condominiale? Cosa succede se alla scadenza l’assemblea non provvede alla nomina di un sostituto?

I condomìni con almeno nove proprietari diversi devono necessariamente nominare un amministratore; se non procedono in tal senso, anche un solo condomino può rivolgersi al giudice affinché vi provveda in sostituzione dell’assemblea. Per legge, l’incarico dell’amministratore dura un anno, rinnovabile tacitamente per uno ulteriore. È in questo preciso contesto che si pone il seguente problema: l’amministratore in prorogatio deve redigere il bilancio?

Capita spesso, infatti, che l’assemblea non venga convocata a conclusione del biennio durante il quale l’amministratore è stato in carica. In un’ipotesi del genere, per evitare che si crei un pericoloso “vuoto di gestione”, la legge consente comunque all’amministratore di proseguire il proprio lavoro, almeno fintantoché qualcun altro non prenderà il suo posto. Durante questo periodo, definito per l’appunto “prorogatio”, l’amministratore può anche redigere il rendiconto annuale? Vediamo cosa dicono la legge e la giurisprudenza sul punto.

Quanto dura il mandato dell’amministratore?

Sulla durata del mandato dell’amministratore condominiale non c’è unanimità di vedute.

Posto che risulta pacifico il rinnovo di un anno dopo il primo, c’è divergenza di opinioni su cosa succede al termine del biennio.

Secondo un orientamento [1], decorso il secondo anno, l’amministratore cessa dal suo incarico automaticamente, ossia senza la necessità di un’espressa manifestazione di volontà dell’assemblea, perdendo immediatamente i poteri rappresentativi dei condòmini e quelli gestori in precedenza a lui attribuiti.

In tale situazione l’unico potere-dovere che residua in capo all’amministratore è quello (previsto dall’articolo 1129 del codice civile) di compiere gli atti urgenti necessari ad evitare pregiudizi agli interessi comuni, senza diritto a compensi ulteriori.

Secondo altra tesi [2], invece, la legge non avrebbe posto un limite temporale al sistema di rinnovo tacito annuale, con la conseguenza che il mandato dell’amministratore si rinnoverebbe di anno in anno, senza limiti, fino a che non intervenga l’assemblea a rimuoverlo (o egli non dia le dimissioni).

Il primo orientamento sembra comunque quello maggioritario, per cui deve ritenersi che il mandato annuale dell’amministratore, alla scadenza, si rinnovi tacitamente per un solo anno.

Per ulteriori approfondimenti, si legga l’articolo dal titolo Quanto dura l’incarico dell’amministratore di condominio.

Cos’è la prorogatio dell’amministratore?

Dando adito alla prima tesi, quella della durata annuale dell’incarico, rinnovabile per una sola volta, allo scadere del biennio l’amministratore, in assenza di determinazioni contrarie, resta in carica per svolgere solamente le mansioni ordinarie. Si parla appunto di amministratore in prorogatio.

Lo scopo della “prorogatio” è quello di garantire al condominio una continuità nella gestione dell’edificio.

L’amministratore in regime di prorogatio deve continuare a gestire il condominio limitatamente all’amministrazione ordinaria, erogando le spese necessarie per la manutenzione indispensabile e per il corretto funzionamento dei servizi condominiali, conservando peraltro il potere di chiedere ai condòmini il pagamento dei necessari contributi.

L’amministratore in prorogatio deve redigere il rendiconto?

L’amministratore che si trova in regime di prorogatio deve anche redigere il rendiconto annuale, rientrando tale incombenza tra quelle necessarie alla gestione ordinaria del condominio.

Fino a che non andrà via o non sarà sostituito da altro nominato dall’assemblea, quindi, l’amministratore in prorogatio, al termine dell’esercizio condominiale annuale, potrà (anzi, dovrà) preparare il rendiconto (sia consuntivo che eventualmente preventivo) al fine di sottoporlo ai condòmini per la sua approvazione.

Si tratta di un adempimento fondamentale che, se non venisse eseguito, potrebbe profondamente ledere l’interesse condominiale.

Ma non solo. Si ritiene che l’amministratore in prorogatio che abbia agito nell’interesse comune può sempre ottenere dall’assemblea la ratifica delle spese ordinarie e straordinarie effettuate senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità e urgenza, purché non voluttuarie o gravose [3].

Uso esclusivo di un bene in comproprietà: c’è usucapire?

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Non basta che uno dei comproprietari dell’immobile in comunione ne abbia il possesso esclusivo.

In ambito immobiliare, l’usucapione rappresenta una modalità di acquisizione della proprietà attraverso il possesso prolungato di un bene. Tuttavia, non sempre il l’uso esclusivo è sufficiente a garantire l’usucapire quando si tratta di comproprietà. Questo principio è stato ribadito da una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha stabilito criteri ben definiti per la validità dell’usucapione in casi simili.

Quali sono i requisiti per l’usucapione in caso di comproprietà?

Secondo la sentenza n. 30765 del 2023, per usucapire la quota di un altro comproprietario, non basta godere esclusivamente della cosa comune. È necessaria una manifestazione di possesso che sia chiaramente incompatibile con il diritto altrui. Ciò significa che il comportamento del comproprietario che intende usucapire deve indicare in modo inequivocabile una volontà di agire come se si fosse l’esclusivo proprietario (e non più come comproprietario).

Come si dimostra il possesso ‘uti dominus’?

Per dimostrare un possesso “uti dominus”, colui che richiede l’usucapione deve provare di avere esercitato un possesso esclusivo e continuativo sull’intero bene e non solo su una parte di esso. Deve essere evidente che tale godimento è stato tale da rendere impossibile agli altri comproprietari l’utilizzo della cosa comune. Il possesso deve essere quindi in conflitto con la contitolarità di altri, mostrando una chiara intenzione di appropriazione.

Cosa significa ‘godimento incompatibile con il possesso altrui’?

Il godimento incompatibile si verifica quando le azioni del comproprietario escludono di fatto la possibilità di godimento da parte degli altri compossessori. Questo comportamento deve protrarsi per almeno 20 anni e non può essere il risultato di una semplice tolleranza da parte degli altri proprietari.

Per l’usucapione, è fondamentale dimostrare che il godimento esclusivo abbia avuto caratteristiche tali da manifestare apertamente e senza dubbio il dominio esclusivo sulla cosa comune.

Che cosa ha stabilito la Cassazione riguardo al caso specifico?

Nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la società ricorrente non fosse riuscita a dimostrare un possesso del terreno di tipo esclusivo e contrapposto al possesso degli altri comproprietari. Il Tribunale aveva inizialmente accolto la domanda, ma la Corte d’Appello, e successivamente la Cassazione, hanno ribadito che per l’usucapione è necessario un possesso che trasgredisca i limiti della comproprietà, estendendosi a un dominio esclusivo sull’intero immobile, incompatibile con il contestuale uso degli altri comproprietari.

L’inquilino può pagare direttamente all’amministratore condominiale?

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Quali sono gli oneri accessori che il conduttore deve pagare quando vive in affitto in un appartamento condominiale?

Chi prende una casa in affitto deve pagare non solo il canone mensile di locazione ma anche le spese accessorie inerenti all’immobile. Se l’abitazione si trova in un condominio, esse corrispondono agli oneri condominiali, che la legge pone (in parte) a carico del conduttore. È in questo contesto che si pone il seguente quesito: l’inquilino può pagare direttamente all’amministratore di condominio?

La risposta a questa domanda non è così scontata, se solo si tiene conto che il condominio non ha rapporti diretti con il conduttore ma solo con il proprietario dell’unità immobiliare. In altre parole, l’amministratore può far valere le pretese della compagine soltanto nei confronti del locatore e non dell’inquilino.

Tanto è confermato dal fatto che, di solito, il conduttore paga gli oneri accessori direttamente al locatore, il quale poi provvede a propria volta a versarli al creditore, cioè al condominio. È proprio in tale cornice normativa che si pone il quesito che fornisce il titolo all’articolo: l’inquilino può pagare gli oneri direttamente all’amministratore condominiale? Vediamo cosa dicono la legge e la giurisprudenza.

Quali sono gli oneri accessori?

La legge [1] stabilisce che sono a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative:

  • al servizio di pulizia;
  • al funzionamento e all’ordinaria manutenzione dell’ascensore;
  • alla fornitura dell’acqua, dell’energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell’aria;
  • allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine;
  • alla fornitura di altri servizi comuni (antenna centralizzata, ecc.);
  • al servizio di portineria, nella misura del 90%.

Si tratta per l’appunto degli oneri accessori, che per legge gravano sull’inquilino a meno che nel contratto di locazione non sia previsto diversamente.

Si tratta sostanzialmente di spese inerenti al godimento dell’immobile che, pertanto, giustamente devono essere sopportate da chi vi abita.

Tutte le altre spese gravano invece direttamene sul proprietario: si pensi ad esempio a quelle inerenti alla rinnovazione e/o sostituzione di parti strutturali dell’immobile.

L’amministratore può chiedere gli oneri all’inquilino?

L’amministratore non può rivolgersi all’inquilino per chiedere il pagamento degli oneri accessori.

Come anticipato in apertura, le spese condominiali sono dovute dal proprietario dell’unità immobiliare; ciò significa che l’amministratore può chiederne l’adempimento solo al titolare, cioè a colui che formalmente possiede la qualità di condomino, sebbene nell’immobile viva qualcun altro.

È per tale ragione che, solitamente, nel contratto di locazione è espressamente previsto che il conduttore paghi gli oneri condominiali direttamente al locatore, il quale a propria volta provvederà a versarli al condominio.

L’amministratore, quindi, non ha alcun titolo per rivolgersi all’inquilino, anche qualora le spese condominiali non dovessero essere pagate.

In quest’ultimo caso, cioè nell’ipotesi di mora, l’amministratore potrà (anzi, dovrà) agire legalmente contro il proprietario, il quale ovviamente a propria volta potrà rivalersi nei confronti dell’inquilino inadempiente.

L’inquilino può pagare direttamente all’amministratore di condominio?

Secondo la giurisprudenza [2], l’inquilino non può essere sfrattato per morosità se ha pagato gli oneri accessori direttamente all’amministratore, nonostante nel contratto di locazione fosse previsto diversamente, e cioè che andavano versati al proprietario.

Pertanto, pur avendo convenuto che il conduttore avrebbe versato al locatore, per oneri condominiali, una somma mensile a titolo di acconto, salvo conguaglio da presentare alla fine di ogni anno, il fatto che l’inquilino abbia pagato gli oneri condominiali direttamente all’amministratore senza che l’intimante abbia mai manifestato un’opposizione in tal senso o provato di essere creditore di ulteriori somme, non integra un inadempimento che giustifica la risoluzione del contratto.

Secondo il codice civile [3], infatti, un’obbligazione può essere adempiuta anche da un terzo, perfino contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione.

Nel caso di specie, il terzo è rappresentato dal conduttore, il quale adempie al posto del locatore-debitore del condominio.

Se pertanto l’amministratore accetta pacificamente il pagamento degli oneri da parte dell’inquilino e il locatore è consapevole di ciò, di certo il conduttore non risulterà inadempiente.

Può il condominio limitare i diritti del proprietario?

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Quali sono i divieti in condominio: limiti e attribuzioni dell’assemblea di condominio.

Capita spesso che, nell’ambito condominiale, l’assemblea prenda decisiono che, seppur votate dalla maggioranza, possono ledere i diritti di proprietà di un condòmino. La sentenza numero 9839 della Cassazione a sezioni unite del 14 aprile 2021 insegna come tali deliberazioni siano nulle e non semplicemente annullabili, con conseguente impugnabilità senza limiti di tempo.

In questo articolo ci occuperemo dunque di rispondere al seguente quesito: può il condominio limitare i diritti del proprietario? Potrebbe altresì imporre a uno dei condomini di eseguire lavori all’interno della sua proprietà?

Per comprendere la questione facciamo un esempio pratico, lo stesso che si è presentato di recente dinanzi al Tribunale di Bari che, con sentenza n. 4236/2023, ha ribadito i principi già affermati dalla Suprema Corte.

Un esempio pratico

Immaginiamo che, in un condominio, vi sia da effettuare lavori di impermeabilizzazione del lastrico solare di proprietà esclusiva.

Il condominio delibera l’esecuzione dei lavori stabilendo correttamente che un terzo della spesa sia addebitata al titolare dell’area e gli altri due terzi tra tutti i condomini.

Senonché la stessa delibera che approva le opere decide di limitare il diritto di proprietà individuale, vietando al titolare di apporre al di sopra della guaina di impermeabilizzazione, rifatta per limitare le infiltrazioni d’acqua ai piani sottostanti, ogni tipo di pavimentazione.

Il proprietario del lastrico solare si oppone alla delibera perché, a suo dire, avrebbe deciso in materia estranea alla competenza dell’assemblea: quella cioè relativa ai limiti all’uso delle proprietà individuali.

Nel caso di specie, il tribunale di Bari ha accolto il ricorso del condomino che, proprio per tale motivo, si era rifiutato di pagare la spesa per la manutenzione straordinaria.

Limiti all’uso delle aree condominiali

All’interno di un condominio sono presenti:

  • aree comuni in comproprietà tra tutti i condomini secondo i rispettivi millesimi;
  • aree individuali costituite dalle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini.

Le aree comuni sono elencate a titolo esemplificativo dall’articolo 1117 del codice civile e sono il tetto, il terrazzo o il lastrico solare, la facciata, il giardino, l’androne, i pianerottoli, le fogne, le fondamenta, ecc.

Delle aree comuni ciascun condomino è libero di fare l’uso che vuole purché:

  • non ne modifichi la destinazione (ossia lo scopo per cui tali aree sono state create): non si può ad esempio usare il giardino come luogo per parcheggiare motorini, il cortile come deposito della legna da ardere o il lastrico solare come luogo per organizzare feste;
  • non impedisca agli altri condomini di farne uso: il che si risolve in un utilizzo limitato, non permanente e soprattutto non tanto esteso da impedire il contestuale sfruttamento da parte dei vicini di casa. Ad esempio ciascun condomino può usare il tetto per installare pannelli fotovoltaici a patto di non occupare una superficie superiore ai propri millesimi.

Limiti all’uso della proprietà individuale

Maggiori sono chiaramente le libertà nell’uso della proprietà individuale. In particolare ciascun titolare di appartamenti può eseguire opere e lavori a patto che:

  • non alteri il decoro architettonico dell’edificio (si pensi a una veranda in distonia rispetto agli altri balconi);
  • non pregiudichi la stabilità dell’edificio;
  • ne dia previa comunicazione all’amministratore.

Il condominio non può imporre ai condomini le modalità di utilizzo dell’appartamento. Lo potrebbe fare solo con il consenso dell’interessato. Tale consenso si qualificherebbe pertanto come una sorta di “autolimitazione” del diritto di proprietà, ammessa dalla legge proprio perché volontaria.

Ma come si ottiene questa autorizzazione? In tre diversi modi:

  • con un regolamento contrattuale, ossia accettato all’unanimità. Questo può realizzarsi in due modi: a) con l’allegazione del regolamento ai singoli atti di compravendita delle unità immobiliari, in modo che l’acquirente, insieme al rogito, accetti anche il regolamento; b) oppure con una delibera dell’assemblea cui abbiano partecipato tutti i condomini e tutti abbiano votato a favore;
  • con una delibera assembleare che adotti una limitazione all’uso degli appartamenti: anche questa deve essere presa all’unanimità;
  • con un contratto firmato da tutti i condomini, anche se in momenti tra loro diversi.

Che succede se il condominio delibera a maggioranza un limite all’uso

La delibera dell’assemblea di condominio che pone limitazioni all’uso della proprietà individuale è radicalmente nulla. A differenza dei casi di annullabilità (si pensi alla omessa convocazione, al mancato rispetto dei quorum, ecc.) la nullità può essere fatta valere in qualsiasi momento, non quindi necessariamente entro 30 giorni dall’approvazione della delibera. Quindi, in buona sostanza, il condomino interessato può agire dinanzi al giudice in qualsiasi momento, anche opponendosi al decreto ingiuntivo intimatogli dal condominio per il pagamento delle spese.

La nullità può essere invocata dunque in qualsiasi momento, essendo un difetto così grave da non poter essere sanato.

Quali sono le conseguenze della nullità di una delibera per il condominio?

La principale conseguenza è che il condominio non può imporre al condòmino decisioni che limitano la proprietà privata senza un consenso chiaro e inequivocabile di quest’ultimo, ossia senza l’unanimità. In caso contrario, la delibera è nulla e il condomino non solo non è tenuto a rispettarla ma non deve neanche pagare eventuali spese deliberate contestualmente dall’assemblea stessa, come nell’esempio fatto in apertura relativo al rifacimento del lastrico solare.


Come stabilire se il lastrico solare è condominiale

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La Corte di Cassazione ha stabilito che un lastrico solare si presume di proprietà condominiale, salvo prova contraria fornita dal proprietario dell’ultimo piano.

Se vivi all’ultimo piano di un edificio e godi di un lastrico solare, potresti chiederti: è un’estensione del mio appartamento o una parte condominiale? La recente ordinanza della Cassazione n. 30975/2023 ha portato chiarezza su questo interrogativo comune, offrendo una linea guida essenziale per i proprietari di appartamenti in cima agli edifici. In questo articolo vedremo come stabilire se il lastrico solare è condominiale, quali prove bisogna fornire per dimostrare la proprietà individuale e quali sono le condizioni affinché ciò si possa verificare. Ma procediamo con ordine.

La presunzione di condominialità del lastrico solare

L’articolo 1117 del codice civile elenca una serie di aree di ogni edificio che si presumono condominiali, ossia di proprietà di tutti i condomini, salvo prova contraria.

L’elenco è solo esemplificativo e contiene: il tetto, le fondamenta, le tubature, l’ascensore e gli altri impianti comuni, le facciate esterne, il tetto, il lastrico solare o la terrazza, il giardino e il cortile, i pianerottoli, le scale, l’androne, ecc.

La presunzione legale di condominialità di tali aree si basa sull’uso comune o sulla possibilità di godimento collettivo dell’area in questione.

Anche il lastrico solare si presume essere condominiale, ossia di proprietà di tutti i condomini, in proporzione ai rispettivi millesimi.

Il proprietario dell’ultimo piano che rivendichi la proprietà esclusiva del lastrico solare deve fornire prova inequivocabile del suo diritto.

Chi detiene la proprietà del lastrico solare?

La Corte di Cassazione ha delineato chiaramente che il lastrico solare si presume di proprietà condominiale a meno che il proprietario dell’ultimo piano non dimostri il contrario. La sentenza n. 30975/2023 ha sottolineato che l’accessibilità del lastrico solare attraverso un terrazzo privato non influenza questa presunzione.

La possibilità di accedere al lastrico solare esclusivamente attraverso un terrazzo privato non attribuisce diritti di proprietà esclusiva sullo stesso. La Cassazione ha chiarito che esiste sempre la possibilità tecnica di creare un accesso alternativo dal condominio, invalidando di fatto l’argomento dell’accesso esclusivo.

Come dimostrare che il lastrico solare è di proprietà esclusiva?

La prova della proprietà esclusiva non può basarsi semplicemente sul titolo di acquisto dell’unità immobiliare o su trasferimenti precedenti, a meno che non si tratti dell’atto costitutivo del condominio o di una esplicita riserva fatta dall’originario proprietario unico.

In buona sostanza, il costruttore deve riservarsi la proprietà del lastrico già con la vendita del primo appartamento. È proprio in questo momento infatti che si forma il condominio e dunque la proprietà del bene diventa automaticamente comune.

Secondo l’ordinanza citata, spetta al condomino che rivendica la proprietà esclusiva del lastrico solare dimostrare la sua titolarità. La legge dispensa il condominio dall’onere della prova, essendo sufficiente la destinazione all’uso comune o la configurazione strutturale per presumere la comunione.

La vicenda

Un condominio aveva agito in giudizio contro i proprietari dell’ultimo piano per rivendicare la proprietà comune di una porzione di lastrico solare adiacente al loro appartamento.

I tribunali di merito e la Cassazione hanno confermato che l’onere della prova spetta al condomino che pretenda la proprietà esclusiva.

Implicazioni per i condomini

I proprietari di immobili situati all’ultimo piano dovrebbero verificare e, se necessario, documentare la proprietà esclusiva di aree come il lastrico solare.

I condomini possono rivendicare l’accesso a parti comuni come i lastrici solari, anche se attualmente accessibili solo attraverso proprietà private.

Suggerimenti per la prassi condominiale

Consigliabile consultare l’atto costitutivo del condominio o eventuali atti di trasferimento della proprietà per determinare la natura giuridica del lastrico solare.

In caso di contenzioso, preparare la documentazione necessaria per supportare o contestare la presunzione di condominialità.

Infiltrazioni in condominio e risarcimento del danno

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Responsabilità del condominio per infiltrazioni: criteri di risarcimento, danno alla salute e obbligo di svolgimento dei lavori di manutenzione.

Avete mai sperimentato problemi di infiltrazioni nel vostro appartamento? Se sì, potreste avervi pensato: “E ora, chi pagherà i danni?” La questione delle infiltrazioni in un edificio condominiale è più che una semplice seccatura domestica; essa pone questioni legali complesse relative alla responsabilità e al risarcimento dei danni. Questo articolo esplora le recenti sentenze italiane che delineano le circostanze in cui un condominio è tenuto a risarcire i danni causati da infiltrazioni, offrendo una guida chiara a residenti e amministratori di immobili.

Cosa dice la legge sulle infiltrazioni in condominio?

Le recenti sentenze italiane affermano chiaramente la responsabilità del condominio per danni causati da infiltrazioni provenienti da parti comuni, dovute a negligenza nella manutenzione. Questo principio è stato ribadito in diverse occasioni, come nel caso del Tribunale di Crotone (n. 727 del 02 settembre 2020) e della Corte d’Appello di L’Aquila (n. 606 del 16 aprile 2021).

Il principio trova esplicitazione nell’articolo 2051 del codice civile in forza del quale il proprietario o il custode della cosa è tenuto a risarcire i danni procurati a terzi dalla cosa stessa, salvo che dimostri il cosiddetto «caso fortuito». Si considera “fortuito” l’evento imprevedibile e inevitabile anche usando un comportamento diligente.

Come si stabilisce la responsabilità del condominio?

Il primo passo da compiere è l’individuazione delle cause delle infiltrazioni, di norma affidata a un tecnico specializzato (un idraulico nominato dal danneggiato, eventualmente con l’accordo del presunto danneggiante). Se le perdite di acqua provengono da tubature verticali o da parti comuni, la responsabilità è del condominio.

Si ritiene sussistente la corresponsabilità del condominio anche per le infiltrazioni provenienti dal lastrico solare di proprietà esclusiva: nonostante infatti la titolarità di tale area sia del condomino dell’ultimo piano, il condominio – nella figura dell’amministratore – ha un generale dovere di supervisione che tutto l’edificio sia in buon stato di manutenzione.

La custodia delle parti comuni implica in automatico la responsabilità del condominio di prevenire danni agli immobili privati. Si tratta di una responsabilità oggettiva, che prescinde quindi da dolo o colpa ma che sussiste solo per la connessione tra il soggetto (condominio) e la cosa (l’area interessata dalle infiltrazioni). La Suprema Corte, con sentenza n.13595/2021, ha chiarito che tale responsabilità esiste quando c’è un rapporto di custodia che permette il controllo e l’eliminazione di pericoli, basandosi sull’articolo 2051 del Codice Civile.

Quando inizia e finisce la prescrizione per i danni da infiltrazione?

La prescrizione per i danni da infiltrazione è quinquennale, iniziando non dal primo manifestarsi dell’infiltrazione, ma dalla sua definitiva cessazione, come precisato dalla Cassazione con sentenza n.3314/2020.

Quali lavori può essere obbligato a fare il condominio?

Nel caso specifico del Tribunale di Crotone, sono stati ordinati lavori di manutenzione straordinaria, tra cui il risanamento dei canali di gronda e l’impermeabilizzazione del tetto, per evitare future infiltrazioni.

Come si quantificano i danni da infiltrazioni?

Sono numerose le voci di danno che il condominio è tenuto a risarcire in caso di infiltrazioni.

Ci sono innanzitutto i danni patrimoniali, derivanti dal danneggiamento dell’appartamento. Quindi il condominio è tenuto non solo a ripristinare l’area interessata dalla perdita, effettuando la dovuta manutenzione, ma a risarcire anche il titolare dell’appartamento interessato dalle macchie di umidità e dalla muffa per una somma pari ai lavori necessari a rimettere a nuovo l’intera stanza.

Ci sono poi i danni alla salute, il cosiddetto «danno biologico». Questo va opportunamente dimostrato.

Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n.1076/2023, ha riconosciuto un danno biologico a minori causato dalle infiltrazioni, risarcendo i genitori per le riniti allergiche dei bambini.

È dimostrato che l’esposizione alle muffe e/o umidità domestica si associa alla maggiore prevalenza di sintomi respiratori, asma e danni funzionali respiratori. Si evidenziava, a tal proposito, che in una recente pronuncia la Suprema corte aveva affermato che «Pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione, tutelato anche dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, nonché del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, integra una lesione che non costituisce un danno in re ipsa, bensì un danno conseguenza e comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno non patrimoniale» (Cassazione civile 1823/2023).

Il danno alla vita familiare

Inoltre, la Suprema Corte con sentenza n.1823/2023 ha sottolineato che, anche in assenza di un danno alla salute, il risarcimento deve comunque prevedere il danno morale per la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare, a prescindere dall’integrità fisica.

Secondo la Cassazione «pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione integra una lesione che comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno non patrimoniale» (Cassazione civile 1823/2023).

La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza n.503 del 07 febbraio 2023, ha definito il danno alla salute come un pregiudizio alla vita quotidiana, risarcibile anche senza una malattia biologica.

Le sentenze del Tribunale di Bergamo (n. 1743/2023) e della Cassazione (n. 9449/2016 e n. 3239/2017) hanno confermato la condivisione di responsabilità tra proprietario del terrazzo e condominio per danni da infiltrazioni.

Questi danni vengono quantificati «in via equitativa», ossia secondo quanto appare giusto al giudice nel caso specifico, non essendovi criteri certi e matematici per ancorare il risarcimento a una prova materiale.

E se l’appartamento è a uso investimento?

Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 2192/2023, ha quantificato il risarcimento basandosi sul valore di locazione dell’immobile, considerando il mancato godimento dello stesso come danno da lucro cessante. In questo modo il giudice ha liquidato al proprietario dell’appartamento una somma pari ai canoni di locazione che avrebbe riscosso se avesse potuto concludere un contratto di locazione a condizioni di mercato.

Il condominio: vademecum essenziale

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Come funziona un condominio: le regole sul funzionamento dell’assemblea, i poteri dell’amministratore, i diritti e i doveri dei condomini.

Sei diventato recentemente un condomino e ti trovi di fronte alla complessità delle norme che regolano la vita all’interno del tuo palazzo? Navigare tra le acque delle regole condominiali può sembrare un viaggio complicato, specialmente per chi non ha mai dovuto affrontare tali questioni. In effetti, il quadro normativo che disciplina i condomini è piuttosto articolato e viene ulteriormente specificato dai regolamenti interni di ogni edificio.

In questo articolo, il nostro obiettivo è di delineare un quadro chiaro e sintetico delle principali regole condominiali che ogni abitante di un edificio in condominio deve conoscere e seguire. Dalla convocazione delle assemblee alla ripartizione delle spese, ci sono norme precise stabilite dal codice civile che regolano ogni aspetto della vita condominiale e che hanno ricevuto importanti aggiornamenti con la riforma del 2012.

Molte di queste disposizioni hanno una forza tale da non poter essere modificate neanche con una decisione a maggioranza durante l’assemblea condominiale. Ad esempio, i criteri di ripartizione delle spese, che possono essere modificati solo con il consenso unanime dei condomini, o le modalità di convocazione dell’assemblea, che richiedono metodi di comunicazione ben precisi per essere valide.

Nella nostra guida affronteremo i fondamenti legali che strutturano i rapporti interni del condominio, esaminando le procedure standard che devono essere seguite per la gestione delle parti comuni e la risoluzione dei dissensi che possono sorgere tra i residenti.

Continua a leggere per scoprire come le regole condominiali influenzano la tua esperienza di vita in condominio e come puoi navigare al meglio queste normative per una convivenza armonica e conforme alle disposizioni vigenti.

Come funziona un condominio?

Un condominio è un edificio che contiene più abitazioni di proprietà di diverse persone. Per esempio, se in una casa ci sono due appartamenti e ognuno appartiene a un proprietario diverso, ecco che si ha un condominio, anche se è piccolo (si parla in questo caso di “condominio minimo”).

Il condominio quindi si forma non appena il proprietario unico dell’intero edificio (ad esempio il costruttore) vende anche un solo appartamento. Si pensi anche al caso del padre che lascia la villetta, prima interamente sua, ai due figli, attribuendo al primo il piano terra e al secondo quello superiore.

Non c’è bisogno di un atto formale di costituzione del condominio. La sua nascita è spontanea e, come detto, deriva dal semplice fatto che in un palazzo ci sono almeno due proprietari diversi.

Regole su amministratore e regolamento di condominio

Se ci sono almeno nove condomini, è necessario avere un amministratore che si occupi della gestione del condominio. Nulla toglie che l’assemblea possa nominare un amministratore anche in presenza di otto condomini o meno.

Se i proprietari sono almeno 11, è obbligatorio deliberare un regolamento di condominio che fissi le regole e l’uso delle parti comuni. Anche in questo caso è possibile dotarsi di un regolamento benché i condomini siano 10 o meno.

Regole sulle parti comuni

L’articolo 1117 del codice civile elenca quali sono le parti comuni del condominio, quelle cioè che appartengono a tutti i condomini, in proporzione ai rispettivi millesimi. Si tratta di una elencazione esemplificativa: nulla toglie quindi che alcune di queste parti risultino essere di proprietà esclusiva (succede spesso col sottotetto o con il lastrico solare) o che vi siano ulteriori parti comuni.

Tipiche parti comuni sono: le scale, i pianerottoli, l’androne, il tetto, il lastrico solare o la terrazza, le fondamenta, il giardino e il cortile, le facciate perimetrali, le tubature comuni e tutti gli altri impianti come il riscaldamento e l’ascensore. Sono parti comuni anche gli elementi ornamentali dei balconi.

Ciascun condomino può usare le parti condominiali come se fossero proprie (del resto lo sono in quota parte). Ad esempio ha diritto ad accedere alla terrazza (lastrico solare) se non è di proprietà esclusiva e a riporvi propri oggetti, a usare le aree verdi per piantare fiori e spezie, ad aprire un muro sulla facciata del condominio per ricavarne una finestra o una porta di accesso al proprio negozio a condizione che non deturpi l’estetica del fabbricato.

Per utilizzare le parti comuni ci sono alcune regole da rispettare:

  • non puoi usarle in modo che gli altri non possano fare altrettanto: quindi non puoi occupare tutto lo spazio;
  • devi usarle secondo la loro destinazione e non per usi diversi dalla funzione che è propria di tale area (ad esempio niente biciclette nell’androne).

Regole sull’uso degli appartamenti

Le parti di proprietà esclusiva sono invece quelle di cui ogni proprietario può fare ciò che vuole: si tratta quindi dei singoli appartamenti. Il regolamento di condominio può imporre dei limiti all’uso delle proprietà individuali (ad esempio il divieto di modifica della destinazione d’uso, di frazionamento, di locazione a studenti, di realizzazione di opere esterne come verande o tettoie, ecc.). Tuttavia, affinché tali limiti siano validi è necessario che il regolamento sia di tipo “contrattuale” ossia approvato all’unanimità da tutti i condomini. Il che può avvenire o con votazione in assemblea o con allegazione del regolamento ai singoli atti di compravendita.

In ogni caso le clausole che dovessero introdurre restrizioni all’uso delle parti comuni o di quelle di proprietà esclusiva devono essere enunciate chiaramente e in modo esplicito, e accettate o approvate dagli interessati. Non sono quindi valide le disposizioni espresse con formulazione del tutto generica. Né sono possibili interpretazioni analogiche a fattispecie non previste (ad esempio, dal divieto di adibire gli appartamenti a b&b non si può evincere anche il divieto di svolgere l’attività di affittacamere).

Divieti e limitazioni sulle parti comuni o su quelle di proprietà esclusiva possono essere inseriti anche in un regolamento assembleare, ma devono essere approvati all’unanimità.

I vincoli in questione hanno poi validità anche per i successivi acquirenti a patto che essi siano annotati nei registri immobiliari o il regolamento sia allegato al rogito di acquisto dell’immobile.

Se vuoi fare dei lavori nel tuo appartamento (per esempio, abbattere un muro o aprire una nuova finestra) devi:

  • informare l’amministratore prima di iniziare;
  • fare attenzione a non rovinare l’aspetto dell’edificio (il cosiddetto “decoro architettonico” che non è l’estetica ma la coerenza delle linee dell’edificio);
  • assicurarti che il lavoro non danneggi la struttura dell’edificio (a tal fine sarà meglio presentare un progetto in assemblea).

Per esemplificare, immagina di voler unire due appartamenti togliendo un muro. Prima di procedere, avvisi l’amministratore, ti assicuri che l’esterno dell’edificio rimanga bello e che l’edificio stesso resti solido e sicuro.

Regole condominiali: chi le stabilisce?

Le regole condominiali hanno due fonti. Innanzitutto c’è il codice civile che fissa tutte le principali regole da rispettare: la nascita del condominio (ci vogliono almeno due condomini), la nomina di un amministratore (obbligatoria da 9 condomini), la formazione del regolamento condominiale (obbligatoria con almeno 11 condomini), i poteri dell’amministratore, i criteri di ripartizione delle spese comuni, il recupero delle spese dai morosi, le votazioni in assemblea e le relative maggioranze, l’uso dei servizi comuni, ecc.

Poi c’è il regolamento di condominio che, in alcuni casi, va ad integrare il codice civile e in altri lo può anche derogare (ad esempio il regolamento può prevedere dei diversi criteri di ripartizione delle spese tra i vari proprietari).

Nel regolamento sono poi indicati i millesimi di ciascun appartamento: è questa la misura sulla base della quale vengono poi divisi gli oneri della gestione ordinaria e straordinaria.

Il regolamento di condominio può essere di due tipi:

  • contrattuale: è predisposto dal costruttore e allegato agli atti di acquisto, oppure approvato all’unanimità dai condomini;
  • assembleare: è approvato dalla maggioranza degli intervenuti all’assemblea, in rappresentanza di almeno 500/1.000, anche in seconda convocazione.

I condomini hanno l’obbligo di conoscere sia la legge che il regolamento e non possono invocare, a loro beneficio, l’ignoranza.

Chi acquista casa con un regolamento già approvato dal venditore deve rispettarne tutte le clausole come se lo avesse accettato in prima persona. Quando però il regolamento contiene vincoli all’uso dell’appartamento (ad esempio il divieto di stendere panni dal balcone o di adibire l’appartamento a determinate attività), tali clausole sono efficaci nei confronti dell’acquirente solo se il regolamento:

  • è stato originariamente approvato all’unanimità;
  • è stato trascritto nei pubblici registri immobiliari (dimodoché se ne possa prendere preventiva visione) oppure allegato o semplicemente richiamato nel rogito di acquisto della casa.

Non è invece necessario che il rogito faccia menzione espressa delle singole clausole.

Obblighi di inquilini in affitto

Anche chi prende in affitto un appartamento deve conoscere tutte le clausole del regolamento. Per le eventuali violazioni ne risponde in prima persona. L’amministratore ad esempio potrebbe agire contro l’affittuario che non rispetta i turni del parcheggio, che sporca, che fa rumore oltre gli orari consentiti dal regolamento, che usa l’immobile per finalità vietate dal regolamento.

Il locatore, dal canto suo, ha l’obbligo di far cessare tali molestie, eventualmente procedendo allo sfratto dell’inquilino molesto. Diversamente risponde insieme a quest’ultimo delle sue violazioni.

Il silenzio in condominio

Innanzitutto viene il rispetto, che non è solo una questione giuridica ma anche di buona educazione. Questo significa che ciascun condomino non può provocare “rumori intollerabili”. Non ci sono orari prefissati oltre i quali è d’obbligo il silenzio salvo che il regolamento disponga diversamente. Bisogna quindi basarsi sulle abitudini dell’uomo medio e valutare se la molestia acustica è tale, per intensità, ripetizione e orario in cui viene effettuata, da recare danni agli altri.

L’articolo 844 del codice civile afferma che i rumori illeciti sono quelli “superiori alla normale tollerabilità”. Questo parametro generico viene concretamente interpretato dal giudice sulla scorta di una serie di elementi come la collocazione geografica dell’immobile (in una zona residenziale è richiesto maggior silenzio rispetto al centro urbano già interessati da numerosi rumori provenienti dalla strada); l’orario in cui il rumore viene prodotto; la durata e l’intensità del rumore; la necessità del rumore (per quanto insopportabili, i rumori della ditta di ristrutturazione devono essere tollerati se vengono svolti negli orari di lavoro).

Se il rumore molesta solo pochi condomini si ha un semplice illecito civile a fronte del quale esigere l’interdizione della condotta e il risarcimento (a patto di dimostrare il danno). Se il rumore molesta tutto il condominio e/o i condomini dei palazzi circostanti si ha il reato di disturbo della quiete pubblica, con conseguente condanna penale. È tuttavia necessaria la querela di parte.

Il rispetto della privacy

Ciascun condomino ha sempre diritto a sapere chi non paga gli oneri e può imporre all’amministratore di mostrargli o fargli estrarre copia delle fatture, dei bilanci e di tutti gli altri documenti della gestione. Ma l’elenco non può essere esposto in pubblico.

L’amministratore deve rivelare i nomi dei morosi in assemblea se gli viene chiesto, ma non può farlo se vi partecipano estranei.

Regole sulla videosorveglianza

Parliamo allora di videosorveglianza. È vietato, ad esempio, puntare la telecamera di videosorveglianza sulle parti comuni dell’edificio (come il pianerottolo) in modo da controllare il passaggio dei vicini o dei loro ospiti. Gli obiettivi vanno puntati in direzione del proprio zerbino o, comunque, sul pavimento. In ogni caso ciascun condomino può munirsi di una videosorveglianza privata, fissandola sul pianerottolo o sulla porta di casa, senza dover né chiedere l’autorizzazione all’assemblea, né apporre cartelli di avviso.

Invece, la videosorveglianza condominiale richiede la votazione dell’assemblea a maggioranza dei presenti che rappresentino 500 millesimi, con l’apposizione di un cartello di avviso in bella vista.

Il pagamento delle spese condominiali

Ogni mese, i proprietari di un condominio devono pagare delle quote ordinarie per la sua gestione quotidiana. Queste quote sono stabilite dall’amministratore e approvate dai proprietari durante l’incontro annuale. A volte, queste quote possono essere richieste anche senza un accordo formale dell’assemblea dei proprietari.

Quando il condominio necessita di lavori straordinari, come la riparazione del tetto, l’assemblea deve prima dare il suo consenso. Dopo aver scelto l’azienda che farà i lavori e approvato il costo, i proprietari creano un fondo speciale per raccogliere i soldi necessari per pagare i lavori man mano che procedono, evitando così che qualcuno non paghi la sua parte. La mancata costituzione del fondo speciale determina l’invalidità della delibera di approvazione dei lavori e l’impossibilità di procedere alla riscossione delle quote.

Se qualcuno non paga le sue quote, può ricevere un ordine dal giudice che lo obbliga a pagare immediatamente (il cosiddetto decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo) con il diritto di fare opposizione entro 40 giorni. Se non si paga neanche davanti al decreto ingiuntivo scatta il pignoramento dei beni, compresa la stessa casa.

Se l’opposizione al decreto si fonda sulla contestazione della decisione presa durante l’assemblea dei proprietari, devi aver presentato ricorso contro quella decisione entro 30 giorni dalla sua approvazione (se non eri presente o non eri d’accordo) o dalla data in cui ti è stato comunicato il verbale dell’incontro (se non eri presente). Diversamente non puoi presentare opposizione al decreto ingiuntivo, a meno che non si tratti di un vizio particolarmente grave che determini la nullità della delibera (ad esempio l’aver deciso su questioni per cui l’assemblea non è competente).

In casi di emergenza, come una perdita d’acqua che potrebbe danneggiare l’edificio, l’amministratore o un proprietario possono decidere di fare subito i lavori senza aspettare il permesso dell’assemblea. Se i lavori sono davvero urgenti, poi chiederanno di essere rimborsati. Se però i lavori non erano così urgenti, non avranno diritto al rimborso.

La divisione delle spese condominiali

In materia di divisione delle spese, tutti i condomini devono partecipare secondo i propri millesimi. Questa regola può essere modificata solo all’unanimità. La delibera che modifica il criterio di ripartizione millesimale della spesa ma lo fa solo per il passato o per una singola annualità (ad esempio esonerando un condomino dal contribuire alle spese o riducendo la sua quota) è annullabile e quindi deve essere impugnata entro 30 giorni. Pertanto, chi non si oppone alla delibera non può poi presentare ricorso contro il decreto ingiuntivo che richiede il pagamento degli oneri.

Invece la delibera che modifica definitivamente i criteri di ripartizione, quindi anche per il futuro, derogando alla regola dei millesimi, è nulla e quindi può essere contestata in qualsiasi momento, anche dopo diversi anni.

La regola della partecipazione alle spese comuni secondo millesimi va corretta quando vi sono dei beni o servizi di cui alcuni condomini fanno un uso più intenso (ad esempio le scale per chi vive ai piani alti o il riscaldamento per chi ha la casa più grande). In tal caso la ripartizione deve tenere conto di tale differenza di utilizzo. Ecco perché spesso vengono previste tabelle millesimali ulteriori, riferite cioè a specifici beni.

Se poi l’edificio è composto da più scale, tetti o edifici, ciascun condomino partecipa solo alle spese relative alla parte del condominio che lo riguarda. Ad esempio, i condomini della scala A non devono pagare le spese per l’ascensore della scala B; i condomini del fabbricato 2 non devono pagare il rifacimento del tetto del fabbricato 3.

Nella ripartizione delle spese non conta l’uso effettivo ma quello potenziale. Il che significa che anche i negozianti devono contribuire alle spese dell’ascensore o del lastrico solare. Tuttavia quando ci sono alcune parti del condominio suscettibili di essere utilizzate solo da alcuni condomini (si pensi alle scale o al tetto di un condominio costituito da due diversi corpi di fabbrica), le spese ricadono solo sui condomini che si avvantaggiano di esso.

Acqua comune

Ogni condomino ha diritto a ricevere un’adeguata fornitura di acqua potabile.

Le spese dell’acqua sono ripartite secondo millesimi. Solo se tutti gli appartamenti sono dotati di contatori individuali è possibile procedere secondo consumi. Ulteriori regole possono essere decise solo all’unanimità.

Riscaldamento autonomo

Ogni condomino ha diritto a staccarsi dall’impianto centralizzato in qualsiasi momento voglia e sempre che da tale intervento non ne derivino maggiori oneri per gli altri proprietari o disfunzioni all’impianto comune. In tal caso non pagherà più le spese dei consumi ma solo quelle sulla manutenzione straordinaria (visto che l’impianto comune è ancora in parte suo e può decidere in qualsiasi momento di riallacciarsi) e quelle per la dispersione del calore (i cosiddetti consumi involontari).

Animali in casa

Il regolamento di condominio non può impedire ai condomini di detenere animali domestici negli appartamenti. Può però impedire di portarli in ascensore.

Solo un regolamento approvato all’unanimità può escludere la detenzione di animali in casa.

La regola riguarda solo gli animali domestici. Sarebbe quindi legittima la clausola che impedisca di detenere animali esotici.

Debiti del condominio

Se il condominio non paga i propri fornitori, questi possono agire con un pignoramento nei confronti del conto corrente del condominio oppure contro i singoli proprietari degli appartamenti. In questa seconda ipotesi però bisogna prima avviare gli atti esecutivi contro i morosi, coloro che non hanno cioè pagato le quote in relazione alla specifica spesa cui si riferisce la fattura insoluta. L’elenco di tali soggetti deve essere fornito al creditore dall’amministratore. Solo se il creditore non riesce a recuperare gli importi dai morosi può agire contro gli altri condomini, ma pur sempre chiedendo a ciascuno di questi un importo non superiore alla sua quota millesimale.

Incarico all’amministratore: durata e revoca

L’amministratore di un condominio dura in carica solo un anno. Il mandato si rinnova in automatico solo dopo la prima scadenza. Altrimenti è necessaria una convocazione per il rinnovo del mandato o per la sua sostituzione.

I condomini possono decidere di cambiare amministratore prima della fine dell’anno. Per farlo, è necessaria la maggioranza dei presenti e almeno 500 millesimi.

Se però non ci sono motivi validi, bisogna pagare all’amministratore il compenso che avrebbe ricevuto fino a quando sarebbe dovuto restare in carica.

Se invece l’amministratore non fa bene il suo lavoro, come dimenticarsi di presentare il conto alla fine dell’anno o non convocare l’assemblea almeno una volta all’anno, la revoca può avvenire senza bisogno di risarcimento. Se i proprietari non si trovano d’accordo, anche un solo condomino può chiedere al giudice di rimuovere l’amministratore.

Quali sono i compiti dell’amministratore?

L’amministratore è l’organo esecutivo della volontà che i condomini esprimono in assemblea. In particolare, egli deve:

  • eseguire le deliberazioni dell’assemblea e curare l’osservanza del regolamento di condominio;
  • disciplinare l’uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell’interesse comune;
  • richiedere ai condomini, anche giudizialmente se occorre, le somme deliberate dall’assemblea e depositarle su apposito conto corrente intestato al condominio (mai all’amministratore (Trib. Milano 09/09/91);
  • provvedere alle spese necessarie per la manutenzione delle parti comuni e per l’erogazione dei servizi comuni;
  • assumere tutte le opportune iniziative giudiziarie per garantire il pacifico uso delle parti comuni;
  • provvedere alla convocazione dell’assemblea almeno una volta all’anno, oppure su richiesta dei condomini;
  • organizzare il lavoro di eventuali dipendenti del condominio e controllare che sia svolto con la necessaria diligenza;
  • firmare i contratti con i fornitori per conto del condominio, secondo quanto deciso dall’assemblea;
  • rendere il conto del proprio operato alla fine di ogni gestione e redigere il rendiconto consuntivo.

Che fare contro un amministratore inerte?

Se l’amministratore, ripetutamente sollecitato dai condomini o anche da uno solo, non si attiva per la riparazione di una cosa comune, cosa si può fare?

In tali casi non ci si può rivolgere direttamente al giudice, ma si deve prima provocare la convocazione dell’assemblea. Se l’assemblea non viene convocata o non riesce ad esprimere una volontà maggioritaria, o se la delibera rimane ineseguita, ci si potrà rivolgere al giudice non in sede contenziosa, ma di volontaria giurisdizione (art. 1105 c.c.), rimanendo la delibera dell’assemblea impugnabile in sede contenziosa solo se risulti lesiva dei diritti individuali dei condomini dissenzienti o sia stata adottata in violazione della legge o del regolamento condominiale (Cass. 7613/97).

Può il costruttore dell’edificio nominare l’amministratore?

La nomina dell’Amministratore è (a norma dell’art. 1129 c.c.) di esclusiva pertinenza dell’Assemblea quando i condomini sono più di quattro e non può essere riservata a singoli condomini o al costruttore dell’edificio. Se i condomini non provvedono alla nomina, si può chiedere l’intervento dell’Autorità Giudiziaria, che provvede alla designazione.

Pertanto, la clausola con la quale la ditta costruttrice e venditrice dell’immobile o soltanto alcuni condomini si riservino il diritto di nomina del primo amministratore è stata ritenuta nulla (Cass. 2246/61). Un simile patto è ritenuto sin dall’inizio privo di effetti se i condomini erano originariamente più di quattro. Altrimenti, diviene comunque inefficacie nel preciso momento in cui i condomini raggiungono il numero di cinque o più. In ipotesi del genere quindi il condominio non è tenuto a pagare all’amministratore il suo compenso.

Il compenso dell’amministratore

L’amministratore deve rendere noto subito il suo compenso, prima del voto di nomina da parte dell’assemblea. Diversamente la delibera è nulla e questi non può pretendere alcun compenso a fine mandato.

L’amministratore che abbia svolto una serie rilevante di incombenze amministrative estranee alla gestione corrente non ha diritto ad un compenso ulteriore per tali attività di natura straordinaria se non lo aveva esplicitato nel preventivo sottoposto all’assemblea.

Come tutelarsi se l’amministratore presenta un rendiconto falso?

Il rendiconto deve enumerare le somme percepite dall’amministratore (le voci di entrata, cioè le quote dei singoli condomini), la causale e la quantità delle spese fatte, accompagnate dai corrispondenti documenti giustificativi, in modo da rendere intellegibile all’assemblea l’andamento della gestione.

Ne deriva che, se il rendiconto presentato in assemblea non corrisponde allo scopo, l’approvazione assembleare si forma in maniera viziata, con la conseguente possibilità di azione giudiziaria entro trenta giorni ex art. 1137 c.c. Ricorrendone gli estremi, la condotta può integrare altresì il reato di truffa.

L’amministratore è gestore dei fondi a lui consegnati dai condòmini per destinarli obbligatoriamente e secondo diligenza al pagamento delle spese sostenute per i servizi comuni.

Ne discende che quel denaro di cui ha il possesso non è di sua proprietà e quindi non può destinarlo ad altri scopi con danno degli amministrati. La violazione del dovere giuridico realizza altresì l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 c.p. conseguente all’abuso del rapporto giuridico professionale ed al tradimento della fiducia riposta nell’amministratore dai condomini (Trib. Firenze, 30/03/01).

Contratti conclusi dall’amministratore senza autorizzazione

Può l’amministratore concludere contratti, per conto del condominio, pur in assenza di una specifica delibera assembleare?

I contratti conclusi dall’amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni ed inerenti alla manutenzione ordinaria del condominio o all’uso normale delle cose comuni sono vincolanti per tutti i condomini (ex art. 1131 c.c.). Quando invece si tratti di lavori che, seppure diretti alla migliore utilizzazione di cose comuni od imposti da una nuova normativa, comportino un onere di spesa superiore rispetto a quello normalmente inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio, l’iniziativa dell’amministratore senza la preventiva deliberazione della assemblea è consentita solo se tali lavori rivestano un oggettivo carattere di urgenza (circostanza, questa, che deve essere provata dall’amministratore), e sempre che l’amministratore ne informi l’assemblea alla prima riunione utile. Difettando tale presupposto le iniziative assunte dall’amministratore stesso, anche se successivamente ratificate dall’assemblea, non obbligano i condomini nei confronti dei terzi, ma solo l’amministratore (Cass. 4232/87).

Convocazione dell’assemblea

L’amministratore deve convocare l’assemblea almeno una volta all’anno. Se non lo fa è responsabile personalmente e può essere revocato dall’assemblea o, in mancanza di maggioranza, dal giudice su richiesta anche di un solo condomino.

L’amministratore deve convocare l’assemblea anche quando gliene facciano richiesta almeno due i condomini che rappresentino un sesto dei millesimi dell’edificio. Ricevuta la richiesta dei condomini, l’amministratore è obbligato a convocare l’assemblea.

L’avviso di convocazione va inviato con raccomandata a.r., pec, telegramma o lettera consegnata a mani. Sono illegittime le convocazioni, anche se autorizzate dall’assemblea, con lettera semplice recapitata in cassetta, email ordinaria, avviso affisso sull’androne.

L’avviso di convocazione deve pervenire entro cinque giorni dalla data della prima convocazione.

L’avviso di convocazione dell’assemblea di condominio non è soggetto a particolari formalità; tuttavia ne costituiscono elementi essenziali: il giorno, l’ora, il luogo e l’ordine del giorno.

Affinché la delibera di un’assemblea condominiale sia valida è necessario che l’avviso di convocazione elenchi specificamente, sia pure in modo non analitico e minuzioso, gli argomenti da trattare, sì da far comprendere i termini essenziali di essi e consentire agli aventi diritto le conseguenti determinazioni, anche relativamente alla partecipazione alla deliberazione (Cass. 3634/00; 13763/04).

L’eventuale incompletezza dell’ordine del giorno contenuto nell’atto di convocazione dell’assemblea non determina la nullità assoluta, bensì la semplice annullabilità della relativa delibera, con la conseguenza che questa sarà impugnabile entro trenta giorni dall’adozione, o dalla comunicazione per gli assenti.

La violazione di tali regole determina l’annullabilità dell’assemblea che però può essere chiesta, entro 30 giorni dalla ricezione del verbale, solo dal condomino interessato e non da quelli invece regolarmente convocati.

Allontanamento dei condomini

Se un condomino si allontana dall’assemblea, dopo che la seduta è stata dichiarata validamente aperta, ciò fa venir meno il numero legale per la costituzione dell’assemblea?

No, in quanto conta esclusivamente il momento in cui avviene la verifica del numero legale (Cass. 89/67). Se, inoltre, il condomino si allontana prima del voto, dichiarando di rimettersi alla maggioranza, ai fini del relativo calcolo il suo voto non può essere considerato, poiché è solo il momento della votazione a determinare la fusione della volontà dei singoli condomini che contribuiscono a dare vita alla delibera (Cass. 1208/99). Parimenti, non è concesso neanche allontanarsi anticipando all’assemblea il proprio voto su una delibera ancora da trattarsi (Cass. 4225/85).

Sanzioni per chi viola il regolamento

Per le infrazioni al regolamento può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino a 200 euro (fino a 800 in caso di recidiva). La somma è devoluta al fondo di cui l’amministratore dispone per le spese ordinarie. La sanzione può essere applicata solo se prevista prima da una norma del regolamento, norma che deve anche autorizzare l’amministratore a infliggere la multa.

Antenne

Può il singolo condomino installare un’antenna parabolica sull’edificio? Il singolo condomino ha il diritto di servirsi del balcone, della terrazza, del tetto, o di qualunque parte comune dell’edificio per impiantarvi l’antenna che serva al funzionamento della sua televisione, anche se il condominio sia già munito di un’antenna condominiale o anche in presenza di una delibera assembleare che ne vieti l’installazione (Cass. 5399/85). Tale diritto non costituisce una servitù di passaggio a carico del condominio. Si tratta piuttosto di un diritto di natura personale che spetta a chiunque abiti nello stabile e sia utente radiotelevisivo (Cass. 2160/71).

Tuttavia, chi installa l’antenna non deve pregiudicare la destinazione del tetto o del lastrico solare e, comunque, non deve recare danni alla proprietà comune o di terzi. Se l’installazione dell’antenna provoca danni alle parti comuni o al decoro architettonico dell’edificio, l’amministratore deve intervenire e far rimuovere la causa del danno.

Il regolamento può prevedere un divieto d’installare antenne autonome, purché abbia natura contrattuale.

Come si ripartiscono i costi relativi all’ascensore?

Secondo l’art. 1124 c.c. (qui applicabile per analogia), le scale sono mantenute e ricostruite dai proprietari dei piani a cui servono e la spesa relativa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzioni di piano, e per l’altra metà in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo. In materia di ascensore, dunque, il citato art. 1124 c.c. troverà applicazione per le riparazioni inerenti la forza motrice, la manutenzione ordinaria, la sostituzione delle funi ed in genere per la piccola manutenzione (Cass. 5479/91, 165/96).

Diversamente, per le spese straordinarie, quali la ricostruzione dell’impianto, la sostituzione della cabina o delle porte ai piani, si avrà una ripartizione secondo i millesimi di proprietà, in quanto tali spese prescindono dal maggior uso. Analogamente si procederà per gli oneri relativi agli adeguamenti alla normativa comunitaria.

Tale criterio legale può essere derogato da una convenzione tra tutti i condomini o da un regolamento condominiale contrattuale che stabilisca l’esenzione totale o parziale, in favore di alcuni condomini, dall’obbligo di partecipare alle spese per l’ascensore (Cass. 3944/2002). Il regolamento può anche prevedere, in allegato, delle diverse tabelle millesimali, appositamente per le spese dell’ascensore.

Balconi e terrazzi

Vediamo chi deve provvedere alle spese occorrenti alla manutenzione e al rifacimento del balcone. Queste gravano sul proprietario dell’appartamento le spese inerenti al proprio balcone, con l’esclusione di quelle relative agli elementi decorativi (per es. rivestimenti) se destinate all’abbellimento della facciata nel suo insieme e non del singolo balcone (circostanza da valutarsi casisticamente); in tal caso, infatti, le spese sono a carico del condominio (Cass. 12792/92). A queste ultime devono contribuire anche i condomini privi di balcone.

Non si può impedire al condomino di stendere i panni dal terrazzo perché contrario al decoro architettonico a meno che sia vietata dal regolamento di condominio contrattuale  o dal regolamento di polizia urbana (Trib. Milano 27/09/65).

È tuttavia illegittimo sciorinare i panni sgocciolanti sul cortile condominiale.

L’assemblea, inoltre, non può vietare di stendere panni su una terrazza condominiale destinata esclusivamente a copertura di edificio, potendo ogni condomino servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione (Trib. Milano 14/01/91).

Si può installare un condizionatore d’aria sul muro condominiale?

Si, rientrando tale facoltà fra gli usi consentiti della cosa comune e, pertanto, non essendo necessaria l’autorizzazione dell’assemblea. Se però, per le dimensioni dell’impianto o per l’ubicazione e le caratteristiche dell’edificio, si ha ragione di temere che ciò potrebbe determinare un’alterazione del decoro architettonico, è consigliabile trasmettere all’amministratore un disegno della parte visibile, affinché lo sottoponga all’assemblea, per l’approvazione o l’introduzione di eventuali modifiche. Infatti resta fermo comunque il divieto di innovazioni che alterino il decoro architettonico dell’edificio. Tale circostanza va valutata casisticamente, tenendo altresì conto dell’estetica preesistente dell’edificio stesso.

Lavori alla facciata

Se si scrosta la parete di un muro esterno dell’edificio, in corrispondenza del balcone di proprietà di un condomino, le spese per l’intonaco sono condominiali o competono al singolo condomino?

I muri perimetrali sono di proprietà di tutti i condomini, indipendentemente dal fatto che le rispettive proprietà esclusive siano a confine con questi muri. Anche nel caso in cui un muro portante appartenga in proprietà esclusiva ad uno solo dei partecipanti al condominio, essendo esso comunque indispensabile per l’esistenza dell’edificio, con la proprietà esclusiva del singolo concorre una comunione di godimento in favore di tutti coloro i quali, nell’edificio, sono titolari della proprietà solitaria dei piani o delle porzioni di piano.

Ne consegue che tutti i condomini, anche quelli che non hanno aperture, sono tenuti a contribuire alle spese per la conservazione del muro e della facciata, in ragione delle rispettive quote di millesimi (Cass. 1154/96). Se tuttavia l’intervento comporta, per es., anche la riparazione o la posa in opera di pannelli aventi, oltre che funzione ornamentale, anche funzione protettiva delle abitazioni, si è ritenuto applicabile l’art. 1123, secondo comma, c.c., che ripartisce la spesa a seconda dell’uso che ciascuno può farne (Cass. 13655/92). Pertanto bisognerà in tal caso stabilire la quota di spesa attinente all’aspetto esteriore della facciata (da ripartirsi tra tutti i condomini) e quale, invece, la quota di spesa attinente alla funzione di coibentazione dei pannelli (da ripartire tra i soli condomini che ne traggono direttamente utilità).

Che fare se un condomino compie un’opera abusiva nel suo appartamento?

Se il condomino non ha ottenuto l’autorizzazione amministrativa, entra in gioco l’art. 1130 c.c. che impone all’amministratore di “compiere gli atti conservativi inerenti le parti comuni dell’edificio”. Pertanto, quest’ultimo può agire per il ripristino dello status quo, a prescindere da eventuali delibere assembleari. Solo le deliberazioni che concernono le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore devono essere prese con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio. In tal senso si esprime con numerose pronunce la Cassazione (Cass. 6190/01; 6593/86), per la quale “l’amministratore può proporre azione petitoria o possessoria, ovvero chiedere provvedimenti cautelari contro i condomini di un edificio, per la rimozione di opere da questi eseguite, che siano lesive del possesso o del godimento di altri condomini sulla cosa comune, o, comunque, pregiudizievoli della destinazione o dell’estetica della stessa. E ciò senza la necessità di autorizzazioni assembleari, atteso che integra un atto conservativo dello stato di fatto o dei diritti inerenti alle cose oggetto di comproprietà”. Resta, in ogni caso, il diritto di ciascun condomino ad adire autonomamente le vie legali per la demolizione ed il ripristino dello stato precedente.

Se, invece, il condomino abbia ottenuto il condono, legalizzando così la propria opera abusiva, la regolarizzazione urbanistica non pregiudica un’eventuale azione diretta da parte degli altri condomini. Infatti, l’eventuale concessione in sanatoria reca sempre la dicitura “salvi i diritti di terzi”. Per cui, se le opere deturpano l’aspetto estetico della facciata dell’immobile, arrecando danno economico ai condomini (che vedrebbero svalutare la loro proprietà), si può intraprendere un’azione di manutenzione, diretta a tutelare il decoro architettonico dell’edificio comune (Cass. 4474/87; 1587/72). Per di più, ad agire può essere tanto il condominio, quando ogni singolo condomino (Cass. 8531/94).

Ci vuole l’approvazione dell’assemblea per doppi infissi o inferriate?

Le cornici, il colore ed ogni altro elemento decorativo degli infissi e delle finestre di facciata sono, di regola, destinati a fornire ed assicurare armonia estetica e decoro all’edificio. Pertanto, sono legittime le modifiche eseguite nel rispetto dell’uniformità di stile e delle eventuali disposizioni in materia del regolamento condominiale.

In quanto ininfluente ai fini del decoro architettonico, l’apposizione di doppi infissi non richiede apposita approvazione dell’assemblea, a meno che ciò non sia richiesto dal regolamento condominiale. Tale attività, peraltro, non è neanche sottoposta ad autorizzazioni amministrative.

Altrettanto dicasi per le inferriate, ma, in questo caso, solo qualora non arrechino pregiudizio al decoro architettonico dell’immobile. L’installazione, infatti, di inferriate alle finestre, a scopo di sicurezza, è stata ritenuta legittima anche dalla giurisprudenza (C. App. Milano 14/04/89), la quale ha precisato che, quand’anche l’opera cagionasse un pregiudizio economicamente valutabile, rispetto ad esso dovrebbe prevalere l’interesse alla sicurezza del condomino. Occorre, comunque, rispettare il decoro architettonico della facciata, tenendo conto che la violazione comporta necessariamente una svalutazione economica dall’edificio e che esso va preservato se ed in quanto non sia già stato manomesso da precedenti interventi dei condomini o del condominio (Cass. 16098/03).

In ogni caso, il diritto al mantenimento del decoro architettonico appartiene a ciascun condomino ed è un diritto non soggetto a prescrizione. La violazione del decoro va valutata caso per caso, in relazione al tipo di stabile (Cass. 1025/04).

Quando matura il diritto alla provvigione?

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In quali casi bisogna pagare la provvigione all’agente immobiliare: a partire da quale momento scatta il diritto al compenso e quando scade.

Nella dinamica delle operazioni immobiliari, quali l’acquisto, la vendita o la locazione di un immobile, è prassi comune avvalersi della mediazione di un agente immobiliare. Ma non sempre l’attività da questi svolta soddisfa le aspettative del cliente, complice anche una scarsa chiarezza contrattuale. Questo può indurre i contraenti a bypassare il mediatore, conducendo direttamente le negoziazioni o posticipando la conclusione dell’affare fino al termine del contratto di mandato, nel tentativo di sottrarsi al pagamento della provvigione.

Molte di queste pratiche possono però sconfinare nell’illegalità e sfociare in controversie giudiziarie. Pertanto, risulta essenziale chiarire quando matura il diritto alla provvigione da parte dell’agente immobiliare, per prevenire situazioni in cui si possa essere incautamente esposti a richieste di pagamento inaspettate e potenzialmente gravose, con il rischio concreto di dover affrontare un contenzioso e le relative spese processuali.

In questo articolo ci occuperemo di fornire una panoramica quanto più completa in merito al seguente quesito: quando bisogna pagare l’agenzia immobiliare? Quando scatta il diritto alla provvigione? L’intento è quello di fornire un’analisi limpida e pragmatica, per districarsi nell’ambito di questa tematica.

Quando matura il diritto alla provvigione?

Il diritto alla provvigione per l’agente immobiliare si concretizza quando sussistono le seguenti condizioni:

  • l’agente deve essere iscritto al registro delle imprese o al REA;
  • le parti devono essere state messe in contatto dall’agente immobiliare, indipendentemente dal fatto che ciò sia avvenuto in forza di un contratto scritto, di un accordo verbale o a seguito di un’attività di fatto, realizzata cioè senza alcuna intesa preventiva. L’importante è che i contraenti abbiano manifestato la volontà (anche con un comportamento concludente) di voler avvalersi dell’ausilio del mediatore;
  • le parti devono concludere un accordo giuridicamente vincolante (la cui violazione cioè darebbe diritto a un’azione giudiziale). Non importa se tale accordo viene siglato dopo la scadenza del mandato conferito all’agente.

Per praticità, possiamo quindi dire che il mediatore ha diritto alla provvigione quando viene concluso non solo il contratto definitivo (il cosiddetto rogito) ma anche il contratto preliminare (il cosiddetto compromesso). Non ha invece diritto ad essere pagato per il solo fatto che l’acquirente depositi presso l’agenzia la proposta di compravendita se questa poi non viene accettata dal venditore. Così come non ha diritto al compenso nel caso di stipula di una semplice opzione.

Il mediatore matura il diritto al compenso anche quando l’affare non si conclude per colpa di una delle parti (si pensi al venditore che abbia taciuto eventuali difetti di costruzione o un abuso edilizio), salvo che essa dimostri che il proprio comportamento era sorretto da serie motivazioni, quale ad esempio l’inaffidabilità della controparte presentata dal mediatore (si pensi al caso in cui il mediatore presenti al venditore un soggetto fallito).

Chi deve pagare l’agente immobiliare?

Se nulla di diverso è stabilito nel contratto, obbligati a pagare l’agente immobiliare sono tutti i soggetti che firmano il contratto quali, ad esempio, il venditore e l’acquirente, il locatore e il conduttore, ecc. Non si tiene conto quindi di chi, per primo, si sia rivolto al mediatore.

Naturalmente le parti possono accordarsi differentemente addossando la provvigione solo su un soggetto. Affinché però un patto del genere possa essere opposto al mediatore è necessario che sia da questi accettato. Ad esempio, il venditore potrebbe imporre all’acquirente di pagare il mediatore ma quest’ultimo, se non ha accettato esplicitamente tale condizione, potrà sempre chiedere il pagamento anche al venditore.

Bisogna pagare l’agente immobiliare se non ho firmato nulla?

Come anticipato, il dovere di pagare la provvigione al mediatore scatta per la semplice attività da questi svolta, sempre che detta attività sia stata utile, abbia cioè portato a un risultato quale la conclusione di un contratto vincolante.

Dunque il contratto scritto non è necessario. Il semplice fatto di aver consentito all’agente di intervenire in qualità di mediatore, presentando tra loro le parti, dà diritto a questi a pretendere la provvigione. L’apporto da questi conferito all’affare può consistere, ad esempio, nel semplice fatto di reperire l’altro contraente oppure nella segnalazione dell’affare.

Devo pagare l’agente se le trattative le ho fatte da solo?

L’agente immobiliare matura il compenso solo per aver messo in contatto le parti e aver fatto sì che queste giungessero alla stipula di un contratto vincolante. Non rileva quindi il fatto che non abbia partecipato alle trattative. Tale aspetto potrà tutt’al più influire sulla misura della provvigione in caso di contestazioni.

Cosa accade se più mediatori contribuiscono alla conclusione dell’affare?

Se vi sono più agenti che hanno contribuito in tempi diversi alla realizzazione dell’affare, ciascuno di loro ha diritto a una parte proporzionale della provvigione.

In quali casi il mediatore non ha diritto alla provvigione completa?

Anche in presenza di una clausola contrattuale che sembri garantire al mediatore il diritto alla provvigione “in ogni caso”, tale diritto non è assoluto. Secondo la Cassazione infatti è vessatoria – e quindi nulla – la condizione contrattuale che attribuisce al mediatore il diritto alla provvigione a prescindere dallo svolgimento di qualsiasi controprestazione, in caso di recesso da parte del venditore.

Pertanto, se l’affare sfuma per il rifiuto del proprietario dell’immobile, al mediatore va riconosciuto un compenso commisurato all’effettiva attività svolta la cui adeguatezza deve essere apprezzata in concreto dal giudice.

Inoltre, non tutte le trattative portano alla provvigione. Se le negoziazioni iniziali non hanno successo e l’affare viene concluso anni dopo senza un collegamento con il lavoro svolto dall’agente, a questi non spetta la provvigione.

E se l’affare cambia nel corso della trattativa?

Se l’affare viene concluso con modifiche rispetto a quanto proposto dall’agente, ma senza divergere dalla sostanza, il diritto alla provvigione rimane fermo.

Se aspetto la scadenza del mandato all’agenzia devo pagare l’agente?

La scadenza del contratto di mandato all’agenzia immobiliare non fa venir meno il diritto alla provvigione all’agente se le parti erano state messe in contatto da questi e alla fine, seppur con ritardo, sono giunte alla conclusione del contratto. Non basta neanche cambiare qualche termine contrattuale (ad esempio una leggera differenza di prezzo o delle modalità di pagamento).

Diverso è il caso se, una volta scaduto il mandato, decorre molto tempo e le parti riprendono le trattative su presupposti completamente diversi. Si pensi al caso di una persona che voglia vendere casa a 400mila euro e intavoli una trattativa con una persona presentatagli dall’agente. Le parti non si mettono d’accordo. Il venditore cerca altri offerenti. Dopo due anni però, vedendo che non riesce più a disfarsi dell’immobile, decide di ricontattare il vecchio offerente offrendogli la possibilità di acquistare la casa a 350mila euro ma con tutti i mobili dentro, che prima non gli aveva offerto.

C’è differenza tra compravendita e leasing per la provvigione?

No. Se l’affare inizia con una compravendita e si conclude con un leasing, il mediatore mantiene il diritto alla provvigione, poiché quest’ultimo si considera equivalente al primo (Cassazione, Sentenza n. 11521 del 9 maggio 2008).

Bonus prima casa: che succede se un coniuge non cambia residenza?

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Agevolazioni fiscali sull’acquisto della prima casa: come funziona il requisito della residenza in caso di coppia di coniugi in comunione dei beni.

Quando si acquista la prima casa è possibile fruire di una importante agevolazione fiscale. Questa consente di risparmiare considerevoli somme sulle imposte da versare allo Stato al momento del rogito. Tuttavia, tra i vari requisiti richiesti dalla legge, vi è quello della residenza: il proprietario deve cioè trasferire la propria residenza nel Comune ove si trova l’abitazione in questione. Deve farlo entro 18 mesi dalla firma della compravendita. In caso contrario decade dall’agevolazione e dovrà restituire all’erario le maggiori imposte maggiorate del 30% a titolo di sanzioni.

Spesso ci si chiede però, nel caso di marito e moglie sposati in comunione dei beni, cosa succede al bonus prima casa se uno dei due coniugi non cambia residenza.

Poniamo il caso di una coppia che decida di comprare casa nel Comune di Roma per andare a vivervi stabilmente. Il marito è già residente nella Capitale mentre la moglie ha conservato la residenza nell’abitazione dei genitori situata a Latina. Può la coppia usufruire comunque dell’agevolazione prima casa se la donna non dovesse spostare la residenza a Roma, lasciandola lì dov’è già? Il requisito della residenza nel Comune ove si trova l’immobile deve essere osservato da entrambi i coniugi o è sufficiente che lo rispetti uno solo?

La questione è stata risolta dalla Cassazione con un orientamento che si sta ormai consolidando. Vediamo qual è l’orientamento della giurisprudenza in merito.

Quando c’è il bonus prima casa?

Il bonus prima casa spetta alle seguenti condizioni:

  • l’immobile non deve essere di lusso (ossia accatastato nelle categorie A/1, A/8 o A/9);
  • l’acquirente non deve avere (neanche per quote) altri immobili adibiti ad abitazione nello stesso Comune ove si trova quello da comprare. In caso contrario deve cederlo prima del rogito;
  • l’acquirente non deve avere (neanche per quote) un’altra abitazione, ovunque situata, per la quale abbia già usufruito del bonus prima casa. Se invece la possiede, dovrà cederla (venderla o donarla) entro 1 anno dal nuovo rogito;
  • l’acquirente deve impegnarsi, nel rogito, a trasferire la residenza nel Comune ove si trova l’immobile da acquistare entro 18 mesi dal rogito stesso;
  • l’acquirente deve impegnarsi, nel rogito, a non vedere l’immobile in questione prima di 5 anni, a meno che non intervengano cause di forza maggiore (come un incremento del nucleo familiare o un trasferimento lavorativo). Tuttavia, anche in caso di vendita prima dei cinque anni, il contribuente non decade dal bonus solo se, entro l’anno successivo, acquista un nuovo immobile con le stesse caratteristiche della prima casa prima descritte.

In cosa consiste il bonus prima casa?

Il bonus prima casa consiste in una serie di agevolazioni fiscali previste per facilitare l’acquisto di un immobile da destinare a residenza principale da parte di privati cittadini. Queste agevolazioni consistono principalmente nella riduzione delle imposte da versare al momento dell’acquisto dell’immobile. Il bonus si applica a diverse tipologie di trasferimento, sia che si tratti di un acquisto da un costruttore che da un privato, sia per compravendite che per donazioni o trasferimenti a titolo successorio.

Ecco nel dettaglio quali sono i benefici principali previsti dal bonus prima casa:

Riduzione dell’Imposta di Registro: per gli acquisti da privati, l’aliquota dell’imposta di registro scende dal 9% al 2% del valore catastale dell’immobile;

Riduzione dell’IVA: per gli acquisti da imprese costruttrici o ristrutturatrici, l’IVA applicata si riduce dal 10% (o 22% per immobili di lusso) al 4%;

Versamento in misura fissa dell’imposta catastale e ipotecaria: normalmente previste in misura rispettivamente pari al 2% e all’1%, tali imposte scendono a 50 euro ciascuna nel caso di acquisto da privato, o a 200 euro ciascuna in caso di acquisto da azienda o dal costruttore

Quale coniuge deve rispettare il requisito della residenza?

La sentenza della Cassazione civile, sezione tributaria, ordinanza del 3 novembre 2023, n. 30594, ha chiarito che, in tema di imposta di registro e dei relativi benefici per l’acquisto della prima casa, il requisito della residenza deve essere inteso in senso familiare e non individuale. Ciò significa che, se i coniugi sono in regime di comunione legale, è sufficiente che un solo coniuge sposti la residenza nell’immobile. L’abitazione infatti

diventa residenza familiare, indipendentemente dal fatto che uno dei due non abbia trasferito la propria residenza personale.

La suddetta ordinanza si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato, che comprende anche le sentenze n. 22557/2022 e n. 11225/2020, oltre alle decisioni n. 25889 e n. 16355 del 2015 e n. 13334 del 2016. In tutte queste pronunce è stato riaffermato che, per i coniugi in comunione legale, il requisito della residenza si riferisce alla famiglia nel suo complesso.

La giurisprudenza ha sottolineato l’importanza dell’interpretazione costituzionale dell’articolo 29 della Costituzione, che riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Pertanto, il requisito della residenza della famiglia assume un’importanza primaria rispetto a quella dei singoli coniugi, nell’ottica della tutela della famiglia.

In pratica la famiglia viene vista come un soggetto unitario, diverso dai singoli coniugi. E quando la famiglia, nel suo complesso va a vivere stabilmente nella nuova casa, è sufficiente che un solo coniuge vi sposti la residenza.

Cosa succede se i coniugi sono in separazione dei beni?

La Cassazione, con la sentenza n. 3123/2023, ha specificato che l’agevolazione prima casa si applica diversamente per i coniugi in separazione dei beni. In questo caso, l’acquisto di un diritto di abitazione ha un carattere più individuale e i bisogni della famiglia sono considerati solo in modo indiretto.

In conclusione, come influisce la residenza nell’agevolazione “prima casa”?

Dai recenti orientamenti della Cassazione emerge chiaramente che, per le coppie in regime di comunione legale, è il concetto di residenza familiare che prevale per l’applicazione delle agevolazioni prima casa. Non è necessario che entrambi i coniugi abbiano la residenza anagrafica nel Comune dove si trova l’immobile, bensì rileva solo che l’immobile sia destinato a diventare residenza della famiglia.

È necessario il conto corrente in un condominio piccolo?

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Scopri se nei piccoli condomini è obbligatorio avere un conto corrente dedicato e quali sono le responsabilità legali in caso di inadempimento.

La gestione finanziaria in un condominio rappresenta un aspetto fondamentale per il mantenimento dell’ordine e la trasparenza amministrativa. In Italia, la questione se è necessario il conto corrente in un condominio piccolo, ossia in edifici con due o pochi appartamenti, ha suscitato spesso dibattiti e dubbi interpretativi. L’articolo 1129, comma 7, del Codice civile non stabilisce esplicitamente questa necessità, ma introduce l’obbligo in via indiretta.

Esploriamo insieme le varie interpretazioni e i possibili alternative che ha un condominio con o senza amministratore. Questo articolo mira a chiarire se è obbligatoria l’apertura di un conto corrente in un condominio minimo, quali sono gli obbligo da rispettare quando gli appartamenti sono pochi o quando l’amministrazione è gestita informalmente, senza cioè la nomina di una figura dedicata. Ma procediamo con ordine.

Quando è obbligatorio aprire il conto corrente condominiale?

L’apertura di un conto corrente dedicato al condominio rientra tra i doveri dell’amministratore. Non c’è una norma che lo preveda espressamente ma lo si evince in modo indiretto dall’articolo 1129 comma 7 del codice civile. Quest’ultimo, nell’elencare i compiti dell’amministratore, stabilisce testualmente: «L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell’amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica».

Dunque si può ritenere pacificamente che l’amministratore ha il dovere giuridico di aprire il conto corrente a nome del condominio, a pena di responsabilità personale e professionale.

Il conto corrente è obbligatorio in un condominio piccolo?

L’articolo 1129 cod. civ. però non chiarisce cosa succede in quei condomini privi di amministratoreperché hanno meno di 9 condomini. Difatti la nomina dell’amministratore è facoltativa quando i condomini vanno da 2 a 8 mentre diventa obbligatoria da 9 in poi.

Di qui due domande: il condominio con meno di 9 condomini privo di amministratore deve avere un conto corrente? E se detto condominio, pur non avendo l’obbligo, decidesse comunque di procedere alla nomina di un amministratore, quest’ultimo sarebbe ugualmente obbligato all’apertura del conto?

Le tesi sono due.

La prima ritiene che l’obbligo di avere il conto corrente scatti solo quando viene nominato l’amministratore, indipendentemente dal numero di condomini. Quindi, se in un condominio con 3 condomini si decide di nominare l’amministratore questi sarebbe tenuto ad aprire il conto corrente. Se invece si tratta di un condominio minimo (con due condomini) o comunque con meno 9 condomini privo di amministratore, il conto non è necessario.

La seconda tesi invece ritiene invece che l’apertura del conto corrente sia sempre obbligatoria. Secondo questa interpretazione, le norme condominiali trovano applicazione anche nel caso di un condominio di pochi partecipanti (da due a otto). Conseguentemente, l’articolo 1129, settimo comma, del Codice civile, per il quale l’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condòmini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio, non è oggetto di deroga, pur in presenza dell’amministrazione “di fatto” da parte di un condomino.

Quali sono le responsabilità di un amministratore che non apre il conto?

Un amministratore che omette di aprire un conto corrente condominiale commette una violazione potenzialmente sanzionabile con la revoca. In caso di utilizzo improprio dei fondi, si può arrivare anche alla configurazione del reato di appropriazione indebita per il quale si può procedere però solo con la cessazione dell’incarico annuale, dopo che è stato fornito il rendiconto di gestione.

Chi paga le spese del conto corrente condominiale?

Le spese di gestione del conto corrente sono a carico dei condomini e devono essere ripartite secondo i millesimi di proprietà.

Chi decide quale conto aprire?

Nonostante la legge non specifici chi debba scegliere la banca o il tipo di conto, è consigliabile che questa decisione spetti all’assemblea condominiale potendo comportare oneri più o meno gravosi per le tasche condominiali.

Casa in affitto: come agire per danni per omesse riparazioni?

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Scopri i diritti dell’inquilino quando il locatore non provvede alla manutenzione straordinaria dell’immobile.

Quando prendiamo una casa in affitto, ci aspettiamo che il locatore mantenga la proprietà in buone condizioni. Se l’ordinaria manutenzione, quella relativa alle opere di basso importo, compete al conduttore, tutte le altre spese invece gravano sul locatore. Questi deve infatti garantire il pieno e pacifico godimento del bene da parte dell’inquilino.

Ma cosa accade se tutto ciò non avviene? Se il locatore non effettua le riparazioni alla casa in affitto, come agire per danni? Recentemente, la Corte di Appello di Messina ha fornito chiarimenti in merito, evidenziando i diritti dell’inquilino e le responsabilità del locatore. Questo articolo esamina i dettagli del caso e le conseguenze per inquilini e proprietari.

Qual è l’obbligo del locatore riguardo le riparazioni?

Per legge, il locatore ha l’obbligo di garantire che l’immobile locato rimanga abitabile e in buono stato. Tale dovere coinvolge non solo eventuali problemi derivanti dall’abitazione in affitto ma anche dalle parti comuni dell’edificio, dovendo in tal caso agire contro il condominio responsabile.

Si pensi a un appartamento all’ultimo piano interessato da infiltrazioni provenienti dalla terrazza di copertura dell’edificio di proprietà condominiale. Nonostante le ripetute sollecitazioni, il locatore non rappresenta all’amministratore il problema sicché le conseguenze del danno si ingigantiscono. In questo caso è indubbio che il padrone di casa sia venuto meno a un suo preciso obbligo, quello cioè di fare in modo di garantire al conduttore il pieno utilizzo dell’abitazione, anche quando il danno dipenda da fonti esterne.

Lo stesso discorso si può fare se le infiltrazioni derivano da un’altra proprietà privata, ad esempio quella del vicino del piano superiore: anche in tal caso, fermo il diritto dell’affittuario di agire in prima persona, è altresì dovere del conduttore intervenire per tutelare le ragioni di quest’ultimo. Insomma, il locatore deve attivare ogni tipo di azione per garantire al conduttore l’esercizio del suo diritto di abitazione nella casa in affitto.

Se il padrone di casa trascura quest’obbligo, l’inquilino ha il diritto di chiedere non solo il ripristino delle condizioni locative adeguate, ma anche un risarcimento per i danni subiti a causa dell’inadempimento (Corte di Appello di Messina, sentenza 704/2023). E non solo: l’inquilino può recedere dal contratto per giusta causa, con un preavviso di sei mesi, se l’immobile risulta inutilizzabile.

Cosa deve fare l’inquilino se il locatore non ripara?

La sentenza in commento rileva un aspetto molto importante: l’obbligo del locatore di attivarsi contro il condominio per danni provocati dalle parti comuni (tubature, lastrico solare, facciata esterna, ecc.) sussiste solo se l’inquilino lo abbia informato tempestivamente dandogli il tempo di agire. Se ciò non succede, si deve escludere la responsabilità del locatore ma resta pur sempre diritto dell’inquilino agire contro il condominio.

Quali sono stati i risvolti del caso di Messina?

Nel caso in questione, una società ha denunciato il proprietario per inadempimento dovuto a infiltrazioni di umidità, richiedendo un risarcimento. Il tribunale di primo grado ha negato la responsabilità del proprietario, ma la Corte d’Appello ha riconosciuto che, nonostante non dovesse risarcire la società, il proprietario doveva coprire le spese processuali al condominio.

Quando l’inquilino può recedere dal contratto?

L’inquilino può decidere di recedere dal contratto di locazione se il locatore non rispetta gli obblighi contrattuali, come il mantenimento dello stato locativo dell’immobile. Tuttavia, il recesso deve essere supportato da motivi validi e dimostrabili, come stabilito dalla Cassazione nella sentenza 15372 del 2010. Quindi si deve trattare di danni gravi, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto locativo (si pensi a un appartamento umido e dannoso per la salute).

Anche in caso di recesso per giusta causa l’inquilino deve comunque dare il preavviso di sei mesidurante i quali è tenuto a versare regolarmente il canone.

 


9 consigli per negoziare l’acquisto di una casa

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Consigli pratici per giungere ad un acquisto profittevole di un immobile

È certamente l’acquisto più importante che ci si trovi innanzi: l’acquisto di un immobile, soprattutto se da adibire a propria residenza, deve essere ponderato, accurato, scrupoloso.

Ma esistono dei criteri da seguire nella trattativa che precede l’acquisto? Ecco 9 consigli per negoziare l’acquisto di una casa.

I parametri per determinare il valore di un immobile

Prima di iniziare proficuamente la trattativa di una casa, bisogna cercare di capire quale sia il valore di un immobile.

Sono essenzialmente 3 i parametri a cui fare riferimento per stabilire se il prezzo di un immobile sia congruo o meno:

  • l’ubicazione dell’immobile, il luogo dove si trova;
  • la metratura, cioè quanto è grande;
  • lo stato dell’immobile.

È chiaro a tutti che 2 immobili di pari estensione presenteranno un prezzo diverso a seconda che si trovino in una metropoli o comunque in una zona centrale / di pregio di un centro urbano, piuttosto che in un piccolo borgo di periferia o in un paese.

Anche qualora lo stato (del quale parleremo a breve) sia per ipotesi migliore nell’immobile situato in periferia, comunque l’ubicazione dell’immobile in un centro urbano (per vicinanza ad uffici, per la presenza di maggiori e migliori servizi e negozi, etc.) ne determinerà un valore e conseguentemente un prezzo più alto.

Altro parametro da valutare e considerare è senza dubbio la metratura: più l’immobile sarà grande, più il suo valore e quindi il prezzo sarà alto.

Ma la metratura, presa come criterio unico, non è decisiva se non rapportata e valutata congiuntamente agli altri 2 parametri.

Un monolocale al centro di Roma potrebbe presentare valore triplo rispetto un immobile di 6 vani e 2 servizi in un piccolo centro urbano o di periferia.

Ed anche tra immobili di medesima grandezza e collocazione, a fare la differenza sarà lo stato in cui essi si trovano: se totalmente nuovo piuttosto che già usato; se ristrutturato o semi-ristrutturato piuttosto che totalmente da rifare o da riammodernare, adeguandolo alle nuove prescrizioni di legge in materia di impianti o solamente per dargli un aspetto più moderno.

I punti essenziali della trattativa

L’interesse del compratore: talvolta si ha reale necessità dell’acquisto di un immobile o, più semplicemente, ci si imbatte esattamente nell’immobile sperato; in tali casi non mostrare, almeno sin da subito, un interesse smodato sarà utile, al fine di non far capire al venditore che si è disposti a spendere qualsiasi cifra per acquistarlo.

Capire chi si ha davanti: è fondamentale capire chi sta vendendo ed in che situazione si trovi. Farà differenza se a vendere sia una persona facoltosa, la quale potrebbe non accontentarsi di un prezzo ribassato perché ha esigenza di vendere, piuttosto che un imprenditore magari in crisi di liquidità, non finanziabile da istituti di credito.

Chiaramente anche la condizione di chi vende incide sul prezzo e vedrà più margine di trattativa al ribasso se il venditore ha necessità di liberarsi dell’immobile.

Proposta di acquisto ponderata: proprio facendo riferimento ai criteri di valore indicati sopra, la proposta dovrà rispecchiare la rispondenza a quei parametri; una proposta troppo bassa verrà vista come poco seria, mentre invece una proposta ancorata al valore reale, che però abbia una motivazione per essere più bassa, può avere la sua efficacia.

Motivazione della proposta: proprio in riferimento al punto precedente, può risultare decisiva la motivazione di una proposta per un determinato importo: facendo un esempio concreto, ove mai l’immobile presentasse difformità rispetto alla normativa edilizia ed urbanista (piccoli abusi edilizi da sanare) o delle opere da realizzare (adeguamenti degli impianti termici / elettrici), motivare che si è disposti a farli previo abbassamento del prezzo potrebbe giustificare la proposta e portare ad un suo accoglimento.

Tempo di valutazione della proposta: se la proposta è seria ed aderente alla situazione complessiva dell’immobile, è giusto che venga riscontrata positivamente o negativamente in un margine di tempo predeterminato. Quindi sarà opportuno concedere un lasso di tempo al venditore per la decisione se accettarla o meno ma, indubbiamente, stabilire un tempo nel quale si sia disposti ad attendere il riscontro della proposta.

La giusta assistenza: può risultare decisivo, al fine di avere un margine di trattativa sul valore reale, essere supportati o consigliati da esperti; un amico agente, che possa offrire delucidazioni sul prezzo al mq di immobili della stessa zona di pari rendita catastale; o un tecnico che valuti lo stato degli impianti, della pavimentazione e degli allestimenti; lo stato dell’intero stabile in cui è ricompreso l’immobile, etc.

Amministratore di condominio: deve avere una Pec?

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È obbligatorio che l’amministratore condominiale abbia un proprio indirizzo di posta elettronica certificata?

Grazie allo sviluppo tecnologico è possibile scambiarsi comunicazioni in maniera veloce e sicura, senza necessità di ricorrere a strumenti oramai antiquati, come ad esempio il fax. L’esempio più significativo di quanto appena detto è la posta elettronica certificata, che consente di inviare un’email che, però, ha valore legale, nel senso che può esserne provata, in un eventuale giudizio, sia la consegna che la ricezione da parte del destinatario. È in questo contesto che si pone il seguente quesito: l’amministratore di condominio deve avere una pec?

Di sicuro uno strumento del genere può essere utilissimo per l’amministratore, il quale potrebbe scambiare comunicazioni con i condòmini senza dover ricorrere alla più dispendiosa raccomandata. Ciò significa anche che la pec è obbligatoria per tutti coloro che vogliano gestire un condominio? Vediamo cosa dice la legge.

Posta elettronica certificata: cos’è?

La posta elettronica certificata è il sistema che consente di inviare email con valore legale equiparato ad una raccomandata a/r (con avviso di ricevimento).

Rispetto all’email ordinaria, la pec garantisce al suo titolare la certezza dell’invio e della consegna (o mancata consegna) delle email al destinatario.

Bisogna però ricordare che la pec inviata ha valore legale solo se chi la riceve è munito a sua volta di una casella di posta elettronica certificata.

Il condominio deve avere una pec?

Nessuna norma di legge impone al condominio di avere una pec.

Il condominio, non essendo una società ma un semplice ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica distinta da quella dei condòmini, viene rappresentato all’esterno dal proprio amministratore.

Ogni richiesta formale, quindi, potrà essere inviata direttamente all’amministratore, senza che il condominio sia tenuto ad attivare una propria pec.

La scelta di possederne una potrebbe però rivelarsi molto utile: tutte le comunicazioni di cui è destinatario il condominio potrebbero essere convogliate in un’unica casella di posta elettronica certificata.

I condòmini potrebbero quindi decidere di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata a nome del condominio per facilitare le comunicazioni, ad esempio quelle rivolte ad assicurazioni, banche, pubblica amministrazione, Agenzia delle Entrate, professionisti e fornitori.

Inoltre, potrà essere utilizzata per convocare l’assemblea di condominio, inviare preventivi e rendiconti o solleciti di pagamento

Per ulteriori approfondimenti, si rinvia alla lettura del seguente articolo: Condominio: è obbligatorio avere una pec?

L’amministratore di condominio deve avere una pec?

Neanche l’amministratore deve necessariamente avere una pec, a meno che non sia un professionista per cui la legge ne stabilisca espressamente l’obbligo.

La legge stabilisce l’obbligo per le società di capitali, le società di persone, i professionisti iscritti in albi o elenchi, le pubbliche amministrazioni e le ditte individuali (compresi gli artigiani) di dotarsi di una casella di posta elettronica certificata.

Dunque, sono obbligati ad avere una pec tutti i professionisti iscritti in un albo (avvocati, commercialisti, architetti, ecc.), le società e le pubbliche amministrazioni, ma non i condomìni né i loro amministratori.

Se l’amministratore di condominio è un avvocato, per legge dovrà avere una pec, ma non perché fa l’amministratore bensì perché è iscritto presso l’albo forense. La casella di posta elettronica certificata in suo possesso potrà essere utilizzata per inviare e ricevere comunicazioni riguardanti la vita del condominio.

Sono inoltre obbligati ad avere un proprio indirizzo pec gli amministratori di condominio che svolgono l’attività in forma societaria, anche se non sono professionisti.

Vendi casa con Superbonus? Ecco le tasse da pagare

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Superbonus, quanto pagherà di tasse chi vende una casa ristrutturata con il 110%? 

A partire da gennaio 2024, la vendita di un immobile ristrutturato con il Superbonus 110% non sarà più conveniente come in passato. La legge di bilancio prevede un aumento della tassazione a discapito di chi ha effettuato le ristrutturazioni solo per speculare, quindi comprando a prezzo molto basso per poi rivendere a prezzi elevati. Vediamo insieme come cambieranno le tassazioni sulle plusvalenze e quali scenari si aprono per chi vende una casa ristrutturata con queste agevolazioni.

Cosa cambia nelle tasse sulla vendita di casa con Superbonus?

Da gennaio 2024, chi vende un immobile ristrutturato con il Superbonus 110% entro dieci anni dalla fine dei lavori dovrà pagare il 26% di tasse sull’intera plusvalenza realizzata, senza poter scontare il costo dei lavori agevolati.

In sintesi, la cessione a titolo oneroso di immobili su cui sono terminati lavori agevolati dall’articolo 119 del Dl 34/2020 da non oltre 10 anni determina una plusvalenza imponibile Irpef, nel calcolo della quale le spese sostenute (ma solo quelle agevolate al 110% oggetto di cessione del credito o di sconto in fattura) non rilevano se l’intervento si è concluso da non più di cinque anni, mentre rilevano al 50% in caso contrario.

Sulla plusvalenza è sempre possibile chiedere al notaio l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 26% ai sensi dell’articolo 1, comma 496, della legge 266/2005 (eliminando ogni obbligo dichiarativo), ma solo se l’acquisto o la costruzione risalgono ad almeno cinque anni addietro è possibile aggiornare il costo originariamente sostenuto in base all’indice Istat.

Quando non opera la plusvalenza tassabile?

Sono esclusi da questo regime: 

  • gli immobili ottenuti in eredità; 
  • gli adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari;
  • gli interessati da ristrutturazioni diverse dal bonus 110%.

Per tutti gli altri immobili invece bisognerà attendere 10 anni dalla fine dei lavori per poter rivendere e non subire l’extra-tassazione.

Quanto si paga in più di tasse?

Per capire quanto si dovrà pagare di tasse è necessario calcolare a quanto ammonta la plusvalenza e calcolare il 26% di quella cifra. Vediamo alcune simulazioni realizzate dalla Fondazione nazionale commercialisti, per capire cosa significa in termini di aumento delle tasse.

Esempio n. 1 

Prendiamo il caso di un appartamento acquistato nel 2000 a 200.000 euro e rivenduto nel 2024 a 400.000 euro, dopo aver effettuato lavori con il Superbonus per 50.000 euro nel 2021. Con la normativa attuale, non ci sarebbero tasse da pagare essendo decorsi cinque anni. 

Con la Manovra 2024, la plusvalenza sarà tassata perché i lavori del Superbonus si sono conclusi da meno di 10 anni rispetto alla vendita. 

La tassa sulla plusvalenza tassabile di 88.200 euro sarà di 22.932 euro. Vediamo come si arriva a questo calcolo.

La plusvalenza realizzata è di 150.000 euro (prezzo di cessione 400.000 euro – costo di acquisto 200.000 euro – spesa per il Superbonus 50.000 euro). La plusvalenza tassabile viene determinata sottraendo al prezzo di vendita il costo di acquisto rivalutato in base all’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, è pari a 88.200 euro. Dunque, se si opta per l’imposta sostitutiva dell’Irpef con aliquota del 26%, le tasse da versare in più arrivano a 22.932 euro (plusvalenza 88.200 euro x 26%).

Esempio n. 2

Se l’appartamento è stato comprato a 200.000 euro nel 2020, con lavori del Superbonus fatti nel 2021 per 50.000 euro e venduto a 400.000 euro nel 2024, la tassa sul guadagno con le regole del 2023 sarebbe di 39.000 euro (difatti la plusvalenza tassabile sarebbe stata pari a 150.000 euro, data dal prezzo di cessione 400.000 euro – costo di acquisto 200.000 euro – spese per interventi edilizi 50.000 euro. Alla plusvalenza di 150mila euro si applica poi l’imposta sostitutiva del 26%). 

Con la Manovra 2024, invece, la tassa salirebbe a 52.000 euro. La plusvalenza tassabile è infatti pari a 200.000 euro visto che le spese per i lavori del Superbonus non si potranno scomputare dal prezzo di vendita poiché i lavori sono terminati da meno di cinque anni all’atto della cessione. In questo caso quindi, optando per l’imposta sostitutiva dell’Irpef con aliquota del 26%, si pagheranno 52.000 euro di tasse (plusvalenza 200.000 euro x 26%). Vale a dire 13.000 euro in più di quelli dovuti con le norme attualmente in vigore.

Garage: quando è obbligatorio il certificato di prevenzione incendi

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Scopri le norme antincendio per garage con cisterne di carburante in modo da evitare sanzioni.

Quando si parla di sicurezza, il tema degli incendi è tra i primi nella lista delle preoccupazioni, soprattutto all’interno dei condomini dove i potenziali danni per gli appartamenti possono essere ingenti.

La prevenzione incendi è fondamentale e, in certi casi, obbligatoria per legge. Questo articolo vuole chiarire in quando il certificato di prevenzione incendi è obbligatorio per il garage.

Vedremo anche quali sono gli obblighi di sorveglianza e di messa in sicurezza che gravano sull’amministratore. Ma procediamo con ordine.

Come funziona la normativa antincendi in condominio?

Per gli edifici di civile abitazione, quindi per i condomini, è in vigore la normativa antincendio prevista dal Decreto 30/2019 recante il titolo «Modifiche e integrazioni all’allegato del decreto 246/1987 concernente norme di sicurezza antincendi per gli edifici di civile abitazione». Se l’amministratore di condominio non si adegua alle direttive previste dal Decreto rischia le sanzioni civili e penali sancite nel Dlgs 758/98. In generale, possiamo dire che in condominio è obbligatorio disporre di un sistema antincendio, pure avvalendosi della presenza degli estintori, allorquando l’edificio di cui consta abbia:

  • un’altezza superiore ai 24 metri in gronda;
  • sia dotato di autorimesse;
  • disponga di una caldaia;
  • abbia un deposito di Gpl.

Cos’è il Certificato Prevenzione Incendi (CPI)?

Il certificato di prevenzione incendi – Cpi, oggi sostituito dalla Scia antincendio (segnalazione certificata inizio attività) – è un documento redatto da un tecnico abilitato o dai Vigili del fuoco. Esso attesta che un determinato luogo rispetta la normativa vigente riguardante la prevenzione incendi.

Il decreto autorimesse (Dpr 151/2011), poi integrato dal Dm Interno 21 febbraio 2017 e successivamente dal Dm Interno 15 maggio 2020, che contiene nuove regole per i garage di superficie superiore a 300 metri quadrati, stabilisce l’obbligo, per chi è responsabile di un edificio, cioè dell’amministratore di un condominio, di ottenere il certificato di prevenzione incendi, sotto pena di propria responsabilità penale, anche per il mancato rinnovo periodico della conformità antincendio (Cassazione, n. 3921/2022).

Quando è obbligatorio avere il certificato di prevenzione incendi per un garage?

Il certificato di prevenzione incendi (CPI) è obbligatorio per quei garage che presentano particolari condizioni di rischio, come la presenza di cisterne di carburante. Se hai installato una cisterna senza notificarlo e senza presentare una Segnalazione Certificata di Inizio Attività (Scia) ai vigili del fuoco, sappi che rischi sanzioni severe.

Cosa dice la legge riguardo al CPI nei garage?

La legge è chiara: detenere materiale infiammabile, come carburante, senza adeguata segnalazione ai vigili del fuoco, è un reato.

La sentenza n. 13201/17 della Cassazione del 20 marzo ha stabilito una pesante ammenda per il titolare di un garage che aveva trascurato questo obbligo.

Quali sono le conseguenze del mancato rispetto delle normative antincendio?

Le conseguenze possono essere di natura penale, come nel caso citato nella sentenza, dove il tribunale ha inflitto al trasgressore una multa di 1.300 euro. Questo perché si è reso colpevole di aver omesso la denuncia di materie esplodenti, violando gli articoli 20 del decreto legislativo 139/06 e l’articolo 679 del Codice Penale.

La sentenza evidenzia che la responsabilità penale non dipende dalla classificazione dello stabilimento nell’Allegato I al Dpr 151/11. Anche le attività rientranti nella categoria A devono seguire le procedure di controllo antincendio previste. La negligenza nel seguire tali procedure comporta sanzioni, a prescindere dall’attivazione o meno dei controlli.

L’amministratore deve fare i controlli?

L’amministratore è tenuto a rispettare e a far rispettare anche agli altri condomini la normativa antincendio con riferimento all’edificio.

L’amministratore che non adempie a tali doveri ha una responsabilità penale a norma degli articoli 1130, numeri 3 e 4, e 1135, secondo comma, del Codice civile che gli attribuiscono una posizione di garanzia. Tale ruolo gli impone l’obbligo di vigilare sulle parti comuni e di adottare tutte le misure idonee a prevenire pericoli per l’incolumità pubblica derivanti dalle cose comuni.

Ciò indipendentemente dal fatto che l’assemblea abbia o meno deliberato sul punto: l’amministratore deve attivarsi per eliminare i pericoli e non può trincerarsi dietro l’immobilismo dei condòmini (Cassazione penale, n. 34586/2021).

In caso di violazione dei propri doveri, l’amministratore è tenuto a risarcire i danni eventualmente provocati ai condòmini, derivanti dal mancato esercizio delle sue funzioni per comportamento negligente e omissivo.

Ogni condomino ha quindi il diritto di agire nei confronti dell’amministratore, provando il danno subìto. Si può procedere peraltro alla sua immediata revoca per giusta causa mediante la stessa assemblea che lo ha nominato o con provvedimento del giudice (anche dietro ricorso di un solo condomino).

Cosa fare se la casa comprata su carta è diversa?

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Puoi rifiutarti di firmare il rogito, dopo aver pagato la caparra al compromesso, se l’appartamento presenta delle diversità rispetto al progetto?

Acquistare una casa “sulla carta” è un’operazione che comporta notevoli aspettative ma anche incognite e rischi. E difatti non capita di rado che, terminati i lavori, l’immobile presenti differenze anche notevoli rispetto al progetto originale sul quale le parti avevano trovato l’accordo e firmato il compromesso. In questi casi, sorgono dubbi legittimi: quali rimedi ha l’acquirente per difendere i propri diritti? Può rifiutarsi di firmare il rogito e pretendere la restituzione di tutte le somme anticipate o deve accontentarsi di uno sconto sul prezzo? In questo articolo vedremo cosa fare se la casa comprata su carta è diversa. Esploreremo tutte le soluzioni percorribili alla luce delle norme del Codice civile e della giurisprudenza italiana.

Cos’è il contratto preliminare o compromesso?

Il contratto preliminare, o compromesso, è un accordo che stabilisce l’impegno tra venditore e acquirente di compravendere un immobile in un momento successivo e secondo le condizioni pattuite nel compromesso stesso. Il preliminare stipulato per una casa in corso di costruzione deve essere redatto con atto notarile.

In tali ipotesi, è necessario che l’immobile realizzato sia conforme alla planimetria condivisa nel contratto. In caso contrario, si verifica un inadempimento contrattuale.

L’articolo 1453 del Codice civile prevede che, in presenza di un inadempimento, il contratto a prestazioni corrispettive (quale appunto la compravendita) può essere risolto (ossia “sciolto”), con conseguente scioglimento delle rispettive prestazioni (e salvo l’eventuale risarcimento per i danni arrecati). Questo significa che se l’immobile acquistato su carta è diverso da quello pattuito si può avere il diritto di recedere dal contratto, ottenendo la restituzione degli anticipi già versati al costruttore.

Tuttavia, in verità, il diritto di recesso non scatta in presenza di qualsiasi violazione contrattuale ma solo per quelle di non scarsa importanza, ossia quando è possibile presumere che la parte non avrebbe prestato il proprio consenso al contratto se avesse saputo in anticipo dell’inadempimento.

A tal fine bisogna valutare la gravità dell’inadempimento rispetto al valore dell’affare. Tanto per fare un esempio banale, il motore che perde olio dà diritto al recesso dall’acquisto di un’auto; non sarebbe lo stesso però se si trattasse di una spia mal funzionante che può essere facilmente riparata con la sostituzione della stessa.

Quando un inadempimento è di “scarsa importanza”?

Per capire se l’inadempimento del costruttore, che abbia realizzato una casa diversa da quella disegnata sul progetto, sia da ritenere “non di scarsa importanza” è necessario valutare quanto le difformità riscontrate influiscano sull’utilizzo dell’immobile o ne diminuiscano il valore.

In altre parole occorre valutare se, trattandosi di un inadempimento parziale, le difformità riscontrate impediscano la stipula della compravendita oppure possano essere ritenute secondarie, aventi carattere marginale, alla stregua di un contemperamento fra l’elemento oggettivo della mancata (corretta e completa) prestazione del venditore e l’interesse soggettivo leso dalla parte promissaria-acquirente.

A consolidare i diritti dell’acquirente c’è anche l’articolo 1490 del codice civile a norma del quale se l’immobile presenta vizi che ne compromettono l’utilizzo o ne riducono il valore, il compratore può chiedere la risoluzione del contratto o può agire per una riduzione del prezzo.

Cosa stabilisce la Cassazione in materia di difformità immobiliari?

La Cassazione, con la sentenza numero 4939 del 2017, ha chiarito che l’acquirente non è limitato alla sola alternativa tra la risoluzione del contratto o all’accettazione incondizionata dell’immobile con tutti difetti. Egli può altresì chiedere, in alternativa, la riduzione del prezzo proporzionale ai difetti riscontrati. E se il venditore non gli vuol concedere lo sconto, l’acquirente può rivolgersi al giudice che disporrà coattivamente il trasferimento della proprietà del bene subordinandolo al pagamento della minor somma.

Come interviene il giudice in caso di difformità immobiliari?

Il giudice può determinare un prezzo inferiore a quello concordato nel preliminare, riequilibrando le prestazioni tra le parti e proteggendo gli interessi dell’acquirente in modo che non siano compromessi da inadempienze esclusivamente imputabili al venditore.

Trasferimento immobile durante la separazione: serve il notaio?

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La cessione di un immobile nella procedura di separazione consensuale può avvenire senza notaio, con la sola assistenza legale degli avvocati o la sentenza del giudice.  

Durante il processo di separazione tra coniugi, può sorgere il bisogno di trasferire la proprietà di un immobile da un coniuge all’altro. In genere succede come conseguenza della rinuncia (totale o parziale) all’assegno di mantenimento. A volte invece si preferisce trasferire la casa al figlio, anticipando quello che sarà comunque il lascito ereditario.

Spesso ci si chiede se per il trasferimento dell’immobile durante la separazione serve il notaio o se si possa fare tutto tramite il giudice o solo gli avvocati.

Come noto, per intestare un immobile a qualcuno è necessario l’atto pubblico: la presenza del notaio e di due testimoni è infatti condizione di validità della donazione.

Tuttavia, recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali hanno semplificato la procedura in caso di crisi coniugale, rendendola peraltro conveniente da un punto di vista fiscale.

Questo articolo chiarisce se il passaggio di proprietà immobiliare, conseguenza di una donazione, nel corso di una separazione consensuale possa avvenire senza la presenza di un notaio, ma con il solo supporto degli avvocati dei coniugi e l’approvazione del Pubblico Ministero.

Come ci si separa consensualmente?

I coniugi che raggiungono un accordo sulle condizioni della separazione possono procedere con la cosiddetta «separazione consensuale», senza cioè la necessità di una causa.

La separazione consensuale conosce tre diverse vie:

  • la via giudiziale, quella dinanzi al giudice, in presenza delle parti rappresentate dai rispettivi avvocati (o anche da uno unico). Tutto si risolve con una sola udienza in cui il giudice legge l’accordo raggiunto dai coniugi e lo convalida. Il ricorso può contenere anche la richiesta contestuale di divorzio che, decorsi sei mesi, procederà in automatico, senza bisogno di un nuovo atto processuale;
  • la via amministrativa, quella dinanzi al Sindaco del Comune o ad altro ufficiale di Stato civile da lui delegato. I limiti di tale procedura – che tuttavia è gratuita e molto agevole – sono però numerosi. Innanzitutto i coniugi non devono avere figli minori, portatori di grave handicap o maggiorenni ma non autosufficienti. Inoltre l’accordo non deve prevedere trasferimenti di beni, mobili o immobili; è ammessa solo la previsione di un assegno di mantenimento mensile (non può quindi trattarsi dell’assegno una tantum);
  • la via contrattuale, quella fatta tramite un accordo stipulato con l’assistenza dei rispettivi avvocati. È ciò che si definisce negoziazione assistita. La negoziazione assistita è una procedura che permette ai coniugi di gestire la separazione con l’assistenza dei propri difensori, senza ricorrere al giudice. L’accordo va poi depositato in tribunale per il “visto”. Questo metodo di separazione permette la possibilità di trasferire beni immobili.

È necessario il notaio per trasferire un immobile in una separazione?

Sicuramente non c’è bisogno del notaio per trasferire un immobile quando le parti concludono la separazione consensuale dinanzi al giudice. E lo stesso vale anche per il divorzio concordato. Il magistrato del tribunale è infatti un pubblico ufficiale al pari del notaio e quindi attesta l’identità delle parti e delle relative dichiarazioni. Sicché il verbale di udienza è titolo sufficiente per la trascrizione nei registri immobiliari della donazione, conseguenza degli accordi di separazione.

Inoltre, secondo l’articolo 6 del decreto legge 132/14, non è necessario l’intervento del notaio anche quando l’accordo di trasferimento immobiliare avviene tramite negoziazione assistita e riceve l’autorizzazione del Pubblico Ministero.

Il Pubblico Ministero, con il suo nulla osta, conferisce all’accordo tra i coniugi lo stesso valore di un provvedimento giudiziario, eliminando la necessità di autenticazione delle firme da parte di un pubblico ufficiale per la trascrizione nel registro immobiliare.

Quali sono i precedenti in giurisprudenza?

Il tribunale di Pordenone, con decreto del 17 marzo, presieduto dal giudice Gaetano Appierto, ha chiarito che l’accordo di negoziazione assistita autorizzato dal Pm è sufficiente per la trascrizione senza necessità di autenticazione notarile, in linea con una interpretazione costituzionalmente orientata.

Analogamente, il tribunale di Roma ha evidenziato che l’accordo di negoziazione assistita è equiparabile al verbale di separazione consensuale omologato, e che l’avvocato ha la facoltà di autenticare l’accordo, rendendo inutili ulteriori depositi o autenticazioni.

Quali tasse si pagano in caso di intestazione di immobile con la separazione o il divorzio?

La Cassazione ha chiarito che, quando l’intestazione dell’immobile all’ex coniuge o ai figli è conseguenza di un accordo di separazione o di divorzio, l’atto non sconta alcuna imposta. Si tratta infatti di un trasferimento che è attuazione di accordi di separazione: in senso stretto non integra quindi né una donazione, né una vendita. Insomma, la cessione immobiliare è del tutto gratuita.

A cosa stare attenti?

Bisogna tuttavia prestare attenzione a una circostanza non da poco: secondo la giurisprudenza, gli accordi stretti in sede di separazione possono essere oggetto di revisione con il divorzio, non essendo quindi vincolanti nella successiva fase di scioglimento del matrimonio. Questo significa che la parte che, con la separazione, abbia accettato l’intestazione di una casa in cambio della rinuncia al mantenimento potrebbe, col divorzio, presentare una nuova domanda con cui chiede l’assegno mensile.

Tanto porta a una conclusione abbastanza ovvia: eventuali accordi di trasferimento immobiliare dovrebbero preferibilmente trovare spazio al momento del divorzio e non ancora con la separazione.

Telecamere finte in condominio: regole

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Scopri se l’uso delle telecamere false è legale in condominio e quali sono le leggi applicabili.

Nel contesto condominiale, l’installazione e l’utilizzo di telecamere, sia vere che simulate, solleva numerose questioni legali per via del timore di eventuali lesioni alla privacy. In questo articolo, esploriamo le normative e le sentenze giurisprudenziali che hanno fissato le regole sull’uso delle telecamere finte in condominio. Affinché la guida possa essere più chiara e dettagliata, parleremo prima delle telecamere condominiali e poi di quelle private che funzionano regolarmente. All’esito di ciò vedremo se un condomino può installare una telecamera di plastica, ossia non collegata ad alcun circuito, e magari puntarla sulla proprietà del vicino, solo allo scopo di dissuadere ladri e altri malintenzionati. Ma procediamo con ordine.

Telecamere condominiali: regole

L’installazione di una telecamera sulle parti comuni dell’edificio (scale, androne, garage, giardino, cortile, ecc.) è ammessa solo previa delibera dell’assemblea. Ci vuole la maggioranza dei presenti in assemblea (50%+1) che, al contempo, rappresentino almeno metà dei millesimi dell’edificio (500/1.000).

La telecamera deve essere segnalata con apposito cartello posizionato in un luogo facilmente visibile a tutti.

La violazione di tali norme può determinare l’incriminazione penale, anche in capo all’amministratore, per illecite interferenze nella vita privata.

Le immagini possono essere conservate solo per il tempo strettamente necessario a verificare eventuali illeciti come, ad esempio, furti nelle abitazioni, danneggiamenti alle parti comuni, violazione delle norme sulla raccolta differenziata, trafugamento della corrispondenza, ecc.

Ciascun condomino ha diritto di accedere alle immagini: l’amministratore non può cioè negare la visione delle registrazioni, salvo verificare la sussistenza di un valido interesse.

Telecamere private: regole

Ciascun condomino può installare una telecamera privata, senza dover chiedere l’autorizzazione all’assemblea. A tal fine può ancorarla anche sulle parti comuni dell’edificio come ad esempio la parete del pianerottolo.

Per le telecamere private non è necessario apporre il cartello di avviso come invece imposto per quelle condominiali.

Lo scopo della telecamera deve essere la tutela della proprietà individuale. Proprio per questo la giurisprudenza ha ritenuto legittima l’installazione di una telecamera sul balcone puntata in direzione dell’auto parcheggiata in cortile allo scopo di verificare eventuali furti o danneggiamenti. L’angolo di ripresa però non deve interferire con l’area comune, ossia con il resto del cortile.

Secondo una sentenza del Tribunale di Milano (6 aprile 1992), è legittima l’installazione di una telecamera che osserva il portone d’ingresso e l’area adiacente, a condizione che non violi la privacy delle unità immobiliari vicine.

Nel caso in cui la telecamera privata riprenda, anche parzialmente, la porta del vicino dello stesso pianerottolo questi ne può chiedere lo spostamento. Tale comportamento infatti integra il reato di illecite interferenze nella vita privata.

Tuttavia, secondo la Cassazione (pronuncia 24151/2017) un sistema di videosorveglianza può riprendere le aree comuni se è strettamente indispensabile per tutelare il proprio alloggio. Ciò succede in quei palazzi dove il pianerottolo è così piccolo da non poter impedire che la telecamera finisca per riprendere anche gli spazi comuni nel lecito intento di tutelare la casa privata dai ladri.

Telecamera simulata: regole

Molto spesso, soprattutto per risparmiare, si installano telecamere di plastica, prive di dotazione impiantistica, perciò funzionali solo a fini dissuasivi nei confronti di male intenzionati. Come tale, questi apparecchi non sono in grado di riprendere e tantomeno registrare immagini.

Secondo il Garante per la Protezione dei Dati Personali, l’uso di telecamere simulate non deve rispettare la normativa sulla privacy. Tuttavia, possono essere oggetto di contestazione se influenzano il comportamento delle persone nei luoghi pubblici e privati (Garante, 29 aprile 2004).

Un parere del Garante della Privacy (30 dicembre 2003) ha chiarito che l’uso di telecamere finte non viola le norme sulla privacy anche se inquadra aree comuni, in quanto il relativo proprietario non effettua alcun trattamento di dati personali. Di conseguenza, tali telecamere non sono soggette alle stesse restrizioni delle telecamere funzionanti.

Dal punto di vista penale, l’utilizzo di telecamere simulate non può mai integrare il reato di interferenze illecite, neanche quando sono puntate verso la proprietà del vicino, in quanto non sono in grado di catturare immagini o suoni relativi alla vita privata, elemento essenziale per configurare una violazione della privacy o altre interferenze illecite.

In conclusione, l’uso di telecamere finte in contesti condominiali è generalmente permesso, purché non influenzi negativamente il comportamento delle persone. E, proprio a tal fine, sarà bene informare quantomeno i condomini al fine di evitare che questi sporgano querele che costringano, in un processo penale, a doversi difendere dimostrando l’inutilizzabilità della telecamera.

Giustamente, dinanzi a una telecamera fittizia, se non c’è violazione del diritto alla privacy, non ci può essere nemmeno il reato di interferenze illecite nella vita privata. Il codice penale sanziona chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata che si svolgono nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi. Poiché la telecamera finta non è in grado di procurare dette notizie o immagini e le norme penali non possono essere interpretate in via estensiva, non può ravvisarsi alcun reato da parte di chi utilizza dispositivi giocattolo.

Come capire se la telecamera e vera o falsa?

Identificare se una telecamera di sicurezza è autentica o una mera simulazione può essere essenziale per comprendere il livello di sicurezza effettivo di un ambiente. Ecco alcuni segnali chiave da considerare.

Alimentazione elettrica. Una differenza fondamentale tra le telecamere reali e quelle finte è l’alimentazione elettrica. Le telecamere vere richiedono una fonte di alimentazione per funzionare, che sia attraverso cavi o batterie. In assenza di fili o altri segni di connessione elettrica, è probabile che la telecamera sia finta.

Indicatori di stato. Le telecamere di sicurezza reali sono dotate di spie luminose che indicano il loro stato operativo. In condizione di stand-by, queste spie di solito lampeggiano, segnalando che la telecamera è attiva ma non sta registrando. Durante le registrazioni, invece, emettono una luce verde continua. La mancanza di tali indicatori, o la presenza di luci che non cambiano stato, può indicare una telecamera simulata.

Aspetto fisico. Benché alcune telecamere finte siano costruite per sembrare realistiche, spesso presentano dettagli di qualità inferiore rispetto a quelle vere. Ad esempio, lenti in plastica opaca invece di vetro, assenza di marchi di fabbricazione, o costruzioni troppo leggere sono segnali che potrebbero indicare una telecamera finta.

Movimenti e funzioni aggiuntive. Le telecamere vere possono includere funzioni come il movimento motorizzato, la capacità di zoom o la visione notturna. La mancanza di tali funzionalità, soprattutto in modelli che dovrebbero averle, può essere un indizio che la telecamera non è autentica.

Connettività e cablaggio. Una telecamera reale potrebbe avere evidenti cavi di collegamento o segni di connettività wireless, come antenne o moduli Wi-Fi. La completa assenza di tali elementi è un chiaro segno che la telecamera potrebbe essere finta.

Ricorda, tuttavia, che alcune telecamere simulate sono progettate per essere estremamente realistiche e possono includere alcune delle caratteristiche sopra elencate. In caso di dubbio, è sempre consigliato consultare un professionista della sicurezza.


Rubare bici incustodita in condominio: cosa si rischia?

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Chi si appropria di una bicicletta abbandonata nel cortile condominiale può essere denunciato? Quando scatta il furto aggravato?

In condominio coesistono parti di proprietà privata (le singole unità immobiliari, per intenderci) e parti comuni, le quali invece sono nella disponibilità di ogni condomino. Queste aree possono essere sfruttate da tutti, purché si consenta anche agli altri di fare altrettanto. In altre parole, è vietato il monopolio. Ad esempio, è illegittimo chiudere il cortile condominiale con un cancello per rivendicarne la titolarità esclusiva. È in questo contesto che si pone la seguente questione: cosa si rischia a rubare la bici incustodita in condominio? Vediamo cosa ne pensa la giurisprudenza.

Quali sono le parti comuni del condominio?

In un edificio condominiale, sono “comuni” tutti i beni e i servizi che sono essenziali all’esistenza del fabbricato oppure che ne migliorano il godimento.

Tra i primi rientrano le scale, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, ecc.

Tra i secondi rientrano invece l’ascensore, il parcheggio, il cortile, il giardino, l’impianto di riscaldamento centralizzato, ecc.

Tutti questi beni e servizi sono riconducibili a ciascun condomino, ognuno dei quali ne è titolare per una quota ideale corrispondente al valore della sua proprietà privata, espressa in millesimi.

Cosa si rischia a rubare una bici incustodita in condominio?

Rubare una bici incustodita all’interno del condominio (ad esempio, nel cortile o nell’androne) non solo è reato ma può perfino far scattare il grave delitto di furto in abitazione, punito con la reclusione fino a sette anni.

Secondo la giurisprudenza [1], infatti, le parti comuni del condominio devono ritenersi pertinenze delle singole unità immobiliari, con la conseguenza che rubare all’interno di esse è come commettere un furto in casa.

Insomma: ai fini della configurabilità del furto, il cortile, il giardino, il pianerottolo, la portineria e ogni altra parte comune dell’edificio sono equiparate alla privata dimora.

Il fatto che la bicicletta sia lasciata incustodita (ad esempio, senza catena o altra precauzione di questo tipo) non importa: trattandosi di pertinenza privata, non c’è ragione perché il mezzo debba essere messo al riparo dai malintenzionati adottando particolari “dissuasori”.

A rubare una bici in condominio si rischia pertanto la pena della reclusione da quattro a sette anni e la multa da 927 a 1.500 euro [2].

Cosa si rischia a rubare una bici abbandonata in condominio?

Il discorso potrebbe cambiare nel caso in cui ci si appropriasse di una bicicletta abbandonata, per tale dovendosi intendere il velocipede oramai privo delle sue caratteristiche fondamentali (ruote, manubrio, ecc.) e, pertanto, inutilizzabile.

Ma c’è di più. Secondo la Suprema Corte [3], una cosa si può considerare abbandonata dal proprietario quando, per le condizioni o per il luogo in cui essa si trovi, risulti chiaramente la volontà dell’avente diritto di disfarsene definitivamente.

Si pensi alla bicicletta in stato di totale degrado, abbandonata vicino al cassonetto dell’immondizia.

In ipotesi del genere, prendere una bici abbandonata, seppur in una parte condominiale come, ad esempio, il cortile, non costituisce reato.

La Corte di Cassazione ha invece escluso che potesse definirsi “abbandonata” la bicicletta attaccata all’esterno del cancello condominiale: l’utilizzo di un antifurto esclude in maniera evidente la volontà del proprietario di disfarsi del veicolo [4].

Per ulteriori approfondimenti, si legga l’articolo dal titolo Oggetto abbandonato: posso prenderlo?

Furto bicicletta: quando c’è l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede?

Secondo la Corte di Cassazione [5], il furto in strada di una bicicletta non legata da una catena costituisce un’ipotesi di furto aggravato dell’esposizione del bene alla pubblica fede, punito pertanto con la reclusione da due a sei anni.

Non importa dunque che la consuetudine dei ciclisti sia quella di legare o bloccare la bicicletta all’atto di parcheggiarla sulla pubblica via.

Né per questa ragione si può parlare di un oggetto abbandonato solo perché la bici sia posizionata sulla strada o sul marciapiedi per tutto il periodo di lavoro giornaliero.

Un’altra sentenza [6], tuttavia, ha escluso il ricorrere dell’aggravante in questione quando la bicicletta è stata lasciata per lungo tempo in strada senza adottare alcun tipo di precauzione né di sorveglianza.

Nel caso di specie, il giudice non ha ravvisato nessun bisogno impellente ed indifferibile nell’azione di lasciare la bicicletta, sulla pubblica via, per una pluralità di ore corrispondenti a quelle di un’ordinaria giornata lavorativa, tali da impedire al proprietario di custodire adeguatamente la cosa.

In ipotesi del genere, quindi, si tratta di furto semplice e non aggravato, punito con la pena decisamente più mite che va da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni.

Amministratore condominio: chi valuta la gravità dell’inadempimento?

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Il giudice può rigettare il ricorso per la revoca giudiziale dell’amministratore se ritiene che questi non si sia macchiato di una condotta particolarmente grave?

Secondo la legge, l’amministratore di condominio può essere revocato in qualsiasi momento, senza che ricorra una giusta causa: è sufficiente che l’assemblea deliberi con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno 500 millesimi. In presenza di gravi irregolarità, la revoca può essere richiesta direttamente al giudice, su ricorso anche di un solo condomino. È in questo preciso contesto che si pone il seguente quesito: chi valuta la gravità dell’inadempimento dell’amministratore di condominio?

Come diremo nel prosieguo, infatti, l’elenco delle “gravi irregolarità” stabilito dalla legge non è tassativo: ciò significa che ogni comportamento ritenuto profondamente lesivo dei diritti dei condòmini potrebbe giustificare la revoca giudiziale. Ma procediamo con ordine.

Che cos’è la revoca giudiziale dell’amministratore condominiale?

Secondo la legge [1], al ricorrere di gravi irregolarità l’amministratore può essere revocato direttamente con provvedimento del giudice, senza che ci sia bisogno della delibera assembleare. Si parla in queste ipotesi di revoca giudiziale.

Il ricorso al giudice volto a ottenere la rimozione dell’amministratore può essere proposto da ciascun condomino: non occorre quindi alcuna maggioranza assembleare né autorizzazione.

Paolo, amministratore, da anni non convoca l’assemblea per l’approvazione del bilancio. Carlo, condomino, può fare direttamente ricorso al giudice affinché rimuova l’amministratore gravemente inadempiente.

Quando si può procedere alla revoca giudiziale dell’amministratore?

Si può procedere alla revoca giudiziale dell’amministratore di condominio solamente in presenza di gravi irregolarità commesse da quest’ultimo.

Il Codice civile ne fornisce un elenco, che però deve considerarsi esemplificativo e non esaustivo, nel senso che al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge potrebbero essercene delle altre, ad esempio stabilite dal regolamento.

Secondo il Codice, costituiscono gravi irregolarità che giustificano la revoca giudiziale dell’amministratore, tra le altre:

  • l’omessa convocazione dell’assemblea per l’approvazione del rendiconto condominiale entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio;
  • il ripetuto rifiuto di convocare l’assemblea per la revoca e la nomina del nuovo amministratore
  • la mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi, nonché di deliberazioni dell’assemblea;
  • la mancata apertura e utilizzazione del conto corrente condominiale;
  • la gestione secondo modalità che possono generare confusioni tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell’amministratore;
  • la mancata riscossione delle somme dovute al condominio e l’omissione nella presentazione di azione giudiziaria per la riscossione;
  • la mancata tenuta dei registri condominiali e della documentazione inerente all’edificio.

Chi valuta la gravità dell’inadempimento dell’amministratore?

Secondo la giurisprudenza [2], le gravi irregolarità che giustificano la revoca giudiziale dell’amministratore devono essere sempre oggetto di valutazione da parte del giudice.

Questa conclusione comporta due conseguenze:

  • il giudice potrebbe ritenere che ipotesi di inadempienza diverse da quelle previste dalla legge o dal regolamento siano ugualmente gravi e, quindi, possano giustificare la revoca dell’amministratore su ricorso anche di un solo condomino;
  • al contrario, il giudice potrebbe ritenere lieve un’inadempienza che, invece, rientra tra quelle previste a priori come “gravi”.

La giurisprudenza [3] ha ritenuto non grave la condotta dell’amministratore che, a causa di seri problemi personali, non aveva potuto convocare tempestivamente l’assemblea per l’approvazione del bilancio.

Insomma: una volta fatto ricorso per ottenere la revoca dell’amministratore, dovrà essere il giudice a valutare la serietà dell’inadempimento, con riguardo sia alla condotta concretamente tenuta dall’amministratore che al danno arrecato al condominio.

L’amministratore che ruba dalle casse del condominio verrà sicuramente rimosso dal giudice, al contrario di quello che si è macchiato solamente di un lieve ritardo nella comunicazione di alcune informazioni importanti per la compagine.

Condominio senza consuntivo né preventivo: cosa succede?

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I condòmini devono pagare le spese se l’amministratore non ha fatto approvare né il bilancio né il rendiconto preventivo?

Il bilancio è un documento fondamentale per il condominio; tanto è confermato dal fatto che, se l’amministratore non lo redige e non lo fa approvare tempestivamente, commette un grave inadempimento che gli costa la revoca giudiziale del mandato. È in questo contesto che si pone il seguente quesito: cosa succede se il condominio è senza consuntivo né preventivo?

In pratica, si tratta di capire se un condominio può funzionare anche senza le due tipologie di rendiconto che ne “fotografano” la situazione patrimoniale. In particolare, sono in tanti a chiedersi se le spese debbano essere pagate anche in assenza di approvazione del bilancio. Ma procediamo con ordine.

Cos’è il rendiconto consuntivo?

Il bilancio condominiale (noto anche come “bilancio”) è il documento che contiene il riepilogo di tutte le spese sostenute dal condominio nel corso dell’anno precedente.

Il rendiconto consuntivo è come un estratto conto in cui le spese sono elencate in ordine cronologico e raggruppate per voci di spesa.

Le spese sostenute sono poi suddivise per singola unità immobiliare e ripartite secondo le tabelle millesimali di riferimento.

Cos’è il rendiconto preventivo?

Se il bilancio guarda al passato, cioè all’esercizio appena conclusosi, rappresentandone di fatto una sintesi, il rendiconto preventivo è invece una proiezione delle spese verso il futuro, cioè verso la nuova annualità.

Il rendiconto preventivo, quindi, è il documento che anticipa le spese da affrontare nell’anno contabile che comincia.

Generalmente il bilancio preventivo si redige sulla base di quello approvato l’anno precedente tenendo conto dell’eventuale incremento dei prezzi e, naturalmente, delle possibili nuove modifiche da apportare al condominio.

A differenza del consuntivo, il rendiconto preventivo non è obbligatorio: l’amministratore che non lo redige non va quindi incontro ad alcuna conseguenza.

Cosa succede se non si approva il bilancio?

La mancata approvazione del bilancio non ha conseguenze così nefaste.

La più rilevante riguarda infatti l’impossibilità di servirsi del decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo previsto dalla legge [1] per il recupero dei crediti nei confronti dei condòmini morosi: questo particolare provvedimento, infatti, può essere ottenuto solamente per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea.

Non ci sono dubbi circa il fatto che il condominio va pagato anche se non si approva il bilancio. In assenza di rendiconto consuntivo, infatti, vale il preventivo approvato in precedenza, il quale perde validità solamente con l’approvazione del successivo bilancio.

Le spese condominiali da pagare potranno quindi essere parametrate sui valori stabiliti nel vecchio rendiconto preventivo.

Cosa succede se non c’è nemmeno il rendiconto preventivo?

In assenza sia del consuntivo che del preventivo, l’obbligo del pagamento delle spese condominiali non viene comunque meno.

L’obbligo contributivo non deriva infatti dalla delibera assembleare che approva il riparto, bensì dal fatto stesso di essere proprietari dell’unità immobiliare sita nell’edificio condominiale.

Insomma: al pagamento degli oneri non si sfugge, nemmeno in assenza totale di qualsiasi tipo di rendiconto.

È quindi legittima la pretesa dell’amministratore, al quale la legge fa obbligo di riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni.

Diverso è invece il discorso con riferimento alla manutenzione straordinaria: in assenza di una decisione assembleare, l’amministratore non potrà pretendere alcunché dai condòmini.

Quali regole per il riscaldamento centralizzato?

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Le regole per suddividere le spese per il riscaldamento in condominio e le modalità per il distacco

Fra gli argomenti di maggior interesse nell’ambito delle questioni condominiali c’è sicuramente il riscaldamento. Sarebbe perciò opportuno conoscere quali sono le regole per il riscaldamento centralizzato.  I motivi di attrito e di liti, talora accese, sono quelli connessi alle regole da adottare per suddividere correttamente le spese per i consumi di gasolio e quelle relative alla manutenzione dell’intero impianto di riscaldamento. Il regolare funzionamento del servizio di riscaldamento è essenziale per garantire ambienti sani e confortevoli soprattutto per i soggetti più fragili (neonati, bambini, anziani, malati).  Nell’articolo che ci apprestiamo a scrivere tenteremo di dare una risposta esauriente ad alcune tra le questioni più dibattute connesse al servizio di riscaldamento in ambito condominiale. Ci occuperemo prima di tutto delle norme che disciplinano la ripartizione dei consumi di gasolio e poi delle regole concernenti la suddivisione delle spese necessarie alla manutenzione dell’impianto nella sua interezza. In ultimo affronteremo il tema del cosiddetto distacco del singolo condomino dal servizio di riscaldamento centralizzato: come va effettuato e quali regole devono essere rispettate.

Come suddividere le spese del servizio centralizzato di riscaldamento?

Cominciamo dalle regole sulle spese per i consumi e per l’ordinaria manutenzione dell’impianto di riscaldamento.

A questo riguardo diciamo che:

  • se il condominio, nelle singole unità di proprietà esclusiva, si è dotato delle valvole termostatiche (che consentono di regolare la temperatura e di quantificare i consumi) sarà necessario considerare separatamente: a) i cosiddetti costi fissi involontari (cioè la manutenzione ordinaria e la pulizia dell’impianto, le dispersioni di calore ed costi per il gestore), che dovranno essere suddivise tra tutti i condomini che si servono dell’impianto in base ai millesimi, e b) i costi cosiddetti variabili volontari (cioè i consumi effettivi di ogni unità immobiliare calcolati grazie alle valvole) che andranno suddivisi o applicando le norme tecniche Uni 10200 (cioè in base alle letture dei contabilizzatori) oppure, se le norme Uni 10200 non possono essere utilizzate oppure se una perizia ha accertato l’esistenza di rilevanti differenze tra i fabbisogni termici delle diverse unità immobiliari, dividendo almeno il 70% dei costi sulla base dei consumi registrati dai contabilizzatori ed il resto in base ad altri criteri (usando i millesimi oppure i metri cubi o metri quadri che sono riscaldati o criteri ancora diversi);
  • se invece le obbligatorie valvole termostatiche non sono presenti (per esenzione, ad esempio), le spese concernenti i consumi e la manutenzione ordinaria dovranno essere suddivise in base ai millesimi oppure alla superficie irradiata in metri quadrati o cubi).

In mancanza di valvole termostatiche le spese per consumi possono essere ripartite in base al numero di elementi dei radiatori

Tutti i condomini distaccati sono esonerati da queste spese.

Per le spese di manutenzione straordinaria e per quelle necessarie per la messa a norma dell’impianto (ad esempio sostituzione di elementi o riparazioni), la ripartizione avverrà tra tutti i condomini (compresi quelli distaccati) in base al criterio millesimale.

Le spese di messa a norma si ripartiscono in base ai millesimi

Come avviene il distacco dall’impianto centralizzato?

Nel caso in cui un condomino desiderasse distaccarsi dall’impianto centralizzato di riscaldamento che iter dovrebbe seguire?

A questo interrogativo la legge [1] risponde affermando che il distacco è possibile se:

  • non causa notevoli squilibri di funzionamento
  • o non provochi aggravi di spesa per tutti gli altri condomini.

E’ allora consigliabile rivolgersi ad un perito (preferibilmente scelto d’intesa con l’amministratore) per verificare se il distacco potrebbe causare squilibri nel funzionamento dell’impianto o aggravi di spesa per i condomini.

Dopo aver accertato che il distacco non provocherà squilibri e aggravi di spesa, si potrà procedere ed al condomino distaccato potranno essere accollate soltanto le spese relative alla manutenzione straordinaria ed alla conservazione e messa a norma dell’impianto.

Il distacco dall’impianto centralizzato non è sempre consentito

Come tutelarsi dagli eredi se si riceve una casa in donazione

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Come difendersi dall’azione dei parenti del donante in caso di intestazione di un immobile: l’azione di riduzione per lesione di legittima.

Se hai ricevuto, o stai per ricevere, una casa in donazione potresti chiederti come tutelarti dai parenti del donante. Questi ultimi infatti potrebbero voler contestare l’atto di trasferimento per questioni ereditarie. Ma possono farlo davvero? Cosa potrebbero chiederti e fin quando potrebbero agire contro di te?

Scopo di questo articolo è spiegarti come tutelarsi dagli eredi se si riceve una casa in donazione. La questione è di estrema importanza perché, come vedrai a breve, la donazione può essere contestata: non subito, ma non appena colui che te l’ha intestata morirà.

Ecco perché ti consiglio di leggere attentamente le istruzioni che stiamo per darti: ti spiegheremo innanzitutto quali sono gli eredi che possono contestare una donazione, quando una donazione può essere impugnata ed entro quanto tempo. Ma procediamo con ordine.

I parenti del donante possono contestare la donazione da questi fatta?

La donazione è un atto irrevocabile: chi la esegue non può più tornare indietro e pretendere la restituzione del bene. Lo potrebbe fare solo nel caso di:

  • sopravvenienza di un primo figlio che prima non sapeva di avere;
  • di «ingratitudine» del donatario.

L’ingratitudine si verifica al compimento di gravi delitti (ad esempio l’omicidio, il tentato omicidio, la calunnia per reati particolarmente gravi) o a causa di un sentimento di forte e duraturo disprezzo nei confronti del donante manifestato pubblicamente.

I parenti del donante invece possono contestare la donazione solo in due casi:

  • quando questa non è avvenuta con atto notarile e/o alla presenza di due testimoni;
  • quando questa ha leso le quote di legittima.

La prima ipotesi costituisce un caso di nullità della donazione che può essere fatto valere in qualsiasi momento, senza cioè limiti di tempo. Difatti la donazione con una semplice scrittura privata non ha alcun valore.

La seconda ipotesi è quella che, in questa sede, ci interessa di più.

Quando la donazione è contestabile dagli eredi legittimari

La legge assegna ai parenti più stretti di ciascuna persona una quota minima del patrimonio di quest’ultima che, alla sua morte, deve essere loro riservata per legge. Si tratta quindi di un forte limite alla libertà di fare testamento.

Tali soggetti, che sono chiamati eredi legittimari, sono solo:

  • il coniuge (anche se separato, a meno che non abbia subito l’addebito);
  • i figli (naturali, legittimi, adottivi);
  • i genitori (solo in assenza dei figli).

Se la quota di legittima viene lesa (ad esempio con disposizioni testamentarie o con donazioni fatte in vita), gli eredi legittimari possono, entro 10 anni dall’apertura della successione (ossia dal decesso del de cuius):

  • contestare la divisione ereditaria;
  • contestare le donazioni che il de cuius ha fatto quando ancora era in vita, partendo dalle ultime e risalendo via via a quelle anteriori, finché la legittima non viene ripristinata.

Questa azione viene chiamata azione di riduzione per lesione della legittima. Si tratta di una causa civile che ha lo scopo di rimettere in gioco l’intera divisione ereditaria al fine di garantire ai legittimari le loro quote minime. Così, chi ha ricevuto una casa in donazione, sarà tenuto a restituirla agli eredi(potrebbe anche offrire di versare il controvalore in denaro).

Per sapere quali sono le quote di legittima (che variano in base al numero di eredi legittimari che concorrono alla divisione del patrimonio) leggi la nostra guida dal titolo Quanto è la legitima.

Per verificare se un erede legittimario è stato leso o meno nella sua quota di legittima bisogna però calcolare anche quanto da questi ricevuto in vita dal de cuius a titolo di donazioni. Le donazioni infatti si considerano un’anticipazione della legittima.

Quando i parenti del donante possono contestare la donazione?

Alla luce di quanto si è appena detto si può dunque desumere che solo il coniuge ed i figli del donante (o, in assenza dei figli, i genitori) possono contestare la donazione da quest’ultimo effettuata. E ciò unicamente a patto che:

  • il donante sia già deceduto (non è possibile contestare una donazione quando ancora il donante è in vita);
  • non siano decorsi più di 10 anni dal decesso del donante;
  • alla luce di un complicato calcolo (di norma delegato dal giudice a un consulente tecnico), risulti che gli eredi legittimari hanno ricevuto una quota di patrimonio inferiore alla legittima a loro riservata dalla legge.

Come tutelarsi dagli eredi del donante?

A questo punto, chi riceve una donazione potrebbe temere l’azione degli eredi che, come appena visto, potrebbe sorgere a distanza di molti anni se il donante è ancora in vita e in piena salute. Che deve fare questi per non rischiare nulla?

Intanto bisogna ribadire che le donazioni da contestare sono innanzitutto le ultime e poi via via quelle anteriori. Chi quindi ha ricevuto in donazione un immobile molti anni prima del decesso del donante non dovrebbe temere nulla. Ma se il donante ha eseguito poche donazioni, allora il rischio sussiste.

A questo punto, chi teme di dover restituire la casa agli eredi ha una sola strada da percorrere: venderla o donarla a qualcuno (ad esempio un figlio). Nello stesso tempo dovrà però evitare di detenere beni pignorabili. Cerchiamo di capire meglio questi passaggi.

Nel caso in cui il bene ricevuto in donazione venga venduto a terzi, gli eredi legittimari possono agire contro l’acquirente anche se in buona fede, con l’azione di restituzione, per ottenere la restituzione del bene. Tutto ciò a patto che non siano decorsi più di 20 anni dalla donazione stessa. In caso contrario possono chiedere al donatario-venditore il controvalore in denaro.

Se anche il terzo ha, a sua volta venduto il bene, gli eredi non possono agire contro l’ulteriore acquirente.

In ogni caso, le ipotesi sono due:

  • se gli eredi riescono a recuperare il bene dal terzo acquirente, quest’ultimo potrebbe agire contro il venditore-donatario per ottenere la restituzione del prezzo corrisposto in buona fede;
  • se gli eredi non riescono a recuperare il bene dal terzo acquirente poiché questi a sua volta ha già rivenduto il bene, saranno gli eredi stessi ad agire contro il venditore-donatario.

In entrambi i casi, il venditore-donatario ha una responsabilità di tipo patrimoniale per aver ceduto l’immobile. Pertanto gli eredi legittimari potranno solo agire contro di lui e pretendere il risarcimento pari al valore dell’immobile che lui ha ceduto (donato o venduto) a terzi. Ma se il donatario è rimasto senza beni (ossia di fatto nullatenente), i legittimari non avranno alcuna possibilità di rivalersi contro di lui. In buona sostanza, il venditore-donatario avrà sì un debito ma, non potendolo saldare per incapacità economica, non subirà alcuna conseguenza pratica.

Il condomino distaccato paga l’impianto di riscaldamento?

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Il condomino distaccato dal riscaldamento centralizzato deve comunque pagare alcune spese dell’impianto? E nel caso in cui non sia comproprietario dell’impianto?

Bisogna prima di tutto partire dall’articolo 1117, 1° comma, n. 3) del Codice civile.

In base a questa norma anche i sistemi centralizzati per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria si presumono di proprietà comune tra tutti i condomini se non risulta il contrario dal titolo.

Questo significa che se nel primo atto di vendita di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario dell’edificio ad altro soggetto (questo è il titolo a cui fa riferimento l’articolo 1117 del Codice civile) non risulta che alcuni condomini sono esclusi dalla comproprietà dell’impianto centralizzato di riscaldamento, esso dovrà essere considerato di proprietà tra tutti i condomini.

Inoltre la presunzione di comproprietà tra tutti i condomini dell’impianto centralizzato di riscaldamento (come di ogni altra parte che l’articolo 1117 del Codice civile presume comune) non può essere applicata nell’ipotesi in cui l’impianto, per caratteristiche oggettive strutturali, non servisse tutto l’edificio, ma solo una sua parte (in questo caso i condomini le cui unità immobiliari non fossero, fin dall’origine, in alcun modo servite dalle tubazioni del riscaldamento centralizzato e non fossero nemmeno potenzialmente in grado di esserne servite, non potrebbero essere considerati comproprietari dell’impianto).

Pertanto, se un condomino non è comproprietario dell’impianto centralizzato di riscaldamento (perché il titolo espressamente lo esclude o perché la sua unità immobiliare non può, nemmeno potenzialmente, essere servita da esso) non è tenuto a partecipare ad alcuna spesa relativa ad esso e nemmeno, ovviamente, potrà partecipare e votare nelle discussioni dell’assemblea aventi ad oggetto tale impianto.

Questione diversa è se il condomino risulta essere comproprietario dell’impianto, ma si sia distaccato da esso.

In questo caso, l’articolo 1118 del Codice civile lo obbliga comunque a sostenere le spese straordinarie, di conservazione e di messa a norma dell’impianto stesso con il conseguente diritto di partecipare e votare alla relative assemblee.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Angelo Forte

 

Che fare con la posta indirizzata al precedente inquilino?

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Sono da poco andato a vivere in un nuovo appartamento. Come devo comportarmi con la corrispondenza che dovesse arrivare ancora indirizzata al precedente inquilino?

Occorre dire che innanzitutto che tocca al precedente inquilino informare del suo cambio di indirizzo tutti i mittenti di corrispondenza a lui indirizzata.

E’ quindi dovere del precedente inquilino dare prontamente notizia del cambio di indirizzo ad ogni persona fisica o giuridica che era a conoscenza del suo recapito in modo da evitare che la corrispondenza continui ad essere recapitata in un luogo in cui questa persona non dimora più.

Sempre il precedente inquilino è tenuto ad informare del suo cambio di indirizzo il portalettere che usualmente recapitava la posta.

Con questi due semplici interventi, lei non dovrebbe ritrovare, in quella che ora è la sua cassetta postale, corrispondenza indirizzata al vecchio inquilino.

Se questo dovesse accadere, lei può sicuramente respingere al mittente le raccomandate indirizzate al nome del precedente occupante dell’immobile.

Per quanto attiene, invece, alla posta ordinaria potrà contattare, se ne conosce un recapito, il precedente inquilino affinché venga lui a ritirarla da lei.

Se, invece, il precedente inquilino fosse irrintracciabile, lei può, per scrupolo, conservare per qualche mese la corrispondenza ordinaria in attesa che sia il vecchio inquilino a rintracciarla.

Sarebbe comunque questo  un favore che lei farebbe al precedente occupante toccando a lui, invece, di attivarsi per arrecarle il minor fastidio possibile e, quindi, per evitare che posta a lui indirizzata sia imbucata ad un indirizzo che non è più il suo.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Angelo Forte

 

 


Chi sono i condòmini di un palazzo?

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Qual è la differenza tra proprietari, inquilini, affittuari, comodatari e usufruttuari all’interno di un edificio condominiale?

Il condominio è l’edificio in cui coesistono parti comuni con altre esclusive. Nelle prime rientrano tutti i beni e i servizi che sono indispensabili per l’esistenza stessa del fabbricato (come le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari) mentre nelle seconde sono ricomprese le unità immobiliari di cui sono titolari i singoli proprietari, incluse le loro pertinenze (garage, box, cantina, ecc.). È in questo contesto che si pone il seguente quesito: chi sono i condòmini di un palazzo?

La risposta a tale domanda non è così scontata. Nello stesso fabbricato, infatti, possono abitare persone che occupano l’unità immobiliare a diverso titolo: in affitto, in comodato, in usufrutto, ecc. Ciascuno di essi può davvero definirsi “condomino”?

La questione non è di poco conto se solo si considera che, per legge, solamente i condòmini veri e propri godono del diritto di partecipare all’assemblea, salvo eccezioni. Approfondiamo l’argomento.

Chi sono i condòmini?

I condòmini sono i proprietari delle unità immobiliari che si trovano all’interno di un palazzo.

Detto in altri termini, sono condòmini solamente coloro che, all’interno del rogito notarile, compaiono come acquirenti degli immobili.

 Chi sono gli inquilini?

In un palazzo possono vivere persone che non sono proprietarie delle case in cui abitano. È il classico caso del conduttore che vive in affitto all’interno dell’appartamento del locatore.

Nella nozione di “inquilino” possono essere fatti rientrare anche i comodatari, cioè coloro che occupano l’immobile in ragione di un valido contratto di comodato. Si pensi al figlio che vive nella casa del padre.

Usufrutto e abitazione in condominio

In un appartamento condominiale possono vivere soggetti diversi sia dai proprietari-condòmini che dagli inquilini: si tratta essenzialmente di coloro che vantano sull’immobile un diritto reale di godimento.

È il caso dell’usufruttuario, cioè di colui che utilizza il bene altrui come se ne fosse il titolare esclusivo, con l’unico vincolo di non alterare la destinazione economica della cosa.

Carlo, proprietario di un appartamento condominiale, decide di donare l’usufrutto al proprio figlio conservando la nuda proprietà del bene.

Un’altra ipotesi molto comune è quella del diritto di abitazione sull’immobile altrui. Il caso più frequente è quello della moglie che, per ordine del giudice, continua a vivere nell’abitazione del marito a seguito della separazione o del divorzio.

Chi può partecipare all’assemblea del palazzo?

La differenza tra condòmini, inquilini e altri soggetti che vivono in un palazzo è fondamentale per stabilire la legittimazione a prendere parte all’assemblea condominiale.

Secondo la legge, infatti, solo i proprietari hanno il diritto di essere convocati e di poter votare in assemblea; tutti gli altri godono invece solamente di una legittimazione residuale.

Per la precisione:

  • l’inquilino (sia esso affittuario o comodatario) ha diritto di voto, in luogo del proprietario dell’appartamento locatogli, nelle delibere dell’assemblea condominiale relative alle spese e alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria. Egli ha inoltre diritto di intervenire, senza diritto di voto, sulle delibere relative alla modificazione degli altri servizi comuni [1];
  • l’usufruttuario esercita il diritto di voto negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni. Nelle altre deliberazioni, il diritto di voto spetta al nudo proprietario (cioè, al condomino) [2];
  • lo stesso principio si applica anche all’“abitatore”, cioè a colui che vive nell’appartamento condominiale in virtù di un diritto di abitazione. A questi è quindi riconosciuto il diritto di partecipare all’assemblea e di votare allorquando all’ordine del giorno vi siano delibere afferenti all’ordinaria manutenzione, in relazione alle quali egli ha gli stessi poteri del condomino.

Spese del condominio: chi paga?

Anche la ripartizione delle spese condominiali risente della qualifica del soggetto che occupa l’appartamento.

Il principio comune a tutti è il seguente: le spese ordinarie sono a carico di chi vive effettivamente in condominio, mentre le spese di manutenzione straordinaria spettano sempre al proprietario-condomino.

Di conseguenza, sono a carico dell’inquilino, dell’usufruttuario e di chi vanta un diritto di abitazione [3]:

  • i servizi di pulizia;
  • il funzionamento e la manutenzione ordinaria dell’ascensore, dell’impianto antincendio, dell’antenna televisiva, dell’illuminazione, del citofono, delle grondaie, ecc.;
  • lo spurgo dei pozzi neri e delle latrine;
  • la fornitura di altri servizi comuni.

Sempre a titolo esemplificativo, restano invece a carico del proprietario le seguenti spese:

  • il rifacimento e la manutenzione straordinaria delle facciate;
  • l’installazione e la manutenzione straordinaria degli ascensori;
  • installazione e sostituzione degli impianti di riscaldamento, antincendio, di spurgo, d’illuminazione e antenne televisive ma anche di arredi, cassette postali, contatori, citofoni e lampadine nelle parti comuni interne all’edificio;
  • il compenso dell’amministratore e il pagamento dei premi dell’assicurazione condominiale.