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Channel: Casa e Condominio | La Legge per tutti
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Il vicino di casa ha prelazione sulla vendita dell’appartamento?

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l mio dirimpettaio di casa sta vendendo il proprio appartamento, confinante con il mio. Gli ho promesso lo stesso prezzo offertogli da un’altra persona, ma lui non vuole vendermelo. Ho un diritto di prelazione?

Il proprietario di un appartamento sito in un immobile condominiale non ha diritto di prelazione in caso di vendita dell’immobile del vicino di casa, sia che si tratti di quello posto allo stesso pianerottolo che al piano di sopra o di sotto. Il codice civile, infatti, attribuisce il diritto alla prelazione – ossia ad essere preferiti rispetto a terzi offerenti, a parità di prezzo e di altre condizioni contrattuali – solo in due casi:

  1. alla vendita di quote del bene in comunione ereditaria [1];
  2. alla vendita dell’immobile dato in affitto a uso commerciale [2]. In pratica, se il locatore, alla prima scadenza della locazione, intende trasferire a titolo oneroso la proprietà dell’immobile locato (ad esempio attraverso una vendita), al conduttore spetta il diritto di prelazione sull’acquisto del bene, purché sussistano i seguenti presupposti: quando non ha la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione ed il locatore/proprietario intende alla prima scadenza contrattuale venderlo a terzi. Il diritto di prelazione riconosciuto al conduttore prevale rispetto al diritto di prelazione esistente in capo ai coeredi di immobile caduto in comunione ereditaria  e non opera nel caso in cui la vendita sia effettuata in favore del coniuge del proprietario o di parenti entro il secondo grado del medesimo.

Dunque, nel caso in cui il vicino di casa intenda vendere il proprio appartamento, benché confinante con quello del dirimpettaio e ben potendo le due unità immobiliari formare oggetto di un unico accatastamento con l’abbattimento di una o più parenti, non spetta alcun diritto di prelazione.


Spesa decisa dall’assemblea di condominio: ci si può dissociare?

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L’assemblea di condominio ha deciso a maggioranza di procedere a delle spese che ritengo ingiustificate perché avvantaggiano solo alcuni condomini. C’è un modo per dissociarsi e non pagare?

In base al codice civile [1] la decisione dell’assemblea di condominio è vincolante per tutti i condòmini, compresi i dissenzienti, che non possono pertanto dissociarsi dalla spesa decisa dagli altri se sono state rispettate le maggioranze prescritte dalla legge, maggioranze che, comunque, sono diverse a seconda del tipo di intervento che il condominio decide di eseguire. Ad esempio, per lavori che comportano spese gravose o voluttuarie, il codice impone la maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno i due terzi dei millesimi (667/1000) [2]. Ma procediamo con ordine e vediamo come dissociarsi dalla spesa decisa dall’assemblea di condominio.

Come contestare la spesa decisa dall’assemblea

In generale il condomino non può contestare il merito delle decisioni dell’assemblea, ossia l’utilità di determinati lavori, l’entità del preventivo o l’opportunità delle spese. Gli unici motivi di contestazione delle decisioni dell’assemblea sono quelli relativi al rispetto delle norme di legge come, ad esempio, quelle sulle forme di convocazione dell’assemblea, sulle modalità di svolgimento della riunione, le regole sulla votazione e le maggioranze. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire il giudice chiedendone l’annullamento entro trenta giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti (ossia da quando l’amministratore invia il verbale della riunione). Solo se il giudice decide di annullare la riunione dell’assemblea è possibile evitare di sostenere la spesa. In ogni caso, l’avvio della causa volta ad ottenere l’annullamento della deliberazione non ne sospende l’esecuzione, salvo diversa decisione da parte del giudice.

Se non ricorre tale ipotesi, e quindi non viene impugnata la decisione dei condomini, le deliberazioni prese dall’assemblea con il rispetto delle maggioranze di legge sono obbligatorie per tutti i condomini e, pertanto, non è possibile dissociarsi dalla spesa decisa dall’assemblea.

Quando ci si può dissociare dalle spese decise dall’assemblea 

C’è un altro modo per dissociarsi dalla spesa decisa dall’assemblea: quando i lavori comportano un’utilità solo per determinati condomini perché solo questi possono servirsi dell’intervento. Facciamo qualche esempio. Immaginiamo un condominio con due scale dove solo in una delle due viene decisa la realizzazione di un montacarichi per gli invalidi volto a eliminare le barriere architettoniche; in tal caso, a pagarne i costi sono solo i condomini che vivono in detta scala e non quelli dell’altra. Si pensi ancora a un condominio strutturato su più corpi, composti a mo’ di gradini; in tal caso, le spese di ristrutturazione del lastrico solare di uno dei singoli corpi saranno a carico dei soli proprietari degli appartamenti posti sotto la linea verticale di tale copertura e non anche degli altri.

Non ci si può invece dissociare da una spesa decisa dall’assemblea solo per via di una minore (o del tutto assente) utilizzazione del bene comune. Ad esempio, se il condominio decide di installare delle panchine nel giardino per dare la possibilità agli anziani di sedersi, non ci si può astenere dal pagare solo per via del fatto che non ha intenzione di utilizzare tali beni. Ed ancora, chi è solito usare le scale, non può astenersi dal pagare le spese dell’ascensore.

Pertanto, in generale, se l’innovazione gravosa o voluttuaria consiste in opere:

  • suscettibili di utilizzazione separata: ciascun condomino può rifiutarsi di partecipare alla spesa, salvo cambiare idea in seguito;
  • non suscettibile di utilizzazione separata: la maggioranza dei condomini che ha deliberata o accettata l’innovazione deve sostenerne integralmente la spesa; in caso contrario l’innovazione non è consentita.

Le maggioranze da rispettare in assemblea

Come abbiamo anticipato in apertura, il rispetto delle maggioranze di votazione è essenziale per la validità della delibera dell’assemblea. In caso di lavori e innovazioni, le maggioranze sono le seguenti:

  • innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno i 667/1000 millesimi dell’immobile;
  • opere ed interventi per migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • opere ed interventi per eliminare le barriere architettoniche: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • opere per il contenimento del consumo energetico degli edifici: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • realizzazione di parcheggi condominiali: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • opere per produrre energia mediante utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • installazione di impianti per la ricezione radiotelevisiva: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • realizzazioni di impianti di videosorveglianza: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà dei millesimi dell’immobile;
  • innovazione gravosa o voluttuaria: maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino almeno i due terzi dei millesimi dell’immobile;
  • innovazioni che possono alterare il decoro architettonico rendendo alcune parti inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino: unanimità.

Se il notaio non consiglia scatta il risarcimento

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Il professionista ha precisi doveri nei confronti di chi deve stipulare un compromesso o un rogito: se non consiglia adeguatamente è responsabile dei danni.

A tutti capita, prima o poi, di doversi rivolgere ad uno studio notarile per via di una compravendita immobiliare. Tale attività si snoda principalmente attraverso due fasi: la stipula del contratto preliminare (cosiddetto «compromesso») e quella del rogito definitivo. Durante lo svolgimento del suo compito, il professionista ha specifici doveri verso le parti contrattuali: infatti, se il notaio non consiglia adeguatamente queste ultime circa le operazioni da effettuare, scatta il risarcimento del danno. Lo ha ribadito la Cassazione, con una recente sentenza [1]: il notaio deve risarcire i danni provocati agli acquirenti di un immobile per non averli adeguatamente informati circa l’efficacia della trascrizione del contratto preliminare. Vediamo tutto con ordine.

La trascrizione del contratto preliminare

Cos’è e a cosa serve la trascrizione del contratto preliminare? Il nostro codice civile [2] impone espressamente la trascrizione dei preliminari:

  • che trasferiscono la proprietà dei beni immobili;
  • che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di superficie, i diritti del concedente e dell’enfiteuta;
  • che costituiscono la comunione dei diritti appena menzionati;
  • che costituiscono o modificano servitù prediali, il diritto di uso sopra i beni immobili, il diritto di abitazione.

Tramite la trascrizione, quindi, un determinato atto (ad esempio un preliminare di compravendita) viene iscritto nei registri immobiliari. La funzione non è solo quella di dare pubblicità all’operazione, ma anche quella di cautelarsi da eventuali pretese di terzi successive alla stipulazione stessa (cosiddetta efficacia prenotativa della trascrizione). Il codice civile, infatti, afferma che «la trascrizione del contratto definitivo o di altro atto che costituisca comunque esecuzione dei contratti preliminari […] prevale sulle trascrizioni ed iscrizioni eseguite contro il promittente alienante dopo la trascrizione del preliminare».

Facciamo un esempio: stipuliamo un preliminare e lo trascriviamo. Mentre stiamo aspettando la stipula del definitivo, un creditore del venditore iscrive un’ipoteca su quell’immobile. Questa operazione non avrà efficacia nei nostri confronti, perché la nostra trascrizione del preliminare ha già prenotato l’effetto del contratto definitivo. Quando andremo a stipulare il rogito e lo trascriveremo, la nostra stipulazione prevarrà su tutte le iscrizioni e trascrizioni effettuate dai terzi nelle more tra preliminare e definitivo.

La durata della trascrizione del preliminare

La legge, tuttavia, stabilisce che gli effetti della trascrizione del preliminare cessano e si considerano come mai prodotti se entro tre anni dalla trascrizione stessa non venga trascritto il rogito o di altro atto che costituisca comunque esecuzione del compromesso [3]. In pratica, se entro tre anni non trascriviamo il definitivo, l’effetto prenotativo descritto nel paragrafo precedente verrà meno. Di conseguenza, eventuali terzi potranno far valere i loro diritti contro di noi.

Cosa dice la Cassazione

Nella vicenda sottoposta all’esame dei giudici, le parti avevano stipulato il compromesso e concordato un termine abbastanza lungo (nove anni) per la stipula del contratto definitivo. Il notaio aveva suggerito agli acquirenti di trascrivere il preliminare, ma non li aveva informati che, se non avessero trascritto il definitivo entro tre anni, l’operazione sarebbe stata vana. Incontratisi per il rogito, infatti, le parti scoprivano che sull’immobile era nel frattempo stata iscritta un’ipoteca.

Considerato che erano passati più di tre anni dal compromesso, tale ipoteca prevaleva sul preliminare a suo tempo trascritto. Pertanto, gli acquirenti chiedevano il risarcimento dei danni al notaio, reo di non averli consigliati adeguatamente sul da farsi. La Cassazione ha dato loro ragione: viene quindi annullata la sentenza della Corte d’Appello, che aveva invece rigettato la richiesta di risarcimento.

Il dovere di consiglio del notaio

Il codice di deontologia notarile afferma che il notaio è tenuto a «informare le parti sulle possibile conseguenze della prestazione richiesta, in tutti gli aspetti della normale indagine giuridica demandatagli e consigliare professionalmente le stessa, anche con la proposizione di impostazioni autonome rispetto alla loro volontà e intenzione» (cosiddetto dovere di consiglio[4].

In poche parole, il professionista ha l’obbligo di consigliare i contraenti riguardo a tutti gli aspetti tecnici dell’operazione (in pratica, tutte quelle circostanze che non possono essere conosciute da chi è privo di un’adeguata qualifica professionale). Per cui, se il notaio non consiglia le parti, scatta il risarcimento del danno.

Secondo la giurisprudenza, infatti, il dovere del professionista non si esaurisce nell’accertare la volontà dei contraenti e redigere gli atti concordati. Egli, invece, ha l’obbligo di svolgere tutte le attività preparatorie e successive alla stipulazione [5]. Ad esempio, deve verificare se sull’immobile ci sono iscrizioni o di diritti dei terzi, per poi comunicarne alle parti l’effettiva presenza o anche il solo sospetto della stessa. Se non lo fa viene meno ai suoi doveri non solo professionali ma anche e soprattutto contrattuali. Le parti lese, quindi, possono chiedere il risarcimento del danno subito.

Ciò vale in tutti i casi in cui il notaio non ha adeguatamente consigliato riguardo questioni tecniche, su pericoli che persone senza adeguate conoscenze non sono in grado di percepire. Tra queste, appunto, rientra il caso del professionista che non avverte che la trascrizione del preliminare ha un’efficacia temporale limitata.

Secondo la Cassazione, solo in un caso il risarcimento non può essere chiesto, ossia quando il notaio venga espressamente esonerato da tale responsabilità da tutte le parti coinvolte. Al contrario, un accordo del genere fatto con uno solo dei contraenti non basterà ad evitare il risarcimento dei danni.

La prescrizione e l’onere della prova per il risarcimento

Trattandosi di responsabilità contrattuale, il risarcimento potrà essere chiesto entro dieci anni dal verificarsi dell’evento dannoso (quindi, ad esempio, da quando gli acquirenti sono venuti a conoscenza che esiste un’iscrizione pregiudizievole sull’immobile). Quanto all’onere della prova, chi invoca il risarcimento deve dimostrare l’esistenza del pregiudizio economico subito, nonché il fatto che il danno sia diretta conseguenza del mancato consiglio del notaio. Spetta a quest’ultimo, invece, dimostrare di aver diligentemente adempiuto a tutti i propri doveri.

Riscaldamento: entro il 30 giugno l’obbligo delle valvole termostatiche

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Scade il termine per adeguare l’impianto di riscaldamento nei condomini pena sanzioni fino a 2.500 euro. Guida all’installazione, costi e agevolazioni.

Fa un certo effetto pensare al riscaldamento di casa in piena estate, ma sta per scadere il termine per l’installazione delle valvole termostatiche negli impianti di riscaldamento centralizzato dei condomini. Il 30 giugno è l’ultimo giorno utile per adeguare tali impianti alla direttiva europea in materia [1] ed evitare pesanti sanzioni. Vediamo in questa guida tutto quello che riguarda l’obbligo delle valvole termostatiche: chi è tenuto a fare i lavori e chi può avere l’esenzione, che cosa prevede la normativa, a che cosa servono le valvole termostatiche, che cosa si rischia se non vengono installate entro il 30 giugno.

Valvole termostatiche: che cosa sono e a che servono

La valvola termostatica è un dispositivo che viene applicato sui termosifoni allo scopo di regolare il calore di un’abitazione e, di conseguenza, permettere di risparmiare energia. Sulla testa della valvola si imposta la temperatura desiderata. Quando nell’ambiente in cui si trova il calorifero quella temperatura viene superata, la valvola sollecita un impegno minore all’impianto di riscaldamento in modo che la temperatura stessa venga abbassata alla soglia desiderata. Ne consegue che l’impianto lavora soltanto quando è necessario.

Si calcola che le valvole termostatiche garantiscano un risparmio energetico pari ad una diminuzione tra il 10% ed il 30% del costo della bolletta. Questo perché le valvole termostatiche fanno parte di un sistema che comprende anche i contabilizzatori di calore (obbligatori anche questi per legge), che aiutano i condòmini a pagare il riscaldamento che realmente consumano. Ma assicurano (o dovrebbero assicurare) anche una riduzione delle emissioni di Co2, contribuendo a migliorare la qualità dell’aria.

Chi è obbligato a installare le valvole termostatiche

La normativa italiana [2], che fa capo alla direttiva europea, prevede che tutti i condomini con impianto di riscaldamento centralizzato o con impianto di teleriscaldamento devono dotarsi entro il 30 giugno 2017 di contabilizzatori di calore e di valvole termostatiche, in modo da raggiungere un duplice obiettivo: quantificare il consumo di ogni singolo condomino e regolare la temperatura del riscaldamento in ogni singolo locale della casa per evitare degli sprechi di energia.

L’obbligo delle valvole termostatiche interessa anche chi ha un impianto di riscaldamento autonomo solo in caso di nuova costruzione e di ristrutturazione di un immobile oppure in caso di sostituzione della caldaia.

Sono esentati dall’obbligo delle valvole termostatiche coloro che:

  • si trovano tecnicamente impossibilitati alla loro installazione;
  • non traggono un beneficio economico dal risparmio energetico.

In questi casi di impossibilità tecnica o di inefficienza dell’impianto occorrerà essere in possesso di un’apposita relazione tecnica di un progettista o di un tecnico abilitato per poter giustificare l’esenzione durante un eventuale controllo.

Cosa si rischia se non si installano le valvole termostatiche

Poiché entro il 30 giugno c’è l’obbligo delle valvole termostatiche, dal 1 luglio scatteranno i primi controlli per vedere chi ha rispettato la normativa e chi ha pensato solo alle ferie. Questi ultimi sappiano, però, che il mancato adeguamento, cioè la mancata installazione dei contabilizzatori di calore e delle valvole termostatiche, comporta sanzioni dai 500 ai 2.500 euro. Meglio muoversi subito: i lavori di adeguamento degli impianti possono richiedere qualche settimana.

Quanto costano le valvole termostatiche

Il costo delle valvole termostatiche varia, a seconda del modello, da 80 a 120 euro per ogni calorifero. Tuttavia, si tratta di un intervento mirato al risparmio e all’aumento dell’efficienza energetica. Per questo motivo, la spesa per l’acquisto e l’installazione delle valvole termostatiche gode dei benefici dell’Ecobonus. Sarà, quindi, possibile usufruire della detrazione Irpef del 65%.

Nelle case in affitto, questo costo è a carico del proprietario dell’immobile, dato che si tratta di un intervento di manutenzione straordinaria.

Come funzionano le valvole termostatiche

Qualche indicazione tecnica, prima di concludere.

Posso montare le valvole termostatiche da solo o serve l’idraulico?

Chi ha le mani d’oro ed è pratico nei lavori di casa, può installare da sé le valvole termostatiche sui caloriferi: basta avere del nastro al teflon, un raccordo filettato che viene fissato alla valvola di chiusura per renderla compatibile con quella termostatica, ed una cagnetta (una pinza giratubi detta anche pappagallo).

Una volta installate non occorre accenderle: se tutto è montato a regola d’arte (chi ha qualche dubbio farà meglio a chiamare un idraulico), l’accensione avviene automaticamente quando parte l’impianto di riscaldamento.

Come si regola la temperatura?

La maggior parte dei modelli di valvole termostatiche hanno dei numeri da 0 a 5. Girando la testata della valvola (cioè la manopola su cui ci sono i numeri) si può impostare la temperatura desiderata per ogni locale.

Contrariamente a quello che si può pensare, d’estate conviene portare la valvola termostatica al massimo, cioè sul numero 5. Tanto, l’impianto centralizzato di riscaldamento sarà spento. In questo modo si eviteranno possibili depositi di sedimenti nella valvola. Una volta che l’impianto verrà riacceso l’inverno successivo, le valvole andranno di nuovo portate alla temperatura desiderata.

Il condominio può vietare le zanzariere?

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È esclusa la violazione dell’estetica del palazzo se la zanzariera è dello stesso colore delle ringhiere e degli infissi.

Quali autorizzazioni ci vogliono per montare una zanzariera su finestre e balconi in un palazzo condominiale? Nessuna. Chi intende montare una rete per proteggersi da mosche, zanzare e altri insetti può farlo in autonomia senza dover prima chiedere il permesso all’assemblea o tantomeno all’amministratore. Deve però sapere che se la zanzariera lede l’estetica della facciata il condominio ne può chiedere la rimozione. Ed è proprio questo il punto più dibattuto: quando la zanzariera si può dire contraria al cosiddetto «decoro architettonico»? Di tanto si è occupata una recente pronuncia Tribunale di Milano [1]. Il cuore della sentenza è abbastanza semplice e ricalca un precedente dello stesso foro (leggi Per installare una zanzariera ci vuole il permesso del condominio?): salvo che il regolamento disponga diversamente, quando la zanzariera è in tinta con le ringhiere ed è rimovibile non costituisce un’alterazione delle linee architettoniche dell’edificio.

Di certo, il regolamento di condominio può anche fornire una interpretazione più rigida del concetto di «estetica della facciata condominiale», finendo per vietare qualsiasi tipo di zanzariera o imponendo particolari procedure (ad esempio il previo nulla osta dell’assemblea). Ma per poter limitare il diritto di proprietà dei condomini è necessario che si tratti di un regolamento approvato all’unanimità. Solo il consenso di tutti, infatti, è in grado di vincolare le attività dei proprietari all’interno dei rispettivi appartamenti (si tratterebbe infatti non già di un veto imposto da un organo esterno, quale l’assemblea, ma di una autolimitazione). Dunque, il condominio può vietare le zanzariere solo in presenza di una apposita clausola contenuta in un regolamento approvato all’unanimità. Diversamente, la zanzariera in linea con il decoro architettonico – nella generica accezione richiamata dal codice civile [2], come insieme delle linee architettoniche caratterizzanti l’edificio – e che magari si mimetizza alla perfezione essendo dello stesso colore di infissi e grate, non può considerarsi vietata.

La zanzariera può essere vietata solo da un regolamento condominiale approvato all’unanimità

A tal proposito è bene ricordare che il regolamento può essere approvato all’unanimità in due modi diversi:

  • con votazione di tutti i condomini in assemblea (cosiddetto «regolamento assembleare»);
  • con approvazione del testo del regolamento, da parte di ciascun condomino, innanzi al notaio, all’atto dell’acquisto del proprio appartamento (cosiddetto «regolamento contrattuale»). In tale caso, sebbene in tempi differiti, si raggiunge comunque l’unanimità.

Sintetizzando, secondo la sentenza in commento, il condominio non può vietare la zanzariera se questa:

  • non viola il decoro architettonico
  • e nel regolamento approvato all’unanimità dai condomini non vi è traccia di una clausola che imponga l’osservanza di canoni estetici ben più rigorosi per la facciata dell’edificio.

In assenza di suddetta clausola, l’assemblea non può far rimuovere la zanzariera che ha caratteristiche intrinseche ed estrinseche che la connotano come un’alterazione non appariscente. Un tipo di zanzariera in linea con i colori della facciata con montanti e tendaggi discreti, che non risaltano rispetto alle ringhiere del balcone, non può ritenersi un pregiudizio estetico, specie se può facilmente essere smontata d’inverso.

Il giudice è chiamato anche a tenere conto delle caratteristiche del singolo edificio, che può essere di maggiore o minor pregio, e di accertare se vi sia un danno economico insito nell’eventuale pregiudizio estetico.

La questione è stata affrontata negli stessi termini dalla Cassazione [3] secondo cui in materia di condominio di edifici, le norme del regolamento di natura contrattuale possono prevedere limitazioni ai diritti dei condomini, nell’interesse comune, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto sulle parti di esclusiva proprietà; ne consegue che, in presenza di una clausola di detto regolamento vietante variazioni all’aspetto esterno dell’immobile, è valida la delibera condominiale che vieti ad un condomino l’installazione sul balcone di sua proprietà esclusiva di una zanzariera che, per le sue caratteristiche (nel caso, formata da telaio in alluminio installato lungo il perimetro esterno del balcone dell’appartamento) risulti immediatamente visibile dall’esterno e lesiva del decoro architettonico dell’edificio.

Quali spese condominiali sono a carico dell’inquilino

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La ripartizione delle spese ordinarie e straordinarie di condominio tra affittuario e proprietario di casa. A chi deve chiedere i soldi l’amministratore?

Quando si dà in affitto un appartamento a uso abitativo le spese condominiali restano in parte a carico del padrone di casa e in parte a carico dell’inquilino. In particolare, e sempre che il contratto di locazione non preveda diversamente, le spese di gestione straordinaria (cioè quelle relative a rinnovazioni, modifiche o sostituzione di parti, anche strutturali, dell’edificio nonché quelle relative a opere e modifiche necessarie per realizzare e/o integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici dell’immobile) sono a carico del locatore, mentre quelle di gestione ordinaria (cioè quelle necessarie a mantenere in efficienza l’immobile e per far fronte alla normale usura derivante del quotidiano utilizzo dell’appartamento) sono a carico del conduttore. Per sapere quindi quali spese condominiali sono a carico dell’inquilino bisogna effettuare due verifiche. La prima consiste nel leggere cosa prevede il contratto di affitto: se questo contiene un’esplicita elencazione di cosa debba pagare l’uno e cosa invece debba pagare l’altro, non si pone alcun dubbio e bisognerà applicare la regolamentazione stabilita dalle parti. In assenza di tale indicazione si passa alla seconda verifica che si basa sulla tipologia di spesa, se cioè ordinaria o straordinaria.

Che succede se l’inquilino non paga le spese condominiali

Prima però di indicare quali sono le spese condominiali a carico dell’inquilino è necessaria un’importante precisazione: il soggetto obbligato con il condominio resta pur sempre il locatore. È solo quest’ultimo, in caso di mancato pagamento delle spese condominiali da parte dell’affittuario, l’unico destinatario del decreto ingiuntivo notificato dall’avvocato del condominio per il recupero della morosità. Il padrone di casa si potrà tutt’al più rivalere, dopo aver pagato, contro l’inquilino intimandogli lo sfratto per morosità. Difatti le spese condominiali sono una parte dell’obbligazione del conduttore che, insieme al canone di affitto, è tenuto a versare i cosiddetti «oneri accessori». Come abbiamo spiegato in Dopo quanto ritardo scatta lo sfratto, l’affittuario può essere sfrattato se è in ritardo con il pagamento del condominio per un ammontare superiore a due mensilità di canone.

Le spese condominiali a carico dell’inquilino

Per togliere ogni dubbio in merito a quali spese condominiali sono a carico dell’inquilino possiamo riportare qui di seguito un’elencazione che specifica, nel dettaglio e sempre che non vi sia un diverso accordo tra le parti, quali oneri condominiali devono essere sostenuti dal conduttore.

Antenna televisiva

La manutenzione ordinaria è a carico dell’inquilino. Le residue spese spettano al padrone di casa.

Ascensore

Solo la manutenzione ordinaria è a carico dell’inquilino. Le residue spese spettano al padrone di casa.

Cancello

La manutenzione ordinaria è a carico dell’inquilino; la sostituzione e l’installazione di una nuova struttura a carico invece del padrone di casa.

L’inquilino deve pagare entro due mesi le spese condominiali a suo carico. Ma se non lo fa, l’amministratore notifica il decreto ingiuntivo al padrone di casa

Citofono

La manutenzione ordinaria è a carico dell’inquilino, mentre l’installazione e il rifacimento a carico del padrone di casa.

Giardino

La manutenzione ordinaria, la riparazione degli attrezzi e la sostituzione fiori spettano all’inquilino. Invece la sostituzione delle piante è a carico del padrone di casa.

Grondaie

All’inquilino spettano le spese di manutenzione ordinaria.

Illuminazione

La manutenzione ordinaria e i consumi sono a carico dell’inquilino.

Impianti

Per quanto riguarda gli impianti, iniziamo dall’impianto di riscaldamento condominiale. Qui sono a carico dell’inquilino le spese relative alla manutenzione ordinaria. C’è poi l’impianto di riscaldamento e condizionamento dell’acqua: all’inquilino spettano le spese di manutenzione ordinaria, la pulizia annuale, impianto e filtri, messa a riposo stagionale, lettura dei contatori, forza motrice, consumi di combustibile, di acqua ed energia elettrica.

Quanto all’autoclave, sono a carico dell’inquilino le spese di manutenzione ordinaria, forza motrice, ricarica pressione serbatoio, ispezioni, collaudi, lettura contatore.

Portierato

Tutte le spese relative al portiere, dal compenso, alla manutenzione della portineria, all’alloggio del portiere spettano per il 90% all’inquilino e il 10% al locatore.

Spazzatura

L’acquisto dei bidoni nuovi spetta all’affittuario.

Spurgo

L’inquilino deve pagare le spese di manutenzione ordinaria e la disotturazione dei pozzetti e condotti.

Tetto e lastrico solare

All’inquilino spettano le spese di manutenzione ordinaria.

Vetri

Se si rompe un vetro, le spese di sostituzione sono a carico dell’inquilino.

Come deve avvenire il pagamento delle spese di condominio?

L’inquilino deve provvedere al pagamento delle spese di condominio entro non oltre due mesi dalla richiesta. Prima di effettuare il pagamento l’inquilino ha diritto di ottenere l’indicazione specifica delle spese di cui ai commi precedenti con la menzione dei criteri di ripartizione. Il conduttore ha inoltre diritto di prendere visione dei documenti giustificativi delle spese effettuate. Gli oneri di cui al primo comma addebitati dal locatore al conduttore devono intendersi corrispettivi di prestazioni accessorie a quella di locazione.

Incendio in appartamento in locazione: conduttore responsabile

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Se divampa un incendio un appartamento in locazione, dei danni risponde il conduttore a meno che non provi che la colpa di quanto successo non è sua.

 

Appartamento in affitto: scoppia un incendio che ne distrugge buona parte. Su chi ricade la responsabilità? Chi risarcisce i danni? La legge dice che il conduttore deve usare l’immobile secondo quanto stabilito nel contratto in modo diligente e restituirlo al locatore al termine del contratto nel medesimo stato in cui l’ha ricevuto, fatto salvo il deterioramento derivante dall’uso del bene conforme a quello pattuito. Conseguenza è che l’inquilino è sempre responsabile per i danni ad esso procurati, o meglio “si presume” che sia responsabile, salvo la prova contraria [1]. Ciò in quanto è il conduttore ad avere la custodia ed il potere di vigilanza del bene. Lo stabilisce il Tribunale di Firenze [2]. Dunque, per i danni causati da un incendio in un appartamento in locazione è responsabile il conduttore.

Vediamo di capire meglio, esaminando il contenuto della sentenza il questione.

La responsabilità dell’inquilino è presunta

Locazione: chi risarcisce i danni provocati da un incendio?

Il codice civile stabilisce, in generale, che il conduttore è tenuto a risarcire i danni per la perdita e il deterioramento dell’immobile: è ciò vale anche se questi danni derivano da un incendio appiccato da terzi. L’unico modo per evitare di dover risarcire è dimostrare che il danno non sia a lui imputabile: cioè, che non si è verificato per colpa sua. In pratica, il conduttore dovrà provare che ha rispettato tutti gli obblighi di custodia a suo carico con la massima diligenza che può richiedersi in relazione al caso concreto; ad esempio potrà provare di aver fatto controllare secondo le scadenze previste l’impianto antincendio (magari esibendo la ricevuta della ditta che ha effettuato il controllo) oppure di aver sostituito un componente dello scaldino difettoso.

Locazione: come fare a liberarsi dalla responsabilità?

E se, ad esempio, l’inquilino dice che, nel giorno in cui è divampato il rogo, egli non era presente in casa ma c’era un amico, suo ospite? Non ha nessuna importanza. Non potrà, comunque, dargli la colpa perché è lui che deve sorvegliare e impedire che terzi (l’amico in questo caso) danneggino l’appartamento. Se anche l’incendio fosse stato effettivamente causato dall’amico – che, magari, ha dimenticato acceso il fornello della cucina o, volontariamente, ha dato fuoco alla casa – non basterà provare questi aspetti. Il conduttore dovrà dimostrare di aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per evitare la condotta illecita dell’amico e la propagazione delle fiamme.

Spese condominiali: come capire la parte del singolo condomino?

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Mi è arrivato un preventivo per lavori straordinari della facciata del condominio, in cui si indica solo il totale della spesa. Come calcolare la spesa di mia competenza?

Nel caso prospettato trova applicazione la norma del codice civile che regola la ripartizione delle spese per la conservazione delle cose comuni dell’edificio [1]. Le spese riguardanti le parti comuni vanno ripartite secondo le tabelle millesimali generali e non v’è dubbio che, tra le cose comuni, rientrano le facciate.

La peculiarità della situazione prospettata dalla lettrice è che le spese che i condomini vanno ad affrontare riguardano sia parti comuni, che parti rientranti nel godimento personale dei proprietari delle singole unità immobiliari. E, se è fuor di dubbio che debbano essere considerate comuni le spese che riguardano la tinteggiatura della facciata ed il mordente sullo spiovente del tetto, ciò che appare particolarmente pertinente al caso prospettato è che se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne. A questo proposito la giurisprudenza si è sbizzarrita ad individuare soluzioni diverse poiché diverse sono le realtà alle quali le norme del codice vanno applicate. Una sentenza della Corte di Cassazione riguarda la pannellatura e i balconi in una situazione che riprende le caratteristiche dell’edificio della lettrice, in cui l’effetto estetico complessivo deriva dalla particolare tinteggiatura dei parapetti e dall’impatto estetico del tetto: non ci sono dubbi che tutte le spese che riguardano queste parti dell’edificio si debbano ripartire secondo le tabelle millesimali generali [2].

Altra cosa è da dire per i balconi, perché l’interno di essi costituisce un prolungamento delle singole unità immobiliari e rientra nel godimento esclusivo dei relativi proprietari. Pur facendo parte della facciata, assolvono ad un duplice funzione: l’una di protezione verso l’esterno della singola unità e di riparo dagli agenti atmosferici; l’altra di abbellimento della facciata del fabbricato. La Corte di Cassazione ha stabilito, a tale proposito, che i balconi, costituendo un “prolungamento” della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa; soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore si debbono considerare beni comuni a tutti, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.

La norma del codice di cui ci stiamo occupando, quindi, trova applicazione nel caso della lettrice. Di guisa che i condomini sono obbligati a contribuire alla spesa di riparazione non in ragione millesimale, bensì in relazione alla utilità che la cosa comune, per il suo modo di essere, sia obiettivamente destinata ad arrecare a ciascuna delle proprietà esclusive. La spesa potrebbe gravare indistintamente su tutti i partecipanti alla comunione solo se la cosa comune, in relazione alla sua consistenza ed alla sua funzione, fosse destinata a servire ugualmente ed indiscriminatamente i diversi piani o le singole proprietà [3]. Il balcone, in definitiva, è considerato elemento accidentale della struttura del fabbricato in quanto, non avendo funzione portante rispetto ad esso non può essere destinato all’uso comune, ma è solo finalizzato al godimento esclusivo da parte del proprietario dell’appartamento dal quale ad esso si accede e del quale costituisce pertinenza e naturale prolungamento. Ne consegue che le opere di manutenzione sono a totale carico del proprietario dell’unità immobiliare dalla quale si accede al balcone. Solo se il balcone è strutturato con elementi accessori aventi una finalità meramente decorativa che concorrono insieme alla facciata a conferire allo stabile, attraverso l’armonia e l’unità di linee e di stile, quel decoro architettonico che costituisce bene comune dell’edificio, si ritiene che, con riferimento agli elementi decorativi, le spese debbono essere ripartite fra tutti i condomini in quanto, essendo parte integrante della facciata, rientrano nel novero dei beni comuni. In particolare, il rivestimento dei parapetti può essere considerato bene comune solo se svolge una prevalente funzione estetica per l’edificio divenendo, conseguentemente, elemento decorativo ed essenziale della facciata. Solo in questo caso può essere configurato quale bene comune, con la conseguenza che alla loro manutenzione è interessata la collettività dei condomini [4].

Nel caso in esame, in definitiva, i balconi sono utilizzati in modo esclusivo dai proprietari degli appartamenti. Gli interventi da eseguire (tinteggiatura) riguardano l’aspetto estetico dell’edificio e non anche la sua struttura: il proprietario di ciascun balcone sarà tenuto a eseguire la manutenzione necessaria per conservarli e per porre rimedio alle conseguenze che l’uso esclusivo provoca con il decorso del tempo.

Alla prossima riunione assembleare, la lettrice dovrà chiedere all’amministratore del condominio che venga mostrato ed approvato il computo metrico dei lavori. Nell’ambito degli stessi si dovranno scorporare le spese riguardanti i frontalini ed il tetto, e quelle riguardanti l’interno dei balconi; si ripartiranno le spese mettendole a carico di tutto il condominio per quanto riguarda il tetto e l’esterno dei balconi, mentre si dovranno porre a carico di ciascun proprietario quelle concernenti l’interno.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Vincenzo Rizza


Affitto: chi deve pagare il compenso all’agenzia immobiliare?

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A chi spetta pagare il compenso per l’agente immobiliare quando si affitta un appartamento?

La risposta alla domanda dipende dalle clausole contenute nel modulo che l’agenzia immobiliare farà sottoscrivere al lettore. Se, infatti, sarà lui a recarsi dall’agenzia per affidare loro l’incarico di reperire un conduttore oppure di reperire un appartamento da condurre in affitto, è possibile (ma tutto dipenderà dalle specifiche clausole che gli faranno sottoscrivere) che sia precisamente indicato sia l’ammontare del compenso da riconoscere all’agenzia, sia che obbligato al pagamento è soltanto il soggetto che ha conferito il mandato all’agenzia sottoscrivendo il modulo di incarico. D’altra parte, le sentenze dei giudici di merito e della Corte di Cassazione che si sono occupate di questo tema negli ultimi anni [1] hanno specificato che quando il mediatore venga inizialmente incaricato da una sola parte allo scopo di concludere un affare (vendere o affittare un immobile oppure comprare o prendere in affitto un immobile) la disciplina applicabile non è quella del contatto di mediazione, ma è quella del contratto di mandato che prevede che il diritto al compenso (o provvigione) per il mediatore (cioè per l’agenzia) resti a carico soltanto del mandante e cioè della persona che si è recata presso l’agenzia immobiliare e ha sottoscritto il modulo per conferire l’incarico. Pertanto, nel caso del lettore, se sarà lui a recarsi per primo in agenzia per dare incarico di reperire un immobile da condurre in affitto oppure per reperire un conduttore per il suo appartamento, dovrà innanzitutto verificare cosa sia previsto nel modulo che gli faranno sottoscrivere. È possibile che in questo modulo sia specificamente inserita la clausola che pone a suo totale carico la provvigione (o compenso) spettante all’agenzia (con indicazione anche dell’importo dovuto o delle modalità per calcolarlo e delle modalità di pagamento). E questa clausola, se presente, sarà anche una conferma che il contratto concluso con l’agenzia sarà in effetti un contratto di mandato (che obbliga solo il mandante a pagare la provvigione) e non un contratto di mediazione.

Si tenga presente, comunque, che anche nel caso in cui l’agenzia immobiliare dovesse agire non in base ad un incarico iniziale di una sola delle parti, ma dovesse mettere in contatto locatore e conduttore (senza un preventivo incarico di nessuno dei due soggetti), per stabilire a carico di chi sia la provvigione e/o in quale percentuale essa debba essere ripartita tra le due parti (locatore e affittuario), il lettore dovrà sempre fare riferimento agli accordi raggiunti con l’agenzia (contenuti nel modulo sottoscritto).

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte

Abuso edilizio: se eredito il terreno cosa rischio?

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Nel 1988 mio nonno acquistò un terreno agricolo su cui costruì dei depositi abusivi accatastati nel 2010. Cosa rischio io se lo eredito?

L’abuso edilizio integra un illecito contravvenzionale punito sia con la pena detentiva che con quella pecuniaria. Più in particolare, la legge punisce la condotta consistente nel realizzare un intervento edilizio in totale assenza del titolo legittimante la costruzione [1]. Sono previste tre diverse ipotesi stabilendo rispettivamente:

  • l’ammenda fino a 10.329 euro per l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalla legge, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire;
  • l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5.164 euro a 51.645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione;
  • l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 euro a 51.645 euro nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso.

La condotta posta in essere dal nonno del lettore potrebbe rientrare verosimilmente nella seconda ipotesi; ma nulla esclude che la stessa condotta possa rientrare nell’ipotesi punita con la pena più grave, cioè la terza, stante il suo riferimento all’esistenza di un possibile vincolo paesistico insistente sul terreno. Mentre non ci sono gli estremi per la configurazione del reato di lottizzazione abusiva.

Qualora il lettore accettasse l’eredità del nonno ed in questa fosse compreso il terreno descritto, ne diventerebbe il proprietario con la conseguenza che risponderebbe in prima persona del reato di abuso edilizio qualora esso dovesse essere rilevato dalle autorità competenti. Il reato in esame integra un’ipotesi di illecito contravvenzionale che, sotto il profilo della prescrizione, si estingue in 4 anni qualora non vi siano stati atti interruttivi del decorso del tempo o in 5 anni in presenza di uno degli atti interruttivi. Al fine di stabilire il momento a partire dal quale inizia a decorrere il termine di prescrizione è necessario avere riguardo al momento in cui si ha l’effettiva cessazione dei lavori. Tuttavia è bene fare una precisazione: il reato si considera commesso nel momento in cui viene accertato da parte dell’autorità competente ed è da quel momento che inizia a decorrere il termine per la prescrizione dello stesso, a meno che non si riesca a dimostrare che la condotta illecita è stata realizzata in un momento diverso e che quindi il termine prescrizionale è già decorso. Ad esempio, qualora il lettore erediti il terreno e successivamente venga accertata la presenza di costruzioni abusive sul suo terreno, è da quel momento che inizierà a decorrere il termine di prescrizione del reato con la conseguenza che egli ne risponderà penalmente. L’unico modo per andare esente dalla responsabilità penale è dimostrare che il manufatto è stato realizzato molto tempo addietro e che il termine di prescrizione è già decorso. La prova può essere fornita mediante una perizia che attesti la vetustà della costruzione o mediante il ricorso a testimoni che possano dimostrare che l’ultimazione dei lavori risale a molti anni prima e che quindi il reato si è prescritto. È necessario, tuttavia, rilevare che la condotta in esame integra non solo un reato ma anche un illecito amministrativo. La giurisprudenza assolutamente prevalente ritiene che il potere della Pubblica Amministrazione di reprimere le condotte illecite in materia di urbanistica ed edilizia non soggiace né a termini di prescrizione né a termini di decadenza. La logica conseguenza è che, una volta accertata la condotta illecita, l’autorità competente potrà irrogare la sanzione consistente nell’ordine di demolizione dell’immobile a spese del responsabile a prescindere dalla sopravvenuta prescrizionede del reato. Tuttavia, qualora sia trascorso un notevole periodo di tempo dal momento in cui il reato è stato commesso a quello in cui esso viene accertato, la Pa non potrà emettere il provvedimento di demolizione in modo automatico ma dovrà tenere in debita considerazione, indicandole espressamente, sia le ragioni di interesse pubblico che giustificano la demolizione del fabbricato sia gli interessi privati nel frattempo maturati. In altre parole, qualora non si ravvisino interessi pubblici di particolare rilievo che legittimino il provvedimento di demolizione, il decorso del lungo periodo di tempo potrebbe legittimare l’applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione. Infatti, qualora la Pa dovesse ritenere non necessario procedere con l’ordine di demolizione, disporrebbe in alternativa il pagamento di una sanzione pecuniaria. Tuttavia, il possibile esito del procedimento amministrativo non può essere previsto in questa sede poiché esso integra una valutazione che, da un lato, è rimessa alla discrezionalità dell’ente pubblico e, dall’altro lato, richiede la conoscenza di elementi ulteriori come, ad esempio, l’esistenza o meno del vincolo paesistico.

Quanto alla possibilità che, a seguito della pronuncia della sentenza che accerta il reato, venga disposta la misura della confisca, ebbene ciò dipende dal capo d’imputazione che il pubblico ministero deciderà di contestare. In altre parole, qualora la condotta contestata dovesse farsi rientrare nella lettera b), non verrà disposta la misura della confisca; qualora, invece, dovesse essere contestata l’ipotesi di cui alla lettera c), la misura della confisca verrà disposta automaticamente dal giudice al momento della pronuncia della sentenza.

Il responsabile dell’abuso o l’attuale proprietario dell’immobile possono ottenere un permesso in sanatoria. A tal fine è necessario presentare apposita istanza all’ufficio comunale competente. Tuttavia è importante sottolineare che il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato a due presupposti:

  1. che la costruzione edilizia risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda;
  2. che il responsabile effettui il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia. Il dirigente o il responsabile dell’ufficio comunale competente dovrà pronunciarsi entro 60 giorni dalla presentazione dell’istanza e, nel caso di rigetto, sarà possibile impugnare il provvedimento innanzi al giudice amministrativo. Poiché mediante la presentazione della richiesta del permesso in sanatoria si denuncia l’esistenza di una costruzione abusiva, è bene che la richiesta (che deve essere redatta secondo la normativa vigente) sia redatta da un tecnico (ad esempio, un geometra o un ingegnere) il quale riporterà nel documento la data in cui i lavori sono stati eseguiti e l’autore dei lavori medesimi (ciò anche a fini di tutela sotto il profilo penale). È inoltre necessario reperire sia il certificato di destinazione del terreno sia il certificato dei vincoli gravanti sull’area al fine di poter valutare con maggiore precisione la condotta posta in essere dal nonno: entrambi i certificati possono essere richiesti presso l’ufficio competente per l’area urbanistica del luogo in cui si trova il terreno.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Giovanna Pangallo

Quando decade un vincolo di edificabilità?

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Abbiamo ereditato una villetta con giardino e vogliamo ricavarci 4 appartamenti. Abbiamo scoperto un vincolo di edificabilità. Su cosa basarsi per indurre il Comune a considerarlo decaduto?

L’istituto dell’asservimento, consistente nella volontaria rinuncia alle possibilità edificatorie di un lotto in favore del loro sfruttamento in un’altra particella, serve ad accrescere la potenzialità edilizia di un’area per mezzo dell’utilizzo, in essa, della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest’ultima, ai fini della verifica del rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria. Il presupposto logico dell’asservimento deve essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia, della materiale collocazione dei fabbricati, risultando del tutto neutra l’ubicazione degli edifici all’interno del comparto, fatti salvi, ovviamente, il rispetto delle distanze e di eventuali prescrizioni sulla superficie minima dei lotti [1].

Il regolamento edilizio del Comune della lettrice precede che in tutti i casi in cui si proceda ad interventi edilizi che incidono sui parametri di edificabilità (nuova costruzione, ampliamento o demolizione e successiva ricostruzione), le aree fondiarie di pertinenza devono essere assoggettate a specifico vincolo di asservimento agli indici di utilizzazione edilizia, applicabili al momento della concretizzazione dell’efficacia del relativo procedimento. Il vincolo di asservimento permane con il permanere degli edifici, anche se oggetto di un frazionamento ovvero di una alienazione, anche parziale, dell’area. L’area asservita ai fini del calcolo della edificabilità consentita non può essere considerata libera ai fini di un successivo atto abilitativo all’esercizio dell’attività edilizia. Il vincolo di asservimento viene costituito mediante atto unilaterale registrato e trascritto con atto notarile o nelle forme equipollenti di legge, concernente lo sfruttamento edilizio dell’area oggetto dell’intervento, da sottoscrivere e trasmettere allo sportello unico contestualmente al certificato di ultimazione dei lavori o di collaudo in caso di dia e da trascriversi sui registri immobiliari a cura e spese del proprietario o degli eventuali aventi titolo. L’atto deve indicare gli estremi catastali dell’area base di calcolo della edificabilità, la sua estensione espressa in metri quadrati, la superficie lorda di pavimento utilizzata, il relativo indice di Prg riferito all’intera area fondiaria di pertinenza.

L’atto di asservimento sottoscritto dai genitori della lettrice al momento del rilascio del permesso di costruire prevede che essi si impegnavano, per sé, successori ed aventi causa, a conservare nel tempo la totale inedificabilità dell’area annessa al costruendo fabbricato destinata al servizio dell’edificio medesimo. Vi è stata una rinuncia chiara alle eventuali ulteriori potenzialità edificatorie del suolo asservito che non consente speculazioni di sorta. Normalmente, infatti, si vincola solo una parte della volumetria e cioè quella necessaria per raggiungere gli indici minimi sufficienti a consentire la realizzazione nel lotto beneficiario dell’asservimento. Ciò che, invece, non è avvenuto nel caso della lettrice, probabilmente per esigenze urbanistiche non collegate agli indici di edificabilità: si sarebbe, infatti, vincolata una volumetria non necessaria asservendo la superficie intera dei lotti contigui. Unica alternativa (che potrebbe apparire paradossale, ma che si potrebbe al limite valutare) sarebbe di demolire il vecchio fabbricato proponendo un nuovo progetto edificatorio con utilizzo per intero delle attuali potenzialità volumetriche dell’intera superficie. Si tratterebbe di un calcolo economico di convenienza che si potrebbe tenere in considerazione.

La superiore considerazione discende dall’analisi del regolamento edilizio comunale che prevede che il vincolo di asservimento permane con il permanere degli edifici. Alias: viene meno con il venir meno degli edifici, cioè con la loro demolizione. Sostenere, in contrario, che l’asservimento operato nel 1974 sarebbe condizionato al permanere delle identiche condizioni urbanistiche e che la loro variazione implicherebbe il venir meno del relativo obbligo, è strada non facile. Ovviamente, nulla è impossibile da sostenere. Il problema è di trovare motivazioni valide e credibili. A prima vista, si potrebbe far riferimento a quella giurisprudenza che considera l’asservimento come la costituzione di una servitù “elastica” condizionata alle normative vigenti. In grado, cioè, di espandersi con l’ampliamento delle possibilità edificatorie. In questo caso andrebbe presentato un progetto di ampliamento o di ristrutturazione; andrebbe, se necessario, allegato un parere legale e, in caso di diniego, avviato un procedimento di impugnazione avanti al Tar. Il tutto in stretta connessione tra professionalità tecniche e professionalità giuridiche che dovrebbero operare di concerto.

In conclusione, la risposta al quesito, e cioè se si possa concretamente ritenere che a prescindere dalla rinuncia contenuta nell’atto di asservimento, possa concretamente chiedersi di utilizzare tutta la volumetria disponibile attualmente sembra negativa. Si potrebbe tentare, forzando le interpretazioni possibili delle norme urbanistiche, di chiedere provvedimenti amministrativi di assenso ad ampliamenti volumetrici, ma il risultato non è né facile, né garantito. La strada della demolizione per la successiva ricostruzione con utilizzo di tutta la volumetria disponibile, è una delle strade possibili, ma deve essere preventivamente valutata la sua convenienza economica.

 

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Vincenzo Rizza

Quali rumori sono vietati in condominio?

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Quando scatta il reato di disturbo delle persone, quando invece il solo risarcimento del danno e quando infine i rumori sono consentiti: il caso del cane che abbaia, il locale sotto casa, lo stereo, la tv, le pulizie, ecc.

Schiamazzi di vicini maleducati o poco sensibili: esistono dei rumori vietati in condominio e altri invece tollerati o da tollerare? Può sembrare paradossale che una materia così delicata e che genera così tanto contenzioso nei palazzi quale appunto quella dei rumori del vicino è disciplinata da un solo articolo del codice civile [1]: una norma peraltro particolarmente generica, che lascia libero spazio all’interpretazione del giudice. Tale disposizione stabilisce genericamente che il proprietario di un immobile non può impedire i rumori del vicino «se non superano la normale tollerabilità, avuto riguardo anche alle condizioni dei luoghi». Questo significa che non esistono rumori vietati in condominio e altri invece consentiti;  ciò che conta è l’intensità degli stessi, rapportata alle condizioni concrete in cui essi si inseriscono. Questo significa che lo stesso rumore può generare fastidio e risultare intollerabile nelle ore notturne (si pensi al volume della televisione) e non  essere neanche avvertito nelle ore invece diurne; può essere considerato intollerabile in una zona residenziale o di campagna e, invece, pienamente lecito nel centro cittadino, caratterizzato da un’elevata soglia di rumore di fondo (generata dal traffico o dal vociare dei passanti). Insomma, mai come con i rumori in condominio si deve procedere in modo «casistico», ossia valutando la singola ipotesi. Ed è quello che faremo nel corso del presente articolo.

Fare le pulizie alle sei di mattino può costare un’incriminazione penale

Rumori in condominio: quale tutela?

Prima però di dire quali rumori sono vietati in condominio, dobbiamo fare una precisazione fondamentale in ordine alla tutela. Il vicino danneggiato può tutelarsi in due modi:

  • o con una denuncia alle autorità (carabinieri, polizia, Procura della Repubblica) per il reato di «disturbo del riposo delle persone»
  • oppure con una azione civile per il risarcimento del danno.

Se si sceglie la via penale si è sempre in tempo per chiedere anche il risarcimento.

Ma quando è possibile parlare di reato e quando, invece, siamo nell’ambito dell’illecito civile con conseguente impossibilità di procedere per le vie penali? Tutto dipende non già dall’intensità del rumore – che in entrambi i casi deve essere «intollerabile» per agire – ma dal numero di soggetti molestati. In particolare, se il rumore viene percepito solo da pochi condomini (ad esempio quello del piano di sopra, di sotto e il dirimpettaio) restiamo nell’ambito del civile e non si può procedere alla denuncia, né si possono chiamare i carabinieri nel cuore della notte. Viceversa, se il rumore disturba un numero indeterminato di persone, come ad esempio una parte consistente dei condomini dello stabile o quelli del quartiere, scatta il reato e, quindi, il procedimento penale.

Rumori in condominio: quali sono vietati e quali invece no

Individuiamo ora, sulla scorta delle ultime sentenze della giurisprudenza, quali rumori sono vietati in condominio. Come si è appena detto, siamo in presenza di una norma generica, per cui l’unico modo per rendere pratico il suo contenuto è andare a leggere cosa hanno scritto sino ad ora i giudici. Le sentenze hanno definito, caso per caso, qual è la soglia tollerabile e la tutela riconosciuta al vicino di casa molestato.

Rumori: c’è reato solo se si disturbano tante persone

Rumore di biglie

La prima sentenza che commentiamo è anche l’ultima in ordine cronologico. La Cassazione, qualche giorno fa [2], ha detto che il rumore di biglie dal piano di sopra, pur da considerare intollerabile – specie nelle ore notturne – non può far scattare il reato di «disturbo del riposo delle persone» [3]. La ragione è molto semplice: proprio perché sparse sul pavimento, le biglie generano un rumore percepibile solo per chi vive al piano di sotto e non anche per gli altri condomini. Insomma, l’intensità del rumore generato dalle biglie che rotolano non è un crimine, ma consente comunque di chiedere il risarcimento del danno.

La televisione

Il televisore ad alto volume integra il reato del «disturbo del riposo delle persone», norma che punisce chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309. Occorre però, secondo la Cassazione [4], che la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma la tranquillità di un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne lamenta e sporge denuncia. Per far scattare il reato può essere sufficiente anche un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone. Nel caso concreto, il giudice di merito ha fondato la responsabilità penale del condòmino sulla scorta dell’intervento effettuato dai Carabinieri che, intervenuti nottetempo, hanno avuto la percezione di «un forte rumore causato dall’audio della televisione, così alto che dalla strada si distinguevano chiaramente le parole pronunciate nel programma tv». Il giudice può valutare la responsabilità del molestatore anche solo sulla base della testimonianza dei vicini.

Il locale sottoscala 

Il gestore di un discopub, una discoteca o di qualsiasi altro luogo di ritrovo è responsabile penalmente degli schiamazzi dei clienti rimasti fuori dal locale, sulla strada. Egli deve rispondere del reato di disturbo del riposo delle persone per il chiasso generato non solo all’interno, ma anche all’esterno dell’esercizio commerciale, in quanto suscettibile di molestare un numero indeterminato di persone. L’unico modo per il gestore di esonerarsi dalla responsabilità è di dimostrare di aver fatto di tutto per evitare gli schiamazzi tramite avvisi del personale oppure appositi cartelli diretti ai clienti. Consentire ai propri clienti di disturbare l’occupazione o il riposo delle persone può costituire reato [5] del quale il gestore di un locale è spesso ritenuto responsabile per il solo fatto che gli schiamazzi notturni sono direttamente legati all’esistenza del locale stesso. È dunque punibile per disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dai clienti in sosta davanti al locale, essendo a lui imposto l’obbligo giuridico di controllare «anche con ricorso alle autorità» che la presenza nel locale non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica.

Lo stereo dell’autoradio

Lo stereo dell’autoradio, lasciato dal proprietario del mezzo ad alto volume, nel cuore della notte, è reato. La pratica del cosiddetto «car tuning» è stata espressamente sanzionata dalla Cassazione con recenti sentenze [6]. Leggi sul punto Tuning: alzare lo stereo a palla è reato.

La pizzeria al piano terra

Anche il gestore di una pizzeria è un condomino, nonostante il locale sia al piano terra dell’edificio. Questo significa che se il chiasso dei clienti supera la normale tollerabilità, il gestore del locale risponde del reato di disturbo del riposo delle persone. È quanto chiarito qualche giorno fa dalla Cassazione [7]. La Corte ha così confermato la pena dell’ammenda comminata al titolare di una pizzeria per non aver impedito schiamazzi e rumori da parte dei clienti, anche con abuso degli strumenti di diffusione di musica presenti nel locale, con disturbo degli abitanti del medesimo edificio e di quelli prossimi.

Anche nel caso di attività di commercio o di ristorazione svolte in ambito condominiale è pacifico che la produzione di rumori fa scattare il reato se idonea a turbare la quiete non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante ma di una parte più consistente dei condomini.

Il cane del vicino

Il capitolo «cane» è tra quelli più delicati: da un lato perché la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto del cane ad abbaiare, dall’altro però ciò non deve essere determinato dalla condotta del padrone, per aver lasciato solo l’animale o senza mangiare o per averlo innervosito. Una guida completa sull’argomento si può leggere in Se il cane del vicino abbaia e fa rumore. Addirittura di recente, la Cassazione ha detto che, laddove il proprietario sia costretto a lasciare solo l’animale per numerose ore al giorno, a causa dei propri impegni lavorativi, sussistendo il pericolo di reiterazione del reato di disturbo della quiete pubblica, si può chiedere il sequestro del cane del vicino che non ne vuol sapere di smettere di abbaiare e dare fastidio agli altri condomini [8].

Anche in questo caso, se il latrato del cane dà fastidio a un numero indeterminato di persone scatta il reato, altrimenti siamo nell’orbita della tutela civile. E a riguardo non si può fare a meno di distinguere a seconda di dove l’animale viene lasciato: se in una cuccia del giardino o in un cortile è più facile che il suo abbaiare venga percepito da più soggetti (il che fa scattare il penale); se invece dentro l’appartamento e si tratta di semplici guaiti (magari per via della dimensione dell’animale) si può chiedere tutt’al più l’insonorizzazione dell’appartamento e il risarcimento.

Se il padrone sta sempre fuori casa e lascia il cane solo ad abbaiare, le autorità procedono al sequestro dell’animale

Fare le pulizie

L’aspirapolvere e il rumore dello sbattere i tappeti è un rumore consentito in condominio o no? Tutto dipende da che ora iniziano le pulizie di casa. Secondo la Cassazione si può anche parlare di reato se i lavori domestici iniziano alle sei di mattina e gli schiamazzi vengono avvertiti da tutti i vicini [9].

Stereo alto

Se il rumore viene generato dal figlio del proprietario dell’appartamento per aver lasciato lo stereo alto, di sicuro scatta il risarcimento del danno cui dovranno provvedere i genitori. Ma attenzione: secondo la Cassazione [10], quando il volume della musica è così alto da essere sentito da gran parte dei condomini, così facendo scattare il “penale”, del reato rispondono anche i genitori del giovane. La responsabilità scatta perché non hanno saputo impartire al figlio una corretta educazione, rispettosa dei diritti altrui. Leggi sul punto Stereo alto, padre responsabile per il figlio.

Da che ora si può fare rumore in condominio?

Esiste un orario in cui è vietato fare rumore in condominio? Non lo dice la legge, ma può specificarlo il regolamento di condominio, stabilendo una soglia dei rumori più rigida di quella del codice civile (la normale tollerabilità). Ad esempio il regolamento potrebbe dire che, dalle 11 alle 6, è vietato qualsiasi rumore, con ciò abbassando il concetto di «normale tollerabilità» previsto dalla legge. In ogni caso, si ritiene che i rumori o i suoni provenienti da altre unità immobiliari si possano considerare di disturbo delle normali attività materiali e intellettuali quando superano il rumore di fondo riscontrabile in una data abitazione di oltre tre decibel [11].

Come dividere una casa in comunione tra eredi

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La divisione dell’immobile in comunione ereditaria: il contratto di divisione e il procedimento in tribunale, previa mediazione.

Quando il proprietario di un immobile (una casa, un terreno, ecc.) muore e lascia più eredi, il bene passa in proprietà di questi ultimi secondo le rispettive quote. Ciascun coerede non ottiene quindi la proprietà di una specifica sezione dell’immobile, ma solo una quota ideale sull’intero bene. Ad esempio, in caso di tre fratelli, eredi al 33% della casa padre, ciascuno di essi è proprietario di un terzo dell’intera casa ereditata. Questa situazione si chiama «comunione ereditaria» e rimane tale fino a quando non avviene la divisione della comunione tra i coeredi. Con la divisione, la proprietà dei coeredi passa da quote a singole porzioni della casa. Ciò però solo se è possibile dividere in natura l’immobile (si pensi a un villino che può essere scomposto in tre distinte unità immobiliari).

Se invece la casa in comunione non si può dividere in natura, gli eredi possono mettersi d’accordo tra loro d’accordo sull’assegnazione del bene a uno solo di questi con liquidazione in denaro delle rispettive quote agli altri eredi. Ad esempio, si stabilisce che la casa vada al primo genito il quale però pagherà ai due fratelli il 33% ciascuno del valore di mercato dell’immobile. Se, infine, non si riesce a trovare l’intesa sull’assegnazione, il bene dovrà essere venduto (eventualmente con l’assistenza del tribunale) e il ricavato verrà diviso tra i coeredi secondo le quote ereditarie. Ma procediamo con ordine e vediamo come dividere una casa in comunione tra eredi.

La divisione della casa

Quando la casa passa in comunione ereditaria, ciascun coerede può proporre agli altri la divisione del bene mediante un accordo. Si tratta di un vero e proprio contratto che ha l’effetto di sciogliere la divisione ereditaria, con cui i coeredi decidono:

  • se il bene è facilmente divisibile: di attribuirsi ciascuno una porzione corrispondente al valore della propria quota di eredità;
  • se il bene non è facilmente divisibile: vendendo lo stesso e dividendo il ricavato oppure assegnando l’intero immobile a uno degli eredi con pagamento, da parte di questi, delle quote degli altri coeredi in denaro. Per tornare all’esempio precedente, se l’immobile vale 100mila euro e uno dei tre fratelli, col consenso degli altri, se ne attribuisce l’intera proprietà, questi dovrà versare agli altri due rispettivamente 33mila euro a testa.

Il contratto che ha ad oggetto beni immobili o altri diritti reali immobiliari deve avere forma scritta, essere autenticato da un notaio e trascritto.

Se però gli eredi non riescono a trovare un accordo, ciascuno di essi può presentare un ricorso al tribunale affinché sia il giudice a procedere alla divisione ereditaria.

Che significa «facile divisibilità»?

La «facile divisibilità» richiede che l’immobile possa essere diviso in più parti – da assegnare ai coeredi – ognuna suscettibile di libero e autonomo godimento, senza affrontare spese eccessive per il frazionamento e senza che a tale operazione consegua una diminuzione del valore delle singole quote rispetto all’intero.

Il tentativo di mediazione

Prima però di avviare la causa in tribunale per dividere la casa in comunione tra i coeredi è necessario il cosiddetto tentativo di mediazione. In pratica chi intende iniziare il giudizio deve invitare i coeredi a presentarsi presso un organismo di mediazione situato nel luogo del tribunale competente. Scopo di tale procedura – che avviene in presenza di un mediatore, terzo e imparziale rispetto alle parti – è di trovare un accordo bonario tra i coeredi, accordo che possa evitare il giudizio. Senza tale tentativo la causa non può avere inizio. Di conseguenza, nel caso in cui la richiesta di mediazione e la fissazione del primo incontro non siano state comunicate a tutti i coeredi, il giudice assegna 15 giorni di tempo affinché la parte richiedente proponga il procedimento di mediazione nei confronti di tutti i compartecipanti.

Al primo incontro, dopo avere illustrato i princìpi della mediazione e lo scopo che si prefigge di raggiungere, il “conciliatore” invita le parti a esprimersi sulla volontà di continuare la mediazione stessa e, in caso positivo, inizia con loro un percorso che si concluderà (così come quello del giudice) con un progetto divisionale della comunione; avvalendosi, se necessario, anche dell’aiuto di un tecnico.

L’eventuale accordo ha il valore di una sentenza e può essere trascritto nei registri immobiliari.

Esperito invano il tentativo di mediazione, la domanda giudiziale di divisione va proposta con atto di citazione nei confronti di tutti gli eredi.

Il ricorso in tribunale per la divisione della casa in eredità

La domanda per ottenere dal giudice la divisione della casa in comunione tra gli eredi si propone innanzi al Tribunale del luogo in cui si è aperta la successione, ossia nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto. Al giudizio devono partecipare tutti coloro che sono parte della comunione al momento in cui è presentata la domanda.

A presentare l’istanza può essere un singolo erede oppure anche tutti in via congiunta. Si può richiedersi la nomina di un avvocato o un notaio autorizzato a svolgere tutti gli adempimenti necessari alla vendita dell’immobile.

Il professionista incaricato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull’immobile, nel termine assegnato nel decreto di nomina predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili e dà avviso alle parti e agli altri interessati del progetto o della vendita: in questo modo esse possano ricorrere al tribunale per opporsi a tale vendita o per contestare il progetto di divisione.

Alla vendita dei beni si applica, in quanto compatibile, la disciplina relativa al professionista delegato previste dal codice per l’espropriazione immobiliare. Entro 30 giorni dal versamento del prezzo il professionista incaricato predispone il progetto di divisione e ne dà avviso alle parti e agli altri interessati.

La prelazione degli eredi

Se uno dei coeredi intende vendere la propria quota di eredità, agli altri coeredi spetta il diritto di prelazione; pertanto chi vuole alienare a un estraneo la sua quota o parte di essa, deve prima notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri coeredi.

I coeredi possono esercitare il diritto di prelazione nel termine di due mesi dall’ultima delle notificazioni.

In mancanza della notificazione, i coeredi hanno diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria.

La prelazione si applica solo alla cessione dell’intera quota ereditaria e non del singolo cespite pervenuto in successione con altri beni.

A chi spetta rimuovere l’amianto da un immobile?

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Controllo, manutenzione, rimozione e bonifica di eternit gravano sul proprietario. L’obbligo di censimento e denuncia. Ma se l’immobile è in locazione?

Dovrebbe essere un materiale ormai sparito dalla circolazione ma, purtroppo, in molti edifici sono presenti componenti che contengono amianto: tettoie o coperture su tetti e pareti di piccoli o grandi fabbricati costruite in eternit, un materiale che contiene amianto e che, proprio perché nocivo per l’uomo (può provocare dei tumori) è stato dichiarato fuori legge 25 anni fa [1].

Purtroppo, però, non sempre il proprietario di un immobile si prende la briga di smantellare le parti dell’edificio contenenti amianto. Per pigrizia, per i costi o, semplicemente, perché non gli interessa. Eppure tocca a lui, e soltanto a lui, eseguire l’attività di bonifica. Se rimaneva qualche dubbio, lo ha chiarito il Tar della Lombardia, con una sentenza [2] in cui ha stabilito che a gestire l’amianto di un immobile ci deve pensare il proprietario, in quanto la bonifica riguarda lo stato dell’edificio e non l’attività commerciale che si svolge all’interno.

E’ il nuovo proprietario e non quello vecchio a dover rimuovere l’amianto

Per essere ancora più chiari: se oggi compro un capannone industriale con le tettoie in eternit (quindi con la copertura in amianto), non posso pretendere che ne risponda il vecchio proprietario per l’eventuale rimozione e la bonifica. Il capannone è mio, la parte strutturale mi riguarda, ci devo pensare io.

Il censimento obbligatorio degli edifici con amianto

Ogni Regione è tenuta a censire i siti che contengono delle parti in eternit, quindi anche amianto, così come deve predisporre dei piani di protezione dell’ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall’amianto.

Quando è obbligatorio il censimento di questi siti? Quando si parla di edifici pubblici, locali aperti al pubblico, immobili di utilizzazione collettiva (come, ad esempio, una scuola o un ospedale) e blocchi di appartamenti, cioè condomini.

Il censimento è, invece, facoltativo – a meno che le disposizioni regionali dicano il contrario – per le singole unità, anche se l’Asl o il Comune interessati possono in qualsiasi momento chiedere delle informazioni, documenti alla mano, sulla presenza di componenti in amianto in un immobile e sull’eventuale esigenza di rimuoverli.

L’amianto nuoce gravemente alla salute

I proprietari degli immobili che hanno una tettoia, un tetto o una qualsiasi copertura in eternit sono obbligati a presentare denuncia all’Asl, cioè a segnalarne la presenza alle autorità sanitarie locali. Naturalmente, l’obbligo spetta anche ai responsabili degli enti statali: il dirigente scolastico sarà tenuto a segnalare la presenza di amianto nel suo istituto, così come il responsabile di un ufficio pubblico deve fare altrettanto (l’ufficio provinciale del lavoro, la Prefettura, l’Inps, la stessa Asl, ecc.).

Fatta la denuncia, viene predisposto un programma di controllo e di manutenzione gestito e coordinato da un responsabile nominato ad hoc. Tra i suoi compiti, quello di certificare dove si trova l’amianto e, di conseguenza, predisporre delle misure di sicurezza ed informare chi occupa quello stabile della presenza di questo materiale, dei rischi che comporta e di come evitare eventuali danni alla salute.

Questo processo porta a due tipi di risultati:

  • l’amianto è in buone condizioni: non c’è obbligo di rimozione ma sì di controllo e di manutenzione;
  • l’amianto non è in buone condizioni (specialmente se sgretolato): servono rimozione e bonifica.

Come avvengono la rimozione e la bonifica dell’amianto

Come abbiamo appena visto, una qualsiasi copertura realizzata in eternit e, quindi, contenente amianto, deve essere rimossa obbligatoriamente solo se presenta qualche fonte di rischio. Ad esempio, se con il passare del tempo temporali e grandine l’hanno in parte sbriciolata: se l’eternit viene reso friabile, rilascia nell’aria delle microfibre molto nocive per la salute dell’uomo.

Se l’amianto è danneggiato va obbligatoriamente rimosso

Altrimenti si possono eseguire altri interventi come l’incapsulamento o la sovracopertura. Attenzione, però: il semplice cittadino non può eseguire questo tipo di interventi, come nemmeno la rimozione: il lavoro deve essere fatto da ditte specializzate ed autorizzate, iscritte all’Albo nazionale dei gestori ambientali, che provvedono sia alla rimozione sia allo smaltimento della tettoia in eternit o di qualsiasi altra copertura contenente amianto [3].

La responsabilità del controllo e della manutenzione delle coperture in amianto gravano soltanto sul proprietario dell’immobile, anche se lo è diventato il giorno prima: il fatto che il vecchio proprietario non ne avesse avuto cura non esonera quello nuovo dai suoi obblighi di sorveglianza e di intervento, se ce ne fosse bisogno [4].

E’ importante controllare lo stato dell’amianto prima di acquistare un fabbricato

Che succede se l’immobile contenente amianto è in locazione

Locatario o locatore? A chi spetta il controllo, la manutenzione ed, eventualmente, la rimozione delle parti dell’immobile contenente amianto?

Qualche delucidazione ce la dà il Tar della Lombardia [2]. Punto primo: quando il locatario, cioè chi occupa l’immobile, ha assunto contrattualmente i doveri di ordinaria e di straordinaria amministrazione, sarà suo compito occuparsi della presenza dell’amianto. Ma, nel momento in cui il contratto di locazione si risolve, l’onere ricade sul proprietario dell’immobile. Questo perché, come detto all’inizio, l’attività di bonifica non dipende dall’attività svolta all’interno ma dallo stato di conservazione dell’immobile.

Se a capo dell’immobile c’è un curatore fallimentare

La tipica «grana» di chi abbandona un capannone perché l’attività è fallita e lascia il tutto nelle mani di un curatore fallimentare. Che succede in questo caso? Sulle spalle di chi cade la responsabilità (cioè la «grana» in questione) di farsi carico di eventuali bonifiche di amianto? Su quelle del curatore o su quelle di chi ha lasciato l’area in quelle condizioni, cioè dell’impresa che è fallita?

Qui l’orientamento espresso dalla giurisprudenza è piuttosto discordante. C’è chi, come il Consiglio di Stato, ritiene che il curatore sia un mero amministratore di un fallimento e non l’erede dell’azienda saltata per aria. Che, cioè, debba occuparsi soltanto di far quadrare i conti per dare ai creditori la loro parte, senza altre incombenze che non gli spettano, come quella che riguarda la tutela sanitaria degli stabili [5].

C’è, invece, chi, come alcuni tribunali amministrativi regionali, opta per un ruolo più esteso del curatore, al quale si potrebbe chiedere la responsabilità della presenza di amianto o perché autorizzato dal giudice fallimentare ad occuparsene oppure perché può avere una responsabilità esclusiva nell’abbandono dei rifiuti di amianto [6].

Cosa fare se il vicino ha la copertura in amianto e non lo segnala

Senza dover per forza entrare in guerra con il dirimpettaio, se il vicino ha la tettoia in eternit, e quindi contenente amianto e magari danneggiata, ma non lo segnala come d’obbligo alle autorità sanitarie, basta rivolgersi all’Asl oppure, anche via Internet ed in forma anonima, ad uno dei siti delle tante associazioni che si occupano di questo problema. La segnalazione può essere fatta anche ai Vigili urbani o al Nucleo ecologico e tutela ambientale dei Carabinieri. Sul web, inoltre, è possibile trovare il modulo di esposto-denuncia per presenza di amianto. Come detto, è possibile fare la segnalazione in forma anonima, per non entrare subito in conflitto con il vicino, ma se riporta la firma e le generalità del denunciante e più probabile che venga considerata attendibile.

Ricevuta la segnalazione, l’Asl contatta l’Arpa (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente), la quale eseguirà gli opportuni test per rilevare l’eventuale presenza di amianto nell’aria e la sua quantità. Si deciderà, a questo punto, come intervenire sulla tettoia o sulla copertura in amianto.

Verbale della riunione di condominio: cosa deve indicare?

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La redazione del vebale dell’assemblea di condominio non deve limitarsi solo alle questioni oggetto di votazione, ma anche a quelle che sono state discusse.

Qualsiasi argomento trattato durante la riunione di condominio va riportato nel verbale dell’assemblea. Vi rientrano quindi non solo le questioni che hanno formato oggetto di votazione, ma anche i punti all’ordine del giorno che sono stati semplicemente discussi. Questo per consentire, anche successivamente all’assemblea stessa, il controllo da parte dei condomini, in particolar modo a quelli assenti. A dirlo è una interessante sentenza del Tribunale di Ivrea [1] che ricalca il costante pensiero della Cassazione [2]. Ma procediamo con ordine e vediamo cosa deve indicare il verbale della riunione di condominio.

Il verbale della riunione deve indicare tutte le attività compiute dall’assemblea

La redazione del verbale costituisce un momento necessario costituendo un documento che ufficialmente dimostra e attesta lo svolgimento delle attività assembleari.

La verbalizzazione deve avvenire sempre, e cioè anche quando l’assemblea non si è regolarmente costituita o non ha deliberato.

La mancata redazione del verbale comporta l’impugnabilità della delibera [2].

La redazione del verbale dell’assemblea condominiale rappresenta uno degli obblighi di forma che devono essere osservati al pari della altre formalità richieste dal procedimento quali l’avviso di convocazione, l’ordine del giorno, la costituzione, discussione e votazione. In caso di mancato rispetto di tale obbligo la delibera – poiché non conforme alla legge – può essere impugnata tanto dai condomini assenti quanto da quelli presenti.

Ciò implica che, una volta convocata l’assemblea, occorre dare conto, tramite verbalizzazione, di tutte le attività compiute anche di quelle che non si sono perfezionate e non sono state adottate deliberazioni perché non si è proceduto alla votazione o perché non si è formata una maggioranza sufficiente. Il verbale della riunione di condominio deve essere il più specifico e completo possibile allo scopo di permettere a tutti i condomini, compresi quelli dissenzienti e assenti, di controllare lo svolgimento del procedimento e di assumere le opportune iniziative, ivi compresa la possibilità di presentare un ricorso al giudice.

Il verbale deve indicare anche le discussioni non oggetto di votazione

Il verbale dell’assemblea condominiale, dunque, rappresenta una prova presuntiva dei fatti che afferma essersi in essa verificati: in altre parole, tutto ciò che in esso è riportato si presume avvenuto e tutto ciò che non vi trova posto si presume non avvenuto. Se il condomino sospetta che il verbale non riproduce fedelmente il fatto storico dell’assemblea ed è carente di qualche elemento essenziale oppure “dice di più” di quanto effettivamente avvenuto, può impugnare la delibera assembleare, contestando la rispondenza a verità di quanto riferito nel relativo verbale, ma è tenuto a provare le proprie contestazioni.

Cosa deve contenere il verbale della riunione di condominio?

  • Il verbale della riunione di condomino deve riportare gli elementi necessari ad evidenziare il regolare svolgimento dell’assemblea e in particolare:
  • il luogo, la data e l’ora di apertura dell’assemblea;
  • l’ordine del giorno;
  • l’elenco nominativo dei partecipanti, specificando se presenti personalmente o per delega e il valore millesimale di ciascun rappresentato;
  • la nomina del presidente e del segretario;
  • l’esposizione della discussione su ciascun argomento;
  • la votazione, con indicazione dei nomi dei votanti favorevoli e di quelli contrari e delle rispettive quote di partecipazione;
  • ulteriori eventi rilevanti durante lo svolgimento dell’assemblea, quali l’allontanamento di un condomino dalla riunione;
  • l’ora e la dichiarazione di chiusura dell’assemblea;
  • la sottoscrizione del presidente e del segretario.

Verbale di assemblea e indicazione dei condomini

Il verbale della riunione di condominio deve anche indicare in modo analitico i nomi di tutti i partecipanti all’assemblea, con l’indicazione nominativa di ciascuno e la rispettiva quota millesimale. Secondo però la Cassazione [3] la mancata indicazione del totale dei partecipanti non incide, però, sulla validità del verbale.

Infine, in caso di votazione, il verbale deve indicare chi sono i condomini favorevoli (assenzienti), contrari (dissenzienti e assenti) nonché il valore delle rispettive quote, onde consentire il controllo del rispetto delle maggioranze assembleari richieste dalla legge.


Tassa Airbnb: ancora nessun pagamento

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Non è ancora operativa la ritenuta del 21% che dovrebbe essere applicata dagli intermediari per gli affitti brevi.

La Tassa Airbnb, o meglio la possibilità di utilizzare la cedolare secca del 21% per gli affitti brevi è già operativa, la ritenuta d’acconto da parte degli intermediari no.

Manca, difatti, l’apposito provvedimento del direttore dell’agenzia delle entrate, che deve stabilire le disposizioni di attuazione necessarie per l’applicazione di questa nuova ritenuta: c’è ancora tempo, è vero, per l’emanazione del provvedimento, precisamente entro il prossimo 23 luglio, ma, nel mentre, l’incertezza, per chi affitta, regna sovrana.

Cerchiamo allora di fare un breve punto della situazione per capire che cos’è la Tassa Airbnb, chi è obbligato a pagarla e come deve essere versata, posto che la normativa attuativa potrebbe apportare degli ulteriori cambiamenti.

Tassa Airbnb: che cos’è e come funziona

In primo luogo, bisogna chiarire che la tassa sugli affitti brevi è sempre esistita e non si tratta di una novità assoluta: in buona sostanza, anche se quando si affitta un appartamento per un breve periodo (sotto i 30 giorni) e il contratto non deve essere registrato presso l’Agenzia delle entrate, le imposte sul canone vanno pagate comunque; bisogna, difatti, dichiarare i canoni percepiti nel quadro fabbricati della dichiarazione dei redditi.

Lo stesso vale per chi, oltre alla disponibilità dell’alloggio, offre ulteriori servizi, come i bed and breakfast: anche se, per la maggior parte di questi soggetti, non è necessaria l’apertura della partita Iva, i compensi ricevuti vanno esposti nel quadro redditi diversi della dichiarazione.

Grazie alla manovrina, si ha la possibilità di non sommare questi redditi, nella dichiarazione, agli altri redditi imponibili, ma è possibile utilizzare una tassazione separata del 21%, la cedolare secca, in passato valida soltanto per alcune tipologie di affitto. Questa disposizione è già operativa dal 1° giugno 2017.

Assieme a questa possibilità, poi, è stato previsto l’obbligo, per gli intermediari che incassano i canoni o i compensi al posto dei titolari, come Airbnb, di effettuare una ritenuta del 21% sulle somme da riversare a questi ultimi: da qui, il nome Tassa Airbnb.

Tassa Airbnb: come sarà applicata la ritenuta

In parole semplici, la ritenuta dovrebbe funzionare in questo modo:

  • l’intermediario, che può essere non solo un portale web, ma anche un’agenzia o un privato, incassa il canone di affitto breve, o il compenso per il soggiorno, al posto del titolare (proprietario dell’appartamento, del b&b, etc.);
  • prima di riversare il canone o il compenso, applica la ritenuta del 21%, quindi versa al titolare la somma già al netto della trattenuta;
  • versa poi, con modalità da stabilirsi, la ritenuta all’erario;
  • certifica al cliente i compensi versati e le trattenute effettuate.

L’intermediario dovrà poi comunicare tutti i contratti conclusi per suo tramite: dal tenore della norma sembrerebbe, dunque, che l’obbligo di comunicazione sia esteso anche a quei contratti per i quali l’intermediario non incassa canoni e compensi, ma si occupa soltanto delle prenotazioni.

Certamente, diversi aspetti sono ancora da chiarire, e per conoscere con esattezza tutti i nuovi obblighi bisogna attendere il provvedimento dell’Agenzia delle entrate. Tuttavia, la norma sicuramente riuscirà nel suo intento di “fare piazza pulita”, ossia di bloccare, quasi completamente, l’evasione nel settore dell’ospitalità.

Rumori di domenica mattina: cosa prevede la legge?

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Rumori molesti alla domenica mattina o durante il riposino pomeridiano: la soglia della tollerabilità è più elevata?

Il sabato sera si fa spesso tardi e non c’è chi la domenica mattina vorrebbe dormire qualche ora in più. Che succede, però, se il vicino ce lo impedisce usando, ad esempio, l’aspirapolvere alle 9 di mattina? Durante gli altri giorni lavorativi sarebbe un orario più che consono e nessuno si sognerebbe di contestare le altrui pulizie di casa, per quanto rumorose. Diverso è il discorso però nel settimo giorno della settimana, durante il quale anche il Signore ha creduto bene di riposarsi. E che dire del riposino pomeridiano rovinato dal fragore della diretta sportiva proveniente dall’appartamento accanto? Insomma, cosa dice la legge e cosa ne pensano i giudici dei rumori di domenica mattina? La soluzione, anche in questo caso, richiede un po’ di buon senso e di logica.

Rumori molesti: cosa dice la legge?

I rumori sono tra le cause più frequenti di cause in condominio: il televisore o lo stereo con il volume eccessivamente alto, i giochi dei bambini, ma anche scarpe con i tacchi a spillo indossate in camera da letto, o, peggio, zoccoli di legno calzati regolarmente durante le faccende domestiche. Per quanto esistono diverse normative speciali che stabiliscono limiti massimi di esposizione al rumore nelle abitazioni e all’esterno, il rispetto della legge amministrativa non esclude che i rumori possano essere ugualmente considerati intollerabili e, quindi, illeciti. Il codice civile [2] stabilisce infatti che le immissioni rumorose possono essere vietate solo se superano la «normale tollerabilità». Ma cosa si intende per «normale tollerabilità»? Di tanto abbiamo diffusamente parlato nell’articolo Quali rumori sono vietati in condominio. Senza perciò volerci ripetere, in questa sede ricorderemo soltanto che si tratta di un metro di giudizio relativo, che esegue il giudice tenendo conto di una serie di variabili quali:

  • l’orario in cui il rumore viene prodotto: lo stesso rumore può essere intollerabile a mezzanotte e neanche percepibile a mezzogiorno;
  • la collocazione geografica in cui si trova l’immobile: in una zona residenziale, priva di rumori di fondo, è più facile sentire il volume alto della tv del vicino piuttosto che in una zona situata al centro della città, con il traffico che rende difficile distinguere i suoni quotidiani;
  • la qualità dell’immobile: in uno stabile antico, con muri sottili, bisogna essere più rispettosi del riposo dei vicini rispetto a un edificio che rispetta le più moderne normative di isolamento;
  • la ripetizione e la durata del rumore.

In definitiva, l’ultima parola per stabilire quando un rumore è tollerabile o meno ce l’ha il giudice e il potere interpretativo del caso specifico che la legge gli attribuisce.

Fare chiasso la domenica mattina può integrare un reato

Detto ciò, vediamo ora cosa prevede la legge per i rumori di domenica mattina o negli altri momenti della stessa giornata dedicati al riposo (ad esempio il primo pomeriggio).

Rumori di domenica mattina: esiste un limite?

Se il vicino di casa fa rumore la domenica mattina, la prima cosa che bisogna fare è verificare se il regolamento di condominio vieta di produrre rumori in determinati orari o giorni settimanali (leggi A che ora si può fare rumore?). Secondo infatti una recente sentenza del Tribunale di Milano [3], il limite ai rumori stabilito dal codice civile – limite che, come detto, è costituito genericamente dalla «normale tollerabilità» – può essere derogato con l’accordo di tutti i condomini. Il regolamento approvato all’unanimità potrebbe, cioè, contenere una disciplina più restrittiva rispetto a quella legale, impedendo qualsiasi tipo di rumore, anche quelli che, per il codice civile, sono da ritenersi leciti. Ad esempio l’aspirapolvere alle 9 di mattina, ritenuto tollerabile nei giorni feriali, potrebbe non esserlo nei giorni festivi laddove indicato nel predetto regolamento.

Clausole di questo tipo sono ricorrenti nei regolamenti delle case vacanze o, comunque, situate nelle zone turistiche dove è frequente l’esigenza di trovare un po’ di riposo, superiore a quello che si può richiedere a una dimora invernale.

Per sapere da che ora si può iniziare a fare rumore bisogna prima leggere il regolamento di condominio

Se però il regolamento non prevede alcuna disciplina, non resta che affidarsi all’interpretazione del giudice. In particolare quest’ultimo è autorizzato a ritenere illecito e fonte di risarcimento del danno un rumore prodotto ogni singola domenica mattina presto, che impedisca a chi lavora durante tutto l’arco della settimana di godere di quel riposo obbligatorio per legge [4] e per Costituzione [5]. Quest’ultima in particolare stabilisce che il lavoratore ha diritto al riposo settimanale (…), e non può rinunziarvi; a nulla varrebbe però vietare il lavoro nei giorni di festa se poi il dipendente è comunque costretto a svegliarsi presto per colpa del vicino maleducato.

Insomma, anche negli orari a partire dai quali è possibile iniziare a fare rumore (con l’aspirapolvere, tanto per rifarci al caso più ricorrente, o con lo stereo), il codice civile consente di avere un margine interpretativo per tutelare chi la domenica mattina vuol dormire.

Che fare in caso di rumori la domenica mattina?

Veniamo ora alla tutela. Cosa deve fare chi non riesce a dormire la domenica mattina per colpa dei rumori del vicino? Le strade sono due:

Il risarcimento del danno e l’inibitoria

  • se il rumore è tale da essere avvertito da poche persone, ossia solo da chi vive “attaccato” al molestatore (ad esempio l’appartamento del piano di sopra, di sotto o accanto), il comportamento integra solo un illecito civile. Il che, in soldoni, significa che si può ricorrere al tribunale ordinario, con l’assistenza di un avvocato, e chiedere un’inibitoria alla prosecuzione della condotta molesta nonché il risarcimento del danno. Eventualmente, quando si tratta di rumori inevitabili, è possibile anche imporre l’insonorizzazione dell’appartamento;

Il reato di disturbo del riposo delle persone

  • se il rumore è avvertito da numerose persone (ad esempio una parte consistente dei condomini dell’edificio o delle abitazioni limitrofe) ricorre il reato di disturbo del riposo delle persone [6]. In tale ipotesi è possibile sporgere denuncia alla polizia o ai carabinieri e lasciare che sia la Procura della Repubblica ad avviare indagini e processo.Ad esempio, integra il reato l’uso della radio fatto in modo da abusare dei rumori e dei suoni [7]; lo stesso dicasi di televisore e impianto stereo, se il volume è talmente alto da essere udito, nel cuore della notte, a due-trecento metri di distanza.

Che fare se il rumore del campanile della chiesa dà fastidio?

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Anche la chiesa è soggetta alle norme del codice civile e deve rispettare il riposo delle persone: il parroco che suona troppe volte lo scandire delle ore può essere denunciato per disturbo della quiete.

Se ripetuti ossessivamente, anche i suoni divini possono diventare rumori infernali. L’esempio più lampante è il campanile della chiesa: non sarà tanto la chiamata domenicale dei fedeli alla santa messa a dare fastidio ai più sensibili d’orecchio quanto quei casi in cui, ogni sessanta minuti, viene battuto lo scoccare dell’ora, con tanti tocchi di campana per quante sono le ore trascorse. Chi vive nei pressi di una parrocchia lo sa: quando il buon sagrestano si prende la briga di ricordare a tutto il circondario che il «tempo fugge», da un lato c’è la garanzia di non arrivare mai tardi agli appuntamenti, ma dall’altro il riposo può diventare impossibile. Ebbene, che fare se il rumore del campanile della chiesa dà fastidio? Cosa prevede la legge? Ma soprattutto, visto e considerato che le chiese rientrano nella «giurisdizione» dello Stato pontificio, cosa si può fare per difendersi?

Niente timore. La Cassazione ha previsto anche questa ipotesi. Vediamo dunque come difendersi dal rumore delle campane della chiesa.

Quando un rumore è vietato

Prima però di spiegare che fare se il rumore del campanile dà fastidio al vicinato, dobbiamo fare una doverosa premessa. I rumori sono regolati in parte da norme di carattere amministrativo [1], che fissano le soglie a cui determinate attività devono attenersi; per altra parte – almeno nell’ambito dei rapporti di buon vicinato – c’è la norma del codice civile [2] secondo la quale non si possono impedire i rumori che, per quanto antipatici, sono «tollerabili». E cosa sia «tollerabile» o meno lo decide il giudice quando un cittadino si rivolge a lui perché non riesce più a dormire la notte.

Il rumore delle campane, quando ossessivo e ripetuto, fa scattare il reato

Chi dunque si aspettava di sentirsi dire che i rumori sono vietati oltre un certo quantitativo di decibel rimarrà deluso: come abbiamo già spiegato nell’articolo Quali rumori sono vietati in condominio e in Rumori di domenica mattina, cosa prevede la legge?, bisogna valutare le circostanze del singolo caso e le variabili come l’orario in cui il rumore viene prodotto, il contesto geografico in cui l’appartamento si trova, il rumore di fondo della zona (ossia a quel complesso di suoni, di origine varia e spesso non identificabile, continui e caratteristici della zona medesima, sui quali s’innestano, di volta in volta, rumori più intensi come voci, auto ecc.). Ad esempio, se la casa si trova in centro città la soglia della tollerabilità è più elevata perché è più elevato il rumore di fondo.

Si deve poi tener conto, oltre all’intensità del rumore, all’orario in cui lo stesso viene prodotto e alla collocazione dell’immobile, anche della ripetizione e della durata del rumore medesimo.

Alle chiese si applica la legge italiana sui rumori

Veniamo dunque alle belle notizie per chi è molestato dai rumori delle campane della chiesa. La norma del codice civile sulle immissioni rumorose è, secondo la Cassazione [3], applicabile anche alle strutture parrocchiali sportive e ricreative, per cui il parroco è tenuto ad adottare accorgimenti idonei a contenere le immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, provenienti da tali strutture, per esempio, riducendo l’orario di apertura.

La Corte osserva che anche la Chiesa cattolica e le sue istituzioni locali [quando agiscono come soggetti privati] come quando è in discussione l’uso di beni di proprietà privata, soggetti alle regole del codice civile, sono tenuti, come chiunque altro, a rispettare le norme di relazione tra le quali rientrano i limiti all’immissione di rumori.

Secondo il tribunale di Roma si può anche agire d’urgenza per far smettere il parrocchiano di suonare ogni ora le campane della chiesa. Si legge in sentenza [4] che le immissioni acustiche intollerabili provenienti da strutture parrocchiali (come nel caso di prolungato rintocco di campane e schiamazzi) sono suscettibili di essere oggetto di un ordine di inibizione all’esito di un procedimento d’urgenza “abbreviato”, in quanto costituenti fenomeno idoneo a produrre un danno alla salute.

Ancora è sempre la cassazione a ricordarci che, poiché il suono delle campane è percepibile da un numero elevato e indeterminabile di persone, siamo nell’ambito del penale. Cioè, ci si può spingere non solo a richiedere il risarcimento del danno e l’ordine al parroco di «smetterla!», ma è possibile anche sporgere denuncia ai carabinieri o alla procura della Repubblica. È sufficiente a realizzare il reato di disturbo del riposo delle persone anche il rintocco intenso e diffuso delle campane [5], che non sia collegato a una funzione religiosa [6], o dell’orologio campanario di una chiesa che scandisca regolarmente l’ora [7].

Quali autorizzazioni per installare un’antenna radio sul tetto?

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Non ci vuole né l’autorizzazione del condominio, né quella del Comune per montare sul tetto o sulla terrazza dell’edificio una antenna anche se altra oltre dieci metri.

«Diritto all’antenna»: oramai lo chiamano così i giudici il diritto di ogni condomino di montare sul tetto dell’edificio o della terrazza di copertura la parabola, l’antenna televisiva o quella radio. Si tratta di una lineare conseguenza della libertà di pensiero e di espressione che, tramite i più moderni sistemi di comunicazione, trova espressione. E così, anche grazie all’entrata in vigore del codice delle comunicazioni elettroniche, non è possibile imporre autorizzazioni al radioamatore o al fanatico delle trasmissioni satellitari. È proprio di ieri una sentenza del Tar Liguria [1] che spiega dunque quali autorizzazioni sono necessarie per installare un’antenna radio sul tetto.

Autorizzazioni del condominio per installare un’antenna radio sul tetto

Se hai letto la guida sulle Regole per montare un’antenna televisiva saprai già che ogni proprietario di appartamento o inquilino in affitto può montare, sul tetto di proprietà del condominio, l’antenna (tanto quella televisiva quanto quella da radioamatore). Il codice civile infatti da un lato stabilisce il diritto di ogni condomino a dotarsi di un proprio impianto di ricezione radiotelevisiva da installare sul cosiddetto lastrico solare, ossia il terrazzo di copertura dello stabile; dall’altro lato [2] assegna a ogni condomino il diritto di servirsi degli spazi comuni dell’edificio, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Questo vuol dire che ben si può occupare una parte della terrazza o del tetto condominiale per montare l’antenna da radioamatore: da un punto di vista civilistico, infatti, per installare l’antenna radio sul tetto non c’è bisogno di alcuna autorizzazione da parte del condominio o dell’amministratore. Solo un regolamento di condominio approvato all’unanimità (ossia con voto favorevole di tutti i condomini in assemblea o con approvazione individuale all’atto dei singoli rogiti) potrebbe limitare questo diritto.

Non si può vietare di installare un’antenna sul tetto, anche se condominiale

Prima però di montare l’antenna radio sul tetto è bene verificare il rispetto delle seguenti condizioni:

  • non violare il decoro architettonico ossia l’estetica dell’edificio. Secondo una sentenza del Giudice di pace di Grosseto [3] le antenne televisive installate sui tetti, le parabole satellitari sporgenti dal muro e gli impianti di climatizzazione, sempre più numerosi, non vengono più percepiti come causa di deturpazione dell’estetica delle abitazioni e, più in generale, dell’ambiente;
  • non turbare la stabilità e sicurezza dell’edificio;
  • non pregiudicare il libero uso della proprietà altrui secondo la sua destinazione;
  • non impedire agli altri condomini di fare parimenti uso del bene comune secondo il loro diritto; la legge, in pratica, stabilisce che è sì un diritto montare l’antenna sul tetto o sul terrazzo del palazzo, benché siano parti comuni ossia di tutti, ma le dimensioni dell’impianto non devono impedire agli altri condomini di fare altrettanto;
  • non alterare la destinazione di tale bene.

Autorizzazioni del Comune per installare un’antenna radio sul tetto

Come il condominio, neanche il Comune non può imporre il permesso di costruire (ossia la vecchia «licenza edilizia») per montare l’antenna del radioamatore sul tetto del condominio. Secondo il Tar Liguria, neanche il regolamento comunale può considerare un’attività costruttiva in modo diverso dalla qualificazione operata dalla legge. E ciò vale anche se l’antenna è particolarmente alta, come nel caso in cui superi i 10 metri.

Non serve quindi l’autorizzazione amministrativa a realizzare l’impianto per le telecomunicazioni, sempre che la zona non sia sottoposta a vincolo paesistico. Il Comune però dovrebbe riuscire a motivare che la necessità dell’autorizzazione serve per evitare che eventuali antenne possano rovinare il paesaggio.

Mutuo troppo alto: così ti frega con il fisco

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Chiedere un mutuo troppo alto può far scattare l’accertamento fiscale, salvo che il contribuente dimostri che viene pagato con donazioni dei familiari ottenute tramite bonifici bancari.

Attenti a non puntare una casa troppo grande per le vostre possibilità, anche se il direttore della banca vi ha assicurato il prestito perché garantito dall’ipoteca. Attenti anche non accorciare troppo i tempi di rimborso del finanziamento, per risparmiare sugli interessi, se questo fa lievitare le rate del mutuo tanto da non essere in linea con la dichiarazione dei redditi. Attenti infine a chiedere un prestito di importo eccessivo anche se siete sicuri che a pagare mensilmente i Rid vi aiuterà vostro padre o la nonna con cui convivete e che magari sogna di vedervi sposati e con casa. In presenza di rate del mutuo troppo alte il fisco può essere in agguato. E se l’Agenzia delle Entrate si sveglia c’è poco da stare sereni: scatta l’accertamento fiscale tramite «redditometro». Risultato: il contribuente dovrà dimostrare con quali soldi pretende di pagare le rate alla banca se il suo reddito “dichiarato” è insufficiente. Lo ha chiarito una interessante sentenza della Cassazione di qualche ora fa [1] che ammonisce tutti gli italiani: chiedere un mutuo troppo alto alla banca non solo è compromettente perché rischia di far “saltare” l’economia domestica; c’è anche il capitolo fiscale da valutare e se la rata è elevata rispetto alle entrate dichiarate scatta l’accertamento, col risultato di dover pagare, oltre al mutuo stesso, anche le sanzioni all’Agenzia delle Entrate.

Mai chiedere un mutuo troppo alto rispetto alle proprie possibilità

In passato la stessa Corte Suprema aveva detto che la presenza di un mutuo consente di evitare l’accertamento fiscale quando risulta che il contribuente ha speso più di quanto guadagnato, visto che la differenza tra uscite ed entrate è giustificata proprio dall’ingresso del denaro avuto in prestito dall’istituto di credito (leggi Mutuo e spese elevate: accertamento fiscale nullo). E così, per contestare un accertamento fiscale, è possibile produrre tutta la documentazione bancaria che chiarisce come auto e case sono stati acquistati grazie al mutuo. Questo però non significa che, se si ha dei soldi in nero, si possa “riciclarli” sotto forma di rimborso alla banca delle rate del finanziamento. Difatti, anche in questo ci vuole “proporzione”. Ed è quindi inimmaginabile che, ad esempio, un lavoratore dipendente con un reddito mensile di 1.500 euro abbia una rata di mutuo di 1.200 euro. Come fa a pagarla? In questi casi opera la cosiddetta «presunzione a favore del fisco»: l’Agenzia delle Entrate è legittimata a “pensare male”, salvo che il contribuente non dimostri di avere tutte le carte in regola. In assenza di tali prove, l’accertamento è legittimo [2].

Servono introiti sufficienti per il versamento delle rate

Non si tratta, in verità, di un principio nuovo. Già il tribunale di Roma, quest’inverno, aveva sposato la stessa tesi (leggi Un mutuo può far scattare un accertamento fiscale?) e così anche la Cassazione qualche anno fa (leggi Attenti alle rate del mutuo troppo alte). Quella di oggi è dunque una conferma? In verità, qualcosa di nuovo c’è. È vero – sostengono i giudici – che grava sul contribuente l’onere di dimostrare, attraverso idonea documentazione, come riesce a procurarsi i soldi per pagare le rate del mutuo troppo alto, ma è anche vero che tale prova non può consistere in semplici donazioni da parte dei familiari se eseguite con denaro contante.

 Servono i bonifici

Difatti, solo la tracciabilità degli spostamenti di denaro, dal donante al beneficiario, dimostrata tramite il bonifico bancario potrebbe servire a vincere la presunzione contraria del fisco ed evitare le sanzioni.

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