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Condono edilizio: dopo Ischia anche per il Centro Italia

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Un emendamento al decreto Genova consente di sanate piccoli o grandi interventi abusivi nelle quattro regioni colpite dal terremoto del 2016.

Regione che vai, condono che trovi. Recentemente il Governo ha inserito nel decreto Genova una sanatoria edilizia che interessa gli immobili danneggiati dopo il terremoto di Ischia del 2017. Ora spunta un nuovo emendamento al decreto che dovrebbe concentrarsi sulle conseguenze del crollo del ponte Morandi del capoluogo ligure ma che, invece, si allarga ad altre quattro regioni interessate dal sisma che nel 2016 colpì il Centro Italia. Si tratta di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria. In totale, 140 Comuni che potranno beneficiare del condono edilizio. A condizioni piuttosto vantaggiose: si potranno mettere in regola gli interventi realizzati su parti strutturali anche senza autorizzazione. Con alcuni paletti, però. Vediamo di che si tratta.

Condono Centro Italia: cosa prevede?

Il condono edilizio per il Centro Italia contenuto nel decreto Genova prevede la possibilità di sanare le piccole o grandi irregolarità commesse nella realizzazione degli immobili siti in 140 Comuni delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria che sono stati colpiti dal terremoto del 2016. Il condono viene applicato anche se in passato non è stata richiesta un’autorizzazione.  Il tetto massimo per beneficiare del condono è il 20% dei metri cubi esistenti. Pertanto, se, ad esempio, in un edificio di 4 piani ne è stato costruito abusivamente un quinto piano, quest’ultimo può essere condonato poiché rappresenta il 20% della cubatura totale.

Condono Centro Italia: piccoli o grandi interventi abusivi

In pratica, l’emendamento consente di regolarizzare interventi abusivi minori ma anche quelli di maggiore entità realizzati prima del 24 agosto 2016 (la data del sisma) come la chiusura di un balcone o la metratura in più. Si parla, ad esempio, della costruzione di un piano aggiuntivo a quello dichiarato. In sostanza, il condono interessa le opere di manutenzione straordinaria sulle parti strutturali dell’immobile, di restauro, di rasamento e di ristrutturazione. Per un massimo del 20% della metratura esistente, dicevamo. Ma se gli interventi sono inferiori al 5%, non sarà necessaria nemmeno una richiesta di autorizzazione. Lo si può lasciare così. A meno che nell’edificio siano stati effettuati dei lavori completamente abusivi che hanno dato luogo ad un’ordinanza di demolizione. In questo caso non si scappa.

Ad ogni modo, il limite del 20% è cumulabile con il 5% sotto il quale l’intervento non ha bisogno del condono. Significa che il tetto complessivo per beneficiare del condono è del 25% dell’edificio.

Il decreto, dunque, allarga le maglie del condono già previsto per piccole difformità in un altro decreto, quello approvato la scorsa estate [1] noto come decreto Terremoto. Il timore del Governo è che la regolarizzazione delle altre situazioni senza sanatoria allungasse i tempi della ricostruzione nelle zone interessate dal sisma. A questo punto, secondo Palazzo Chigi, è meglio chiudere un occhio e mezzo ed introdurre un nuovo condono edilizio.

La sanzione minima prevista per sanare un intervento edilizio è di 516 euro. Quella massima è di 5.164 euro.


Vendere la prima casa e comprarne un’altra

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Agevolazioni fiscali e adempimenti necessari a usufruire, anche per il secondo rogito, del bonus prima casa. Come fare a vendere e acquistare. 

A prima vista può sembrare una cosa semplice vendere la prima casa e comprarne un’altra; in realtà si tratta di una operazione delicata e, in certi casi, anche complessa. Se si escludono le normali difficoltà nel piazzare un immobile nell’ambito di un mercato ormai saturo, deprezzato e spesso diffidente, è necessario soprattutto fare attenzione ad alcuni accorgimenti per evitare di cadere in problemi di carattere fiscale. Perché mai? Perché chi acquista una casa con le agevolazioni fiscali previste sull’abitazione di residenza non può innanzitutto venderla prima di cinque anni dal rogito; in secondo luogo, se vuole ottenere di nuovo gli stessi benefici fiscali deve disfarsi del primo immobile entro termini prestabiliti dalla legge. Ecco perché è molto importante conoscere, prima di vendere la prima casa e comprarne un’altra, cosa prevede la legge e quali sono le condizioni da rispettare.

Se non hai conoscenze di carattere tributario e la materia immobiliare non è il tuo forte, non devi preoccuparti: ti spiegheremo tutto noi. Dopo aver ricordato cos’è il bonus prima casa e quali sono le condizioni per ottenerlo, ti diremo cosa devi fare per vendere e non avere problemi con l’Agenzia delle Entrate. Seguendo queste regole potrai dormire sonni tranquilli, senza l’incubo che un giorno possa arrivarti un accertamento e magari un’ipoteca esattoriale sulla stessa casa che, con tanti sacrifici, hai acquistato.

Bonus prima casa: di cosa si tratta?

Chi compra casa, non avendo cognizioni giuridiche e tributarie, si rimette spesso nelle mani del notaio e lascia fare tutto al professionista, compreso il calcolo delle imposte. Potrebbe quindi non sapere che, se la casa che ha acquistato è la prima o comunque l’unica nello stesso Comune, ha beneficiato di un notevole sconto di imposta.

La legge stabilisce infatti che, per la prima casa, l’Iva è al 4% (e non al 10%) se il contratto viene concluso con una società (ad esempio il costruttore); invece l’imposta di registro al 2% (anziché al 9%) se il contratto viene concluso con un privato. In entrambi i casi c’è un ulteriore sconto sulle imposte catastali e ipotecari (nelle vendite soggette a Iva ammontano a 200 euro ciascuna; nelle vendite tra privati ammontano a 50 euro ciascuna).

Ma cosa si considera “prima casa”? Innanzitutto non deve essere un immobile di lusso, accatastato cioè nelle categorie A/8 e A/9.

In secondo luogo deve trovarsi nel Comune dove ha residenza l’acquirente. Se è residente altrove, può fare il trasferimento all’anagrafe fino a 18 mesi dal rogito. È possibile, anche in assenza di residenza, ottenere il bonus prima casa se l’immobile si trova nel Comune ove il contribuente lavora.

In più, per ottenere il bonus prima casa è necessario:

  • non avere altre case adibite a civile abitazione nello stesso Comune ove si trova l’immobile acquistato;
  • non avere la proprietà di altre case, in qualsiasi Comune situate, acquistate in precedenza con il bonus prima casa. C’è comunque un anno di tempo dal successivo acquisto per disfarsene (venderle o donarle, anche a familiari).

Il beneficio fiscale in questione ha un grosso limite: chi lo ottiene non può rivendere la casa prima di cinque anni. Se lo fa, perde le agevolazioni e deve pagare allo Stato tutto ciò che, all’atto del rogito, aveva risparmiato oltre alle sanzioni (eventualmente ridotte ricorrendo al ravvedimento operoso).

Bonus prima casa: quando si può ottenere

Sino ad ora abbiamo parlato di acquisto di casa. In realtà le agevolazioni fiscali sulla prima casa spettano anche quando l’immobile viene ottenuto a seguito di donazione o di successione. Quindi, ad esempio, se ricevi casa in eredità o in regalo da un genitore e questa risponde alle condizioni che abbiamo elencato sopra, ottenerli gli sconti fiscali predetti.

Come fare per vendere casa?

Prima di vendere casa, devi quindi accertarti se:

  • a suo tempo l’hai acquistata o ricevuta (in donazione o eredità) con il bonus prima casa);
  • sono trascorsi cinque anni dal rogito. Se non è ancora passato questo tempo è meglio che tu aspetti; diversamente il conto fiscale potrebbe essere eccessivo e, in più, non avresti diritto ad acquistare una nuova casa con le stesse agevolazioni.

Se non sono trascorsi cinque anni potresti firmare il compromesso in modo da bloccare la vendita e assicurarti il cliente, per poi rinviare il contratto definitivo (il rogito notarile) al compimento del quinto anno.

Naturalmente in questa attività puoi avvalerti di un’agenzia immobiliare tenendo conto che dovrai poi pagare la provvigione per l’affare procurato da quest’ultima, anche se il rogito è stato effettuato dopo la scadenza del contratto.

Puoi concordare con l’agente l’esclusione della clausola di esclusiva il che ti consentirà di trovare tu stesso dei potenziali acquirenti.

Come abbiamo anticipato poc’anzi, per ottenere anche sul nuovo acquisto il bonus prima casa che avevi usufruito in precedenza, non è necessario che la vendita della casa avvenga prima dell’acquisto della nuova. Puoi portare a termine l’operazione fino a un anno dopo il secondo rogito. Ad esempio, se sei proprietario di un appartamento e intendi comprarne un altro, puoi procedere al rogito con il bonus prima casa e vendere la prima casa entro i successivi 12 mesi.

Per non perdere il bonus prima casa sul secondo immobile, se non riesci a vendere il primo puoi anche decidere di donarlo a tuo figlio o a un altro parente. Se si tratta di un figlio minore fai attenzione: devi prima chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare, circostanza che può implicare un po’ di tempo in più. Pertanto è meglio non ridursi all’ultimo mese per tali adempimenti e per depositare l’istanza in tribunale (di tale aspetto può comunque preoccuparsi lo studio notarile).

Come acquistare casa nuova?

La soluzione ideale è sempre quella di vendere prima il vecchio e coi soldi acquistare il nuovo. Questo perché, sotto un aspetto finanziario, non ti richiederà di attingere risorse dal tuo conto corrente o da un mutuo bancario.

In ogni caso, come detto, per ottenere di nuovo il bonus prima casa è necessaria la cessione del precedente immobile entro un anno dall’acquisto del nuovo.

Nello stesso tempo il contribuente non deve essere proprietario di altra abitazione nello stesso Comune ove si trova la nuova casa. Se ne ha già una deve cederla (venderla o donarla) necessariamente prima del rogito.

L’acquisto della nuova casa con il bonus richiede anche il trasferimento della residenza entro 18 mesi dal rogito. Bisogna anticipare bene i tempi per non trovarsi poi a fare i conti con qualche disguido amministrativo.

Se si rientra nelle condizioni per il bonus prima casa si ha anche diritto alle detrazioni fiscali sugli interessi del mutuo dovuti alla banca, il che implica un ulteriore alleggerimento del carico. A questo aspetto abbiamo dedicato l’approfondimento Mutuo prima casa: benefici fiscali.

Regolamento di condominio 

Prima di comprare casa nuova ricordati sempre di leggere il regolamento di condominio. Questo potrebbe contenere dei limiti inaspettati come il divieto di utilizzare l’immobile per determinate attività, di chiudere i balconi con delle verande, di suonare strumenti musicali, ecc.

Il regolamento condominiale regola i diversi aspetti della vita in un condominio. Contiene le norme che regolano l’uso dei beni in comune tra i condomini. Ve ne sono di due tipi:

  • quello assembleare che viene deliberato dall’assemblea condominiale
  • quello contrattuale, più comune, che viene invece predisposto dal costruttore dell’immobile, e allegato appositamente agli atti d’acquisto dell’immobile.
  • La differenza sostanziale tra le due tipologie è che se il primo è più democratico, perché viene deliberato dagli stessi condomini, il secondo è già predisposto e viene accettato contestualmente con l’acquisto della casa. Inoltre, può essere modificato solo all’unanimità da tutti i proprietari.

Queste sono solo alcune delle regole che vengono spesso indicate nel regolamento di condominio e che vanno rispettate:

  • far entrare in casa propria l’amministratore per eventuali constatazioni e ai fini manutentori;
  • rendere noto l’Amministratore di opere e di lavori che si andranno ad effettuare nei locali di proprietà;
  • viene proibito l’utilizzo delle abitazioni che vanno contro il decoro o il buon costume del condominio (si pensi ad esempio all’uso del locale per realizzare case di tolleranza, sale disco e così via);
  • non è possibile occupare spazi comuni condominiali neanche mediante costruzioni di tipo provvisorio, tranne ovviamente in quei casi in cui i lavori edili siano necessari;
  • non si può recare disturbo agli altri condomini nelle ore di riposo diurno e notturno.

Spese condominiali

Prima di comprare casa nuova chiedi sempre all’amministratore se ci sono spese condominiali insolute. Come prassi, chi compra inizia a pagare le rate condominiali successive al rogito; tuttavia, per le spese ordinarie relative all’anno del rogito e a quello precedente, l’amministratore può rivalersi sia sul venditore sia sull’acquirente che sono quindi responsabili in solido (fatta salva la possibilità poi per l’acquirente di rivalersi contro il venditore). Per le spese straordinarie invece l’esborso grava sul venditore per i lavori deliberati prima del passaggio di proprietà. Perciò, già nel preliminare, è meglio per le parti scrivere come dividere le incombenze.

Ape – attestato di prestazione energetica

Quando compri devi farti rilasciare l’Ape, l’attestato di prestazione energetica. Ogni immobile deve essere dotato dell’attestato di prestazione energetica (Ape), documento questo che si ottiene effettuando una analisi energetica dell’immobile, valutate le caratteristiche delle murature e degli infissi, i consumi, la produzione di acqua calda, il raffrescamento e il riscaldamento degli ambienti, il tipo di impianto, eventuali sistemi di produzione di energia rinnovabile. E’ un onere che grava sul solo venditore.

Deve essere rilasciato da esperti qualificati e indipendenti o da società, cioè dalle cosiddette Esco. Il certificatore compila il documento e rilascia la targa energetica che sintetizza le caratteristiche energetiche dell’immobile. È rilasciato sotto responsabilità del tecnico che la redige con dichiarazione sostitutiva di atti di notorietà, con la conseguenza dell’applicabilità al certificatore, in caso di dichiarazione mendace, anche delle sanzioni penali previste dalla legge in caso di dichiarazione mendace.

Mediazione civile e commerciale: quando è obbligatoria

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Questioni legali con il condominio, la banca, il gestore di telefonia o simili: come scoprire se si applica la mediazione civile e quali sono le questioni per le quali la mediazione è obbligatoria.

Hai appena ricevuto una bolletta pazza e il numero del servizio clienti che stai contattando più e più volte risulta sempre occupato? Oppure hai la forte sensazione che la banca stia applicando sul tuo conto interessi oltre soglia ma le tue richieste di chiarimenti non ricevono mai risposta o quella che ricevi non ti soddisfa? Ancora, all’ultima assemblea di condominio è stata approvata una delibera senza che tu sia stato convocato e alla tua richiesta di spiegazioni l’amministratore di condominio sembra cadere dalle nuvole? Oppure all’inverso, ti è appena arrivato per posta un invito da parte del condominio ad andare in mediazione civile? Se ti trovi o ti sei trovato almeno una volta in una di queste situazioni, è molto probabile che ti stia chiedendo cosa fare e quali strumenti la legge ti mette a disposizione in casi come questi. E’ anche molto probabile che, al pensiero di rivolgerti all’avvocato affinché ti tuteli e ti aiuti a risolvere velocemente la questione, ti stia chiedendo quanti soldi ti costerà e quanto tempo ci vorrà. Forse non sai che da diversi anni esiste in Italia la mediazione civile, uno strumento che ti permette di definire controversie come queste in breve tempo e a costi molto più bassi che se andassi in causa, aiutandoti a trovare un accordo con la banca, l’amministratore di condominio e in generale con chiunque, società o persona fisica, tu abbia una lite in corso. Mediazione civile e commerciale: quando è obbligatori? In presenza di quali controversie legali sei obbligato ad andare davanti al mediatore per tentare di raggiungere un accordo? Quali sono i costi?

Cos’è la mediazione civile?

La mediazione civile è uno strumento per risolvere una lite tra due o più persone, società o enti pubblici o privati. La mediazione civile ha una durata di tre mesi, che possono eccezionalmente aumentare di uno/due mesi nel caso di liti condominiali.

La mediazione civile si svolge presso la sede di un ente, che sarai tu a scegliere insieme al tuo avvocato, o che è già stato scelto dalla parte che ti ha invitato in mediazione, chiamato Organismo di mediazione che è iscritto in un apposito elenco tenuto presso il Ministero di Giustizia. La mediazione si svolge davanti ad un mediatore civile scelto sempre da te o dalla parte che ti ha invitato in mediazione o scelto dallo stesso Organismo di mediazione tra quelli iscritti nell’elenco dei propri mediatori.

Chi è il mediatore civile?

Il mediatore civile è un soggetto terzo rispetto alle parti in lite, ad esempio tu e la banca, che ti aiuta a trovare con l’altra parte un accordo che sia soddisfacente per entrambi e che sancisca la conclusione della controversia. Non è un giudice perciò non decide con una sentenza ma facilita l’accordo tra te e l’altra parte. Il mediatore agisce in modo imparziale, cioè non prende posizione né verso di te, né verso l’altra parte.

Ad esempio il mediatore non deve mai schierarsi dando ragione a te piuttosto che all’altra parte o viceversa. Il mediatore deve agire poi in modo neutrale, perché non ha interessi in comune con nessuna delle due parti. Ad esempio, nel caso di lite con la banca, il mediatore non sarà mai un dipendente della banca o, nel caso di lite con il condominio, il mediatore non potrebbe mai essere un altro condomino o meno che meno l’amministratore.

Infine, importantissimo, il mediatore deve rispettare la riservatezza ovverosia non deve mai rivelare all’altra parte quello che tu gli hai confidato in maniera riservata. Il mediatore rivelerà all’altra parte solo quello che tu lo autorizzi a rivelare. Ed ora passiamo a vedere quali tipi di mediazione civile esistono e quando è obbligatoria.

Che tipi di mediazione civile esistono?

La mediazione civile può essere:

  • obbligatoria per legge, quando, per risolvere la tua controversia, sei obbligato dalla legge ad andare dal mediatore invece che dal giudice;
  • volontaria, quando spetta a te scegliere se andare dal mediatore o dal giudice;
  • per clausola contrattuale quando il contratto che hai firmato, ad esempio un contratto di vendita immobiliare o un preliminare di vendita, contiene una clausola che dice che eventuali questioni legali che possono insorgere nell’esecuzione del contratto tra te e l’agenzia, si risolvono in mediazione;
  • infine puoi essere invitato dallo stesso giudice, all’inizio del processo, a trovare un accordo in mediazione civile.

Quando la mediazione civile è obbligatoria per legge?

Secondo la normativa attualmente vigente [1] sei obbligato ad andare davanti al mediatore civile quando la controversia riguarda una delle seguenti materie: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria, da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. Questo vuol dire che ogni volta che hai una lite che riguarda una di queste materie, devi fare la mediazione civile anziché andare in causa.

Facciamo qualche esempio: hai subito un intervento chirurgico che non ha prodotto il risultato promesso? Oppure l’affittuario ha accumulato diverse mensilità di canoni non pagati e, pur avendogli tu fatto scrivere più volte dall’avvocato, continua a non pagare? Ebbene, in questi e in tutti gli altri casi elencati, se vuoi risolvere la controversia, devi andare preliminarmente davanti al mediatore civile insieme al tuo avvocato. Il fatto che, in questi casi, la mediazione sia obbligatoria, vuol dire che non puoi andare in causa senza aver tentato di trovare prima un accordo in mediazione.

In buona sostanza, se, attraverso il tuo avvocato, ti rivolgi direttamente al giudice, sarà costui a dirti di andare in mediazione. Oppure sarà l’avvocato dell’altra parte a sollevare in giudizio l’eccezione, ovverosia a fare presente al giudice che non hai svolto la mediazione civile.

In entrambi questi casi il giudice assegna un termine di quindici giorni entro il quale dovrai avviare la mediazione civile. In questi casi in cui la mediazione è obbligatoria, devi andare davanti al mediatore civile con il tuo avvocato e devi essere presente fisicamente al primo ed a tutti i successivi incontri che il mediatore ritiene di svolgere, a meno che non sei impossibilitato. Potresti ad esempio essere ammalato o avere un’invalidità che ti impedisce di uscire di casa o potresti trovarti all’estero.

In questi casi, se l’impossibilità è temporanea (ad esempio sei all’estero per dieci giorni o hai l’influenza) il tuo avvocato chiederà un rinvio dell’incontro di mediazione così che, quando torni o sei guarito, puoi partecipare. Se, invece, l’impossibilità è permanente (vivi all’estero o sei allettato) allora in mediazione andrà solo il tuo avvocato (munito di procura che tu gli rilascerai) a rappresentare te e i tuoi interessi. Oppure al posto tuo puoi delegare per iscritto una persona di tua fiducia.

Quando la mediazione è obbligatoria, se il tuo avvocato attiva la procedura ma non si presenza e non ti presenti neanche tu, allora potresti aver perso il diritto di agire in giudizio, nel senso che, se porti la questione davanti al giudice, questi potrebbe dichiarare improcedibile la causa perché, pur avendo  avviato la mediazione civile, non sei mai andato né tu né l’avvocato.

Come invece potrebbe accadere che il giudice ti invita a svolgere nuovamente la mediazione alla quale dovrete però questa volta partecipare. Se invece è l’altra parte, ad esempio la banca, l’inquilino, l’amministratore di condominio e così via, che non si presenta all’incontro di mediazione civile, allora la mediazione si chiude negativamente e se andrai davanti al giudice questi applicherà una sanzione economica alla parte che non si è presentata e valuterà il suo comportamento ai fini del giudizio.

Questo vuol dire che se sei tu ad essere convocato in mediazione dal condominio o dalla banca o dal proprietario dell’immobile dove vivi, sei tenuto per legge a presentarti insieme al tuo avvocato.

Quando la mediazione civile è obbligatoria su invito del giudice?

Oltre le controversie nelle materie indicate sopra, per le quali la mediazione è obbligatoria per legge, possono esserci altri casi in cui andare in mediazione diventa obbligatorio. Uno di questi si verifica quando è il giudice ad invitare te e l’altra parte ad andare in mediazione, pur vertendo la causa in una materia diversa da quelle indicate sopra, per le quali la mediazione è obbligatoria.

Questo vuol dire che, indipendentemente dalla materia oggetto della controversia, se, ad esempio, sei in causa per la mancata o errata esecuzione di un contratto di appalto (per il quale la mediazione non è obbligatoria) e, durante l’udienza, il giudice invita te e l’altra parte ad andare in mediazione, sei obbligato a svolgere la mediazione anche se il contratto di appalto non rientra tra le materie per cui la mediazione è obbligatoria.

Quindi ogni volta che il giudice ti manda in mediazione, diventa obbligatorio svolgerla. In questo caso il giudice assegna a te e all’altra parte il termine di quindici giorni per presentare l’istanza di mediazione e contemporaneamente rinvia la causa oltre i tre mesi (che è quanto dura la mediazione).

Se trovate l’accordo in mediazione, alla successiva udienza il tuo avvocato porterà al giudice il verbale dell’accordo e la causa è chiusa. Se invece in mediazione l’accordo non si trova, la causa proseguirà davanti al giudice.

Quando la mediazione civile è obbligatoria per clausola contrattuale?

Quando nel contratto che hai firmato, ad esempio un contratto di vendita di un pacchetto turistico, c’è una clausola che dice che tutte le controversie che possono sorgere nell’esecuzione di quel contratto vanno risolte in mediazione, allora fare la mediazione diventa obbligatoria.

Ad esempio, se per un qualche motivo la vacanza non è andata come era stato pattuito, perché magari nel contratto che hai firmato era scritto che avresti alloggiato in un hotel a cinque stelle, invece l’hotel era di categoria inferiore o, anziché l’hotel, ti è stato offerto un bungalow, per risolvere la questione con l’agenzia viaggi, devi andare in mediazione. In questo, come nei casi precedenti, devi andare in mediazione assistito dal tuo avvocato. Abbiamo esaminato i casi nei quali la mediazione è obbligatoria.

Volendo accennare brevemente ai costi ti posso dire con certezza che la mediazione civile ti fa risparmiare perché ti costa molto meno rispetto a  quanto ti costerebbe la causa davanti al giudice. In generale quando attivi una mediazione devi sempre pagare, sia tu che l’altra parte, le cosiddette spese di avvio che corrispondono a 48,80€ IVA inclusa. Per il resto, quello che devi pagare per lo svolgimento della mediazione vera e propria, varia in base al valore della controversia.

Volendo fare un esempio: se la tua controversia ha un valore entro i 1,000€  la cifra che dovrai pagare può variare da 40€- 48€ circa (se non trovi l’accordo) a circa 55€-61€ (se invece vai via con l’accordo). In ogni caso mi sento di rassicurarti sul fatto che, dovendo andare in mediazione con l’avvocato, potrai sempre contare su di lui, sulla sua esperienza e competenza. Saprà assisterti al meglio, consigliandoti in base alle circostanze del caso. Infine sappi che nessun accordo verrà mai fatto senza che sia tu, in ultima analisi, a decidere di farlo.

Di LAURA FERRRARI

L’inquilino ignora la raccomandata di sfratto: che succede?

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Tempi e procedura per rientrare in possesso del tuo immobile quando il conduttore rifiuta le notifiche arrivate per posta.

Vuoi risolvere il contratto di locazione della tua casa perché hai bisogno dell’immobile o per qualche grave motivo (ad esempio perché non ti viene pagato l’affitto da tempo nonostante le tue sollecitazioni). Lo comunichi all’inquilino, il quale ignora la raccomandata di sfratto. Nel senso che né si fa trovare dal postino né raccoglie l’avviso di giacenza della tua lettera. Che succede in questi casi?

Ti sembra di lottare contro un fantasma. Non lo chiami al cellulare per due motivi: se l’inquilino ignora la raccomandata di sfratto, figuriamoci se ti risponde al telefono. E poi queste cose vanno fatte per bene, nero su bianco. Il problema è che non dà segni di vita. E ti chiedi se e quando potrai prendere possesso del tuo immobile senza violare la legge. Ti domandi anche perché si comporta così. I motivi possono essere almeno un paio: o perché pensa che facendo finta di non esistere annulla l’effetto della raccomandata oppure perché vuole guadagnare tempo. Nel primo caso, sbaglia di grosso. Nel secondo, invece, potrebbe raggiungere il suo scopo.

Far finta di non avere ricevuto una lettera pensando di annullare il suo effetto legale è uno degli errori più grossi e più comuni: la notifica viene considerata valida anche se l’inquilino ignora la raccomandata di sfratto. Se il destinatario, però, diventa ostinato, la trafila si allunga di non poco (si parla di diversi mesi) prima che il proprietario possa disporre della sua casa e, di conseguenza, l’inquilino ha più tempo a disposizione per cercare un’altra sistemazione.

Vediamo bene questi due scenari e che succede se l’inquilino ignora la raccomandata di sfratto.

Raccomandata ignorata: la notifica è valida?

L’abbiamo appena accennato: anche se l’inquilino ignora la raccomandata di sfratto, la notifica della lettera è valida, cioè non perde i suoi effetti legali. Il conduttore, infatti, può rifiutarsi di ritirare la raccomandata dalle mani del postino oppure far finta di non avere mai visto l’avviso di giacenza e, quindi, di non ritirarlo presso l’ufficio postale competente indicato nell’avviso lasciato dal postino. In entrambi i casi, però, è come se avesse accettato la lettera. Anche quando questa torna nelle mani del mittente.

Il Codice civile, infatti, stabilisce che nel momento in cui la raccomandata arriva al domicilio del destinatario scatta la presunzione di conoscenza e, quindi, la lettera produce tutti gli effetti legali del caso, a meno che si dimostri l’impossibilità di ritirarla. Qui, però, si parla di un inquilino che ignora la raccomandata di sfratto, cioè di una persona che, pur sapendo dell’esistenza della lettera, fa finta che non sia mai arrivata. Scelta altamente sconsigliata perché in questo modo non potrà mai contestare il suo contenuto.

Raccomandata ignorata: se in casa non c’è nessuno

Poniamo il caso che l’inquilino voglia fare il furbo in un altro modo e si trasferisca da un amico per evitare di essere rintracciato nel momento in cui il postino viene a consegnare la raccomandata di sfratto. Succederà che l’impiegato delle Poste suonerà al citofono e non avrà alcuna risposta. In questo caso, lascerà l’avviso di giacenza e l’indirizzo dell’ufficio postale in cui ritirare la lettera entro 1 mese. Trascorso questo tempo, la raccomandata tornerà al mittente. Tuttavia, come abbiamo spiegato, gli effetti legali rimangono perché la notifica della consegna sarà comunque valida.

Raccomandata ignorata: i tempi per riavere l’immobile

Pazienza. Te ne occorrerà tanta per riavere il tuo immobile se l’inquilino ignora la raccomandata di sfratto. La burocrazia, lo sappiamo, ha i suoi tempi. Lunghi, purtroppo. Vediamo quali sono.

Come abbiamo detto poco fa, c’è innanzitutto 1 mese di tempo per sperare che l’inquilino si degni di passare in Posta a ritirare la raccomandata con in mano l’avviso di giacenza lasciato dal postino. Giunti al termine della compiuta giacenza, ci sarà da fare l’atto di sfratto con la citazione e la data di udienza per la convalida. Si presume sempre che l’inquilino ignori anche questa comunicazione. E così passa un altro mese. E siamo già a 2.

Passaggio successivo: l’iscrizione a ruolo dello sfratto, che comporta anche il pagamento di contributi unificati a carico del proprietario, cioè a tuo carico. L’importo varia a seconda della causa. Se il tuo problema è che l’inquilino è moroso, il valore si calcola sommando i canoni non pagati. Quindi se, ad esempio, non hai ricevuto un affitto mensile di 400 euro per 5 mesi, il valore della causa sarà di 2.000 euro.

Arriviamo così all’udienza di convalida. Qui possono succedere diverse cose:

  • che l’inquilino abbia ignorato per l’ennesima volta gli atti che gli arrivano a casa e non si presenti in tribunale oppure che si presenti ma non faccia opposizione. In questo caso, il giudice stabilisce la data dello sfratto;
  • che l’inquilino si presenti e faccia opposizione. In questo caso, dovrai accettare un tentativo di conciliazione. Se l’accordo non c’è si torna dal giudice, il quale può stabilire una data di sfratto oppure decidere di rimettere il tutto nelle mani di un giudice ordinario. Altre lungaggini ed altri costi;
  • che l’inquilino si presenti e chieda il termine di grazia perché afferma di non riuscire a pagare subito l’affitto dovuto: 90 giorni (cioè altri tre mesi) per saldare i canoni rimasti indietro.

In quest’ultimo caso, arriveremo già ad almeno 5 mesi da quando l’inquilino ha ignorato la raccomandata di sfratto.

Ma anche se l’inquilino non si presenta ed il giudice stabilisce lo sfratto, questo non potrà avvenire prima che sia trascorso un altro mese dall’udienza di convalida. Dopodiché, ci sono 10 giorni per notificare l’atto di precetto. Se l’inquilino ignora la raccomandata, avrà un altro mese di tempo per ritirarla presso l’ufficio postale. Lo stesso tempo trascorrerà se l’inquilino non ritira il preavviso di sfratto notificato dall’Ufficiale giudiziario. Alla fine di tutto questo percorso ti potrai recare insieme all’Ufficiale giudiziario (previa prenotazione della data) e ad un fabbro per smontare la serratura e sostituirla con una nuova. Fino a quel momento, l’inquilino avrà avuto la possibilità di vivere in quell’appartamento per non meno di 6 mesi senza sganciare un euro.

Finita qui? Nemmeno per sogno. In qualità di proprietario, verrai nominato custode dei beni che l’inquilino ha lasciato nella casa. Il che ti costringerà a presentare un’istanza al giudice per liberarti della roba che non è tua vendendola o regalandola a chi ti pare.

Casa in prestito

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In questo articolo vedremo cosa prevede la legge nel caso in cui si dia o si riceva in uso un immobile senza che sia previsto il pagamento di un corrispettivo.

Tuo figlio sta per sposarsi ma non ha un appartamento dove vivere, per cui ti ha chiesto la casa in prestito. Oppure un tuo amico d’infanzia è tornato da poco della vostra città ma non ha un tetto sotto cui vivere. Tu non puoi ospitarlo in casa, avendo moglie e due bambini; ma hai un piccolo appartamento che stai per destinare a casa vacanze. Per qualche tempo, potresti ospitare il tuo amico. Ma cosa prevede la legge per l’ipotesi di casa in prestito? Leggi questo articolo e troverai una guida sicura sull’argomento. Il prestito è qualcosa al quale siamo stati abituati fin da bambini. Ad ognuno di noi, nella vita, è capitato di prestare gli oggetti più svariati: dalle penne ai compagni di scuola, ai libri, ad oggetti più impegnativi come computers o telefoni. Non abbiamo mai considerato, però, che questo semplice gesto, di solito dettato dall’affetto o dalla cortesia, fosse previsto dalla legge come un vero e proprio contratto. Il codice civile [1], infatti, stabilisce che il prestito è l’oggetto di un contratto ben preciso: il comodato. E’ importante conoscere le norme che lo riguardano,  specie quando ha per oggetto beni di valore come gli immobili. Seguire scrupolosamente la legge consente, infatti, di mettersi al riparo da fastidi, che a volte si verificano nel momento in cui il proprietario della casa data in prestito ne richiede la restituzione.

Cosa è il comodato?

Il comodato è un contratto con cui una persona, detta comodante, consegna all’altra, denominata comodatario, una cosa, mobile o immobile. Il comodatario si obbliga ad utilizzare la cosa per un tempo o per un uso determinato, e successivamente a restituirla al comodante. La legge aggiunge che questo contratto è “essenzialmente gratuito”.

Le caratteristiche fondamentali del comodato sono tre, e le considereremo con particolare riguardo al caso che esso abbia ad oggetto un immobile. Eccole:

  • la gratuità. Il sacrificio economico di questo contratto ricade esclusivamente sul comodante, che si priva di un bene, anche di valore  (come può essere una casa), senza ricevere nulla in cambio. Mentre, infatti, nella locazione o nell’affitto il proprietario riceve dal locatario o dall’affittuario un corrispettivo, che è il canone, nel comodato egli non riceve nulla in cambio dell’utilizzo del bene. Il comodatario dovrà pagare alcune spese connesse all’utilizzo dell’immobile, come ad esempio quelle relative alle utenze; ma, a ben guardare, si tratta semplicemente di esborsi necessari per vivere nell’immobile. Chi abita una casa, infatti, ha necessità dell’acqua, della luce, del gas: queste sono spese che ovviamente devono essere sostenute da chi effettua questi consumi. Può essere che il comodatario versi saltuariamente al comodante delle somme a titolo di contributo per le spese (come avviene, ad esempio, se vi sono utenze intestate al comodante); ma se questi esborsi superano le somme strettamente necessarie e assumono la caratteristica di un corrispettivo per il godimento della casa, il contratto andrà qualificato come locazione, con conseguente applicazione della relativa disciplina;
  • l’unilateralità. Si tratta di una caratteristica che deriva da quanto abbiamo detto sopra. Il comodato pone degli obblighi di carattere economico solo a carico del comodante, e per questo si può considerare, secondo gran parte degli studiosi del diritto, un contratto unilaterale;
  • la realità. Questa parola deriva dal termine latino “res”, che significa “cosa”. I contratti reali sono quelli che si perfezionano con la consegna della cosa che ne forma oggetto. Perché si perfezioni il comodato di una casa, quindi, non è sufficiente che le parti firmino un contratto scritto, ma occorre la materiale consegna dell’immobile: basta, a tal fine, dare le chiavi al comodatario. Si tratta di una previsione saggia, perchéchi si sacrifica economicamente, dando in prestito qualcosa di cui è proprietario, deve essere libero fino all’ultimo momento di decidere se farlo o meno. Pertanto, si ritiene che non sia valida la semplice promessa di comodato, con la quale una parte si obbliga a concedere un bene in comodato all’altra in futuro. Infatti, il codice civile [2] stabilisce che la promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti al di fuori dei casi previsti dalla legge, e tra tali casi non rientra il comodato, per il cui perfezionamento, anzi, il codice richiede la materiale consegna della cosa.

Esiste il comodato oneroso?

Abbiamo visto che il comodato è essenzialmente gratuito. Esiste, tuttavia, un comodato che viene detto “oneroso” o “modale”. In questo caso, il comodatario si obbliga al compimento di una prestazione, che non è però un “corrispettivo” per il godimento dell’immobile, ma piuttosto qualcosa che necessita per il suo mantenimento o la sua conservazione.

Facciamo l’esempio che Tizio dia in comodato a Caio una villetta di sua proprietà. Tra le parti viene convenuto l’obbligo, a carico di Caio, di provvedere al regolare taglio dell’erba, alla manutenzione del giardino, alla sostituzione di alcune piante. Ciò comporterà delle spese a carico di Caio, ma non si tratta di un corrispettivo per il godimento della casa. Certo, indirettamente Tizio ne trae un vantaggio, perché probabilmente il giardino della sua villetta sarà tenuto meglio che in passato e il valore dell’immobile sarà salvaguardato, e forse accresciuto. Tuttavia, non si può dire che egli in questo modo egli riceva un corrispettivo per il godimento della casa da parte di Caio.

Se il vantaggio per il comodante dovesse essere tale da costituire un vero e proprio corrispettivo, il contratto, anche se denominato dalle parti come comodato, sarebbe in realtà una locazione e si dovrebbero applicare le norme stabilite per quest’ultima.

Quanto tempo può durare il comodato?

Esistono due forme di comodato, secondo che le parti abbiano o meno stabilito una durata del contratto.

Vediamole:

  • comodato con durata determinata. Si tratta dell’ipotesi in cui il bene venga consegnato al comodatario, perché lo utilizzi per un periodo di tempo predefinito, oppure per un uso che consenta di prevedere una durata.  La prima ipotesi si verifica quando nel contratto è contenuta la data, allo scadere della quale il bene dovrà essere riconsegnato. Ad esempio: Tizio consegna a Caio una casa, affinché la utilizzi fino  al 31 dicembre 2021. Ciò significa che, a decorrere dal 1° gennaio 2022, Tizio potrà chiedere a Caio la restituzione della casa. Se non è stato pattuito nessun termine, questo si desume dall’uso per il quale l’immobile è stato dato in comodato. Tornando all’esempio della casa concessa da Tizio a Caio come abitazione, se le parti non hanno stabilito nessun termine finale, si avrà riguardo alla normale durata delle locazioni per uso abitativo, che è di quattro anni. Il comodante può chiedere la restituzione dell’immobile in anticipo rispetto alla data stabilita o derivante dall’uso dello stesso, ma solo a condizione che ne abbia una necessità sopraggiunta, imprevista ed urgente [3]. Infine, se il comodatario muore prima della scadenza del termine, il comodante può chiedere la restituzione dell’immobile agli eredi. Infatti, questo contratto si basa sul rapporto personale di fiducia tra le parti [4];
  • comodato senza determinazione di durata [5]. Quando le parti non hanno concordato alcun termine per la restituzione dell’immobile, e questo non si può desumere dall’uso per il quale il bene è stato concesso al comodatario, il contratto non ha una durata specifica ed è denominato comodato precario. La precarietà deriva dal fatto che il comodante può chiedere la restituzione del bene in qualsiasi momento, senza necessità che ricorra un suo particolare bisogno e senza specificarne il motivo.

Un’altra ipotesi è che nel contratto sia prevista una durata pari alla vita del comodatario. Anche se raro, si tratta di un atto di particolare generosità, possibile quando tra le parti intercorrono forti vincoli affettivi.  In tal caso, il comodante e i suoi eredi non possono, finché  il comodatario è in vita, chiedere la restituzione dell’immobile: ciò può avvenire solo qualora ve ne sia una urgente necessità, oppure se il comodatario ha mutato l’uso  per il quale l’immobile gli era stato dato in prestito.

Poniamo che Tizio conceda in comodato a Caio, suo fraterno amico, un appartamento affinché vi abiti per tutta la vita. Ciò avviene per un periodo, poi Caio destina l’immobile a casa vacanze, trasferendosi a vivere altrove. A questo punto Tizio ha pieno diritto di chiedergli la restituzione immediata dell’immobile.

Che fare se il comodatario apporta migliorie alla casa?

Può succedere che il comodatario apporti delle migliorie all’immobile che gli è stato dato in prestito, che, al momento della restituzione, non possono essere rimosse senza danneggiarlo.  In tal caso egli ha diritto a chiedere al comodante il rimborso delle spese sostenute?

Dipende. Se le parti nel contratto non hanno previsto nulla in merito, le migliorie realizzate dal comodatario nell’immobile gli danno diritto a un rimborso solo se sono state autorizzate dal comodante, e in misura pari alla minor somma tra la spesa sostenuta e l’aumento di valore del bene al momento della restituzione.

Facciamo un esempio. Tizio concede una casa in comodato a Caio. Quest’ultimo, con il consenso di Tizio, realizza una cucina in muratura, che conferisce un aspetto più originale alla zona giorno dell’appartamento, e per farlo spende 10.000 euro. Al momento della restituzione del bene, la cucina in muratura non può essere rimossa. Viene quindi fatto stimare l’aumento di valore dell’immobile per i lavori effettuati da Caio, che risulta essere pari a 7.000 euro. E’ questa, dunque, la somma che Tizio dovrà rimborsare a Caio.

Cosa scrivere nel contratto di comodato?

Se vuoi e se i rapporti personali lo giustificano, puoi prestare ad altri una tua casa.  Tuttavia, anche se si tratta della persona più affidabile del mondo, devi salvaguardarti avendo cura di concordare tutto per iscritto, inserendo nel contratto alcune clausole che servono a tutelare i tuoi interessi.

Ecco cosa scrivere nel contratto:

  • se possibile,  la durata del comodato e la data di restituzione dell’immobile, e che, in caso di ritardo nella restituzione, il comodatario pagherà al comodante una penale, di cui è meglio precisare l’ammontare;
  • se si pattuisce una durata,  che, comunque, il comodante ha il diritto di chiedere la restituzione dell’immobile in anticipo qualora ne abbia urgente e imprevedibile bisogno,  precisando i giorni di preavviso che dovranno essere dati al comodatario, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento;
  • se invece si concorda che il contratto è a tempo indeterminato, entro quanti giorni il comodatario deve restituire l’immobile, a decorrere dalla richiesta del comodante,  inviata a mezzo raccomandata a.r. al suo domicilio;
  • che eventuali migliorie, riparazioni o modifiche dell’immobile non comporteranno, da parte del comodante, alcun obbligo di rimborso o indennizzo;  e inoltre che resta salvo il diritto del comodante di pretendere che l’immobile venga ripristinato nello stato in cui si trovava  quando è stato consegnato al comodatario;
  • che il comodatario si obbliga a conservare e custodire l’immobile usando la diligenza del buon padre di famiglia, e a servirsene solo per l’uso indicato nel contratto; che inoltre egli si obbliga a non consentire a terzi il godimento del bene, neppure  per breve periodo, né a titolo gratuito né a titolo oneroso, salvo consenso scritto del comodante;
  • che il comodatario risponde nei confronti del comodante e dei terzi per qualunque danno causato dalla sua trascuratezza, nonché per eventuali perdite d’acqua, fughe di gas, dispersione di corrente elettrica;
  • che il comodante non è responsabile  per qualunque interruzione dei servizi relativi all’immobile: acqua, gas, energia elettrica, servizio di ascensore, citofono, riscaldamento;
  • che il comodatario dichiara espressamente di accettare il regolamento del condominio;
  • che sono a carico del comodatario tutte le spese necessarie per il godimento dell’immobile dato in comodato, le utenze, le spese condominiali, quelle del contratto di comodato, quelle di registrazione e di bollo ;
  • che il comodante ha facoltà di ispezionare, personalmente o tramite un suo incaricato, l’immobile, specificando il preavviso che in questo caso dovrà dare al comodatario;
  • che per quanto non espressamente disposto si rinvia alla disciplina sul comodato contenuta nel codice civile.

Il comodato va registrato?

Se il comodato viene stipulato per iscritto, va registrato. La forma scritta, insieme alla registrazione, sono accorgimenti che tutelano meglio sia il comodante che il comodatario, dando certezza ai contenuti e alla data del contratto. Poiché la registrazione ha dei costi, è il caso, come abbiamo visto in precedenza, di inserire nel contratto una clausola che li pone a carico del comodatario; del resto, quest’ultimo ha il vantaggio di poter utilizzare gratuitamente un immobile.

La registrazione va effettuata entro venti giorni dalla data di stipula del contratto, presentando all’Agenzia delle Entrate:

  • il contratto in duplice copia. E’ dovuta l’imposta di bollo, che viene apposto mediante  contrassegni telematici, pari a 16 euro ogni quattro facciate scritte o ogni 100 righe;
  • modello 69 per la richiesta di registrazione, scaricabile dal sito dell’Agenzia delle Entrate, in duplice copia;
  • la ricevuta di pagamento dell’imposta di registro pari a 200 euro. Essa deve essere corrisposta utilizzando il modello F23 (scaricabile dal sito dell’Agenzia delle Entrate) e indicando come codice tributo “109T”;
  • la copia dei documenti di identità del comodante e del comodatario.

Come hai visto, dare una casa in prestito è possibile, ma occorre che il comodatario sia una persona di cui fidarsi. E anche in questo caso, è prudente mettere tutto per iscritto, in modo dettagliato e puntuale, per evitare brutte sorprese.

Acquisto di casa in Italia per l’italiano che risiede e lavora negli Usa

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Sono una cittadina italiana che lavora e risiede negli USA da molti anni (iscritta AIRE) e vorrei acquistare ora un immobile in Italia per poi abitarlo tra qualche anno, quando andrò in pensione. Qual’e il metodo migliore dal punto di vista normativo legale, inclusi i costi /rischi associati, per trasferire denaro dagli USA in Italia per l’acquisto di un immobile ad uso personale da parte di un cittadino AIRE-USA? Se possibile, avrei bisogno di un consulente professionale con studio a Verona.

Le norme che disciplinano la residenza estera dei cittadini italiani ed americani sono molte e complesse, tuttavia nel caso specifico le problematiche potrebbero provenire forse maggiormente dalla fiscalità americana. 

In linea generale il cittadino italiano, iscritto AIRE, residente estero, che possa dimostrare per documenti e fatti (contratti di affitto, di lavoro, consumi, ecc.) la propria residenza all’estero, per il fisco italiano non è più un soggetto tassabile a meno che non produca redditi sul territorio italiano. 

Qualora il cittadino italiano residente estero produca in Italia singole categorie reddituali – come potrebbe capitare a qualsiasi altro soggetto non residente in Italia – verrà tassato solo sul reddito territorialmente prodotto, ad esempio qualora la richiedente fosse proprietaria di un immobile in Italia e lo affittasse a terzi, il reddito di locazione del fabbricato dovrebbe essere dichiarato in Italia e la contribuente dovrebbe presentare la dichiarazione dei redditi come “soggetto non residente”. 

Tuttavia, simmetricamente, la richiedente dovrebbe verificare presso il proprio professionista americano la eventuale sottoposizione a tassazione del reddito prodotto in Italia, in quanto gli Usa applicano il principio della tassazione mondiale dei redditi ovunque prodotti, almeno a livello federale, dunque la residenza americana della richiedente comporta la necessità di verificare i profili di tassazione americana dei redditi prodotti in Italia. 

Pertanto il semplice trasferimento di fondi da un conto corrente americano ad un conto corrente italiano, allo scopo di accumulare i denari necessari al compimento di una operazione immobiliare, non causa il sorgere di profili di illegittimità in capo al soggetto non residente, in Italia, a condizione che il conto corrente italiano sia un conto “non residenti” e che la richiedente possa dimostrare, in caso di verifica, l’origine dei fondi e, prudenzialmente anche se non obbligatorio, la avvenuta tassazione negli Usa dei denari poi inviati in Italia, nonché a condizione che la residenza americana sia effettiva e dimostrabile. 

Per quanto riguarda l’esplicita richiesta di un professionista con studio in Verona, lo scrivente esercita la propria attività professionale anche in Verona e lo Studio ha già esperienza in materia di tassazione di redditi cross-border di cittadini italiani residenti Usa e viceversa, nonché partecipa ad un network professionale che comprende anche studi americani. Si fa presente infine che gli Stati Uniti applicano il principio “cittadinanza = residenza” pertanto in caso la richiedente possedesse la cittadinanza americana la risposta al quesito non cambierebbe ma sarebbe necessario un approfondimento sul versante americano. 

Articolo tratto dalla consulenza resa dal dott. Mauro Finiguerra 

Terreno edificabile: se la vendita è formale si pagano tasse?

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È sempre operativa la sentenza della CTR Potenza n. 407-2015 che sostiene che non vi siano tasse sulla vendita di un terreno edificabile solo formalmente? Successivamente ad essa sono intervenute decisioni avverse da parte dell’Agenzia delle Entrate? 

In tema di plusvalenza tassabile per la vendita di un terreno edificabile vi sono state diverse pronunce, anche della Corte di Cassazione. La norma di legge (art. 67 Tuir) prevede la tassazione (come redditi diversi) delle plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di “terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”. È proprio la definizione di “suscettibilità di utilizzazione edificatoria” a far sorgere il dubbio interpretativo, risolto a favore del contribuente nella sentenza della CTR Potenza citata dal lettore. Difatti il terreno, a prescindere dalla formale qualificazione come “edificabile”, potrebbe di fatto non essere utilizzabile per edificare, con la conseguenza che l’eventuale operazione vendita non può creare maggior valore tassabile. 

In tal senso si riscontrano anche recenti sentenze della Cassazione, da ultimo Cass. sent. n. 1094 del 18 gennaio 2017, secondo cui, al fine di verificare la suscettibilità di utilizzo edificatorio, occorre guardare alla destinazione effettiva dell’area, “in quanto la potenzialità edificatoria, desumibile oltre che da strumenti urbanistici adottati o in via di adozione, anche da altri elementi, certi ed obiettivi, che attestino una concreta attitudine dell’area all’edificazione, è un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore dei terreni e rappresenta, pertanto, un indice di capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 Cost.” (Cass. n. 20950 del 2015, n. 25273 del 2014). 

Tuttavia, occorre tener presente un altro aspetto fondamentale: un terreno oggi potrebbe non essere potenzialmente edificabile, ma un domani si. Ciò può comportare un aumento di valore tassabile secondo la Cassazione. In altri termini, dato che il legislatore parla di “suscettibilità”, si riferisce al concetto di possibilità e probabilità edificatoria, anche futura. 

È ovvio che, qualora un terreno non sia, neanche in futuro, potenzialmente edificabile per ragioni di superficie o di particolari vincoli, un’eventuale tassazione di plusvalenza sarebbe illegittima. 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Maria Monteleone 

Il certificato di residenza

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Il certificato di residenza è il documento che attesta dove risiede il soggetto richiedente e viene spesso richiesto al cittadino per diverse finalità. E’ dunque importante sapere come ottenerlo, quanto costa e qual è il suo valore giuridico. 

Potremmo trovarci di fronte alla necessità di dover esibire un certificato di residenza a una pubblica amministrazione o a un privato. Capita quando si partecipa a un bando, a un concorso oppure quando si ha a che fare con un contratto con una banca. Cos’è il certificato di residenza? Si tratta di quel documento, rilasciato dal Comune ove risiede il cittadino, che certifica dove questi vive stabilmente, ossia dove ha fissato la propria dimora abituale. Ci sono diverse modalità per chiedere una copia del certificato di residenza. Sulla base del percorso prescelto varieranno i tempi necessari ad ottenere il documento ed i costi. In determinate circostanze tassativamente previste dalla legge è possibile evitare di richiedere il certificato di residenza producendo una semplice autocertificazione (detta anche «dichiarazione sostitutiva»). Esiste infine il certificato storico di residenza che, a differenza del certificato di residenza ordinario, è un documento che dà atto di tutti i cambi di residenza all’interno del Comune effettuati dal soggetto richiedente. La giurisprudenza, tuttavia, non riconosce valore di prova a questo documento come vedremo nel prosieguo.

Che cos’è la residenza?

La residenza è il luogo in cui un determinato soggetto ha stabilito la propria dimora abituale, ossia, il luogo in cui quel soggetto vive in modo stabile e duraturo [1]. La giurisprudenza ha chiarito che per individuare la residenza di una persona si deve considerare da un lato il luogo in cui quella persona vive stabilmente ed ha la sua vita sociale e dall’altro l’intenzione del soggetto, ossia la sua volontà di stare stabilmente in quel luogo [2].

Non esistono delle regole fisse per stabilire la residenza di una persona o un numero di giorni minimi di permanenza nell’abitazione in cui si dichiara di risiedere. La valutazione da farsi, infatti, per stabilire la residenza di un individuo è complessiva. Se, ad esempio, un padre di famiglia è spesso fuori casa per lavoro, anche per periodi molto lunghi, la sua residenza resta comunque nella città e nell’abitazione in cui vive la sua famiglia ed in cui il padre di famiglia, quando torna dal lavoro, ha la propria vita sociale, la propria vita sentimentale, la propria famiglia.

La residenza può coincidere o meno con il domicilio del soggetto, ossia il luogo in cui il soggetto ha fissato i propri affari o interessi. L’esempio tipico in cui la residenza coincide con il domicilio è quello del libero professionista (avvocato, architetto, ingegnere, etc.) che stabilisce all’interno della propria abitazione il proprio studio professionale. In questo caso è evidente che il domicilio e la residenza coincidono perfettamente. Possiamo più semplicemente dire che la residenza deve necessariamente coincidere con la dimora ossia con il luogo ove un soggetto di solito mangia e dorme, a prescindere da provvisori spostamenti. Non è possibile fissare la residenza in una dimora dove non si vive abitualmente. In tal caso si commette il reato di falso in atto pubblico.

Certificato di residenza: che cos’è e quanto dura?

In alcuni casi si ha l’esigenza di certificare, con un apposito documento, il luogo in cui è fissata la propria residenza. Ciò può essere necessario a vari fini e, di solito, tale necessità nasce da un rapporto con la pubblica amministrazione. Si pensi alla famiglia che vuole iscrivere il proprio figlio all’asilo nido comunale. In questo caso la struttura scolastica potrebbe chiedere alla famiglia il certificato di residenza del bimbo perché, ad esempio, l’iscrizione al nido è riservata a chi risiede in quel comune oppure ai residenti viene applicato uno sconto sulla tariffa o un’altra agevolazione.

In questo ed in molti altri casi ci si deve procurare il certificato di residenza. Si tratta, in estrema sintesi, di un documento che certifica il fatto che la residenza è stata fissata in un determinato Comune e in un determinato indirizzo di residenza. Questo documento non vale per sempre. Dal momento del rilascio da parte del Comune, infatti, il certificato di residenza ha una durata di sei mesi, decorsi i quali, in genere, è necessario chiederne uno nuovo.

Certificato di residenza: come richiederlo?

Gli enti pubblici, al pari delle aziende private, hanno progressivamente introdotto l’uso della tecnologia anche per snellire i rapporti con i cittadini. Oggi, dunque, a differenza del passato, il certificato di residenza, così come molti altri documenti, può essere richiesto al Comune in varie modalità, delle quali alcune anche telematiche.

In particolare, tale documento può essere richiesto al Comune di appartenenza:

  • personalmente, recandosi all’Ufficio Anagrafe del Comune in cui si ha la residenza;
  • telematicamente, facendone richiesta online tramite il sito web del Comune di appartenenza;
  • via e-mail;
  • contattando telefonicamente il Comune.

In ogni caso, essendo un documento rilasciato dal Comune, consigliamo di verificare quali sono le modalità di richiesta del certificato di residenza ammesse nel proprio Comune di residenza.

Certificato di residenza: quanto tempo per ottenerlo?

Come abbiamo detto è il Comune di appartenenza a gestire la richiesta e, per questo, non può essere stabilito un tempo di attesa valido in tutti i comuni. In generale, se la domanda viene presentata direttamente all’ufficio Anagrafe del Comune, il certificato viene rilasciato immediatamente.

Il tempo di attesa dipende dunque dalla fila che c’è all’ufficio. Quando, al contrario, la richiesta viene fatta online o via email, il certificato potrà essere recapitato immediatamente o si dovrà attendere qualche giorno. I tempi di attesa dipendono molto anche dall’efficienza del Comune. I professionisti che devono scaricare spesso i certificati di residenza, si avvalgono di servizi a pagamento che scaricano il certificato in tempo reale, un po’ come avviene per le visure delle società.

Si pensi agli avvocati che per citare in giudizio un soggetto devono sapere a quale indirizzo recapitargli la citazione e dunque devono estrarre il suo certificato di residenza.

Certificato di residenza: quanto costa?

Il costo del certificato di residenza dipende dall’uso che se ne deve fare. In alcuni casi può essere sufficiente un certificato in carta semplice, che costa solo 52 centesimi, in altri invece può essere necessario il certificato con bollo. In questo caso occorrerà munirsi di una marca da bollo da euro 16,00 a cui vanno aggiunti eventuali costi di spedizione e i diritti di copia e segreteria.

Complessivamente comunque, il costo non supera gli euro 17,00. Quando, invece, come vedremo nel prosieguo, il cittadino può presentare un’autocertificazione, il costo è pari a zero, poiché la dichiarazione sostitutiva non è soggetta a diritti e bolli, né ad altri costi.

Certificato di residenza: come evitarlo con l’autocertificazione?

In alcuni casi è possibile evitare di farsi rilasciare il certificato si residenza ed è possibile sostituire lo stesso con una semplice autocertificazione. Ciò avviene, in particolare, quando il certificato di residenza deve essere presentato a una pubblica amministrazione. In questi casi il cittadino può evitare di ottenere il certificato e compilare una autocertificazione di residenza o dichiarazione sostitutiva [3].

La legge, infatti, per snellire le procedure ed evitare di ingolfare le pubbliche amministrazioni quando non strettamente necessario, prevede che gli enti pubblici che richiedono questo tipo d’informazioni al cittadino sono tenute ad accettare le autocertificazioni redatte e sottoscritte dal cittadino stesso, per non gravarlo dell’obbligo di presentare il certificato di residenza in carta semplice o con bollo. L’autocertificazione, di cui proponiamo un modello alla fine di questo articolo, non è altro che una dichiarazione con cui il cittadino dichiara dove ha la propria residenza assumendosene tutte le responsabilità. È bene ricordare, infatti, che dichiarare cose false nelle autocertificazioni è un reato penale. Dunque, è bene dichiarare sempre il vero.

Certificato storico di residenza: che cos’è?

Il certificato storico di residenza è un documento del tutto analogo al certificato di residenza. La differenza fondamentale sta nel fatto che, a differenza di quello ordinario, il certificato storico di residenza attesta tutti i cambi di residenza del soggetto all’interno del Comune. Il certificato di residenza ordinario, invece, attesta dove il soggetto risiede al momento della richiesta ma non dove ha risieduto in passato. Le modalità per richiederlo sono le stesse previste per certificato ordinario, così come i tempi di attesa per il rilascio. E’ possibile chiedere il certificato storico di residenzaanche di persone decedute o emigrate in altro Stato.

Certificato storico di residenza: qual è il suo valore probatorio?

La giurisprudenza si è pronunciata sul valore probatorio di un certificato storico di residenza. In sostanza, ha stabilito se il certificato storico di residenza vale come una prova all’interno del processo oppure è solo un elemento da considerare ma non è una prova schiacciante [5]. Ebbene, la Cassazione ha precisato che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo con riferimento al luogo dell’effettiva abituale dimora, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro lo stesso certificato storico di residenza.

La Cassazione, in sostanza, afferma che la sostanza prevale sempre sulla forma. Se, dunque, si dimostra in giudizio con altri mezzi che un soggetto ha vissuto stabilmente a Catania negli ultimi dieci anni e lì ha fissato la sua dimora abituale non conta che nei certificati di residenza c’è scritto che ha cambiato residenza diverse volte in città diverse da Catania.  Il certificato è un indizio, un “suggerimento” del quale tenere conto, ma non è una prova insuperabile. Prevale sempre e comunque la realtà dei fatti sulla realtà delle carte.


Termine di grazia per le locazioni a uso commerciale

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È possibile ottenere un termine di 90 giorni per pagare l’affitto per il magazzino, l’ufficio o il negozio in caso di procedimento di sfratto?

Hai un negozio. Il locale è in affitto da diversi anni e, se all’inizio gli affari ti hanno consentito di mantenere l’attività commerciale, negli ultimi tempi le cose non vanno più come prima. I clienti si sono ridotti e questo sta comportando una diminuzione degli utili. Per fare alcuni investimenti e rinnovare il magazzino hai attinto dalla liquidità di cassa; ora però non hai più i soldi per pagare l’affitto. Il proprietario del magazzino ti ha dato del tempo per metterti in regola, ma non sei riuscito a rimetterti in carreggiata. Così hai ricevuto una lettera dal locatore con cui ti viene intimato lo sfratto. Ti dovrai presentare in tribunale, davanti a un giudice. Ti chiedi se, in quella circostanza, potrai chiedere un ulteriore termine per racimolare il denaro necessario a sanare la morosità. Sai infatti che esiste il cosiddetto termine di grazia, ossia 90 giorni che vengono sempre dati a un inquilino, dopo la prima udienza, affinché questi possa evitare la risoluzione del contratto di locazione. Il problema però è che, nel tuo caso, si tratta di un affitto a uso diverso rispetto a quello abitativo. La tua speranza è che vi sia una legge che preveda il termine di grazia per le locazioni a uso commerciale. La questione è stata presa in considerazione dalla Cassazione con una recente sentenza [1].

La Corte ha chiarito se la previsione, prevista in modo espresso dalla normativa in tema di locazioni a uso abitativo, può essere applicata in via analogica anche alle altre forme di locazione. In questo articolo ti spiegheremo qual è stata la soluzione interpretativa sposata di giudici e quindi se l’affittuario di un negozio, un locale, un bar o qualsiasi altra attività commerciale può chiedere, anche se la procedura di sfratto è già “andata avanti”, i 90 giorni di tempo per pagare il debito.

Cos’è il termine di grazia?

Il tema controverso è ancora quello del mancato pagamento dell’affitto, una situazione in cui la legge viene in soccorso dell’inquilino moroso. A quest’ultimo infatti viene consentito di evitare lo sfratto pagando l’arretrato anche alla stessa udienza in tribunale. E non solo. Questi può chiedere al giudice un ulteriore termine di 90 giorni, a decorrere dalla prima udienza, versando le rate dell’affitto insolute con interessi e spese di procedure; se ciò avviene, il tribunale rigetta la richiesta di risoluzione del contratto avanzata dal proprietario di casa. Per quanto la legge subordini la concessione di questo beneficio alla dimostrazione di un’effettiva difficoltà economica, la giurisprudenza ormai lo concede a tutti, senza neanche le prove. In pratica, le condizioni di difficoltà vengono desunte implicitamente dal mancato pagamento.

Se il conduttore richiede il termine di grazia per sanare la morosità, non può più presentare opposizione alla convalida di sfratto [2]. La richiesta del termine di grazia è, infatti, incompatibile con l’opposizione alla convalida in quanto presuppone che non sia contestata la domanda del locatore [3].

  • Il giudice può adottare i seguenti provvedimenti:
  • assegnare un termine non superiore a 90 giorni per provvedere al pagamento delle somme dovute. Se però il conduttore dimostra che le precarie condizioni economiche in cui si trova dipendono da disoccupazione, malattie gravi, o altre comprovate condizioni di difficoltà assegna un termine non superiore a 120 giorni;
  • rinviare l’udienza a non oltre 10 giorni dopo la scadenza del suddetto termine. Il termine per sanare la morosità è perentorio e non è prorogabile né per motivi sopravvenuti né su istanza proposta prima della scadenza.

All’udienza così rinviata, se il conduttore ha provveduto al pagamento integrale, il giudice chiude il procedimento di sfratto e l’affitto prosegue regolarmente come prima.  

Se invece il pagamento è incompleto o non è avvenuto e all’udienza il locatore dichiara che la morosità persiste, il giudice convalida lo sfratto. 

Il termine di grazia si applica alle locazioni a uso commerciale?

Sono tante le affinità tra la locazione a uso abitativo e quella a uso commerciale. Di recente la Suprema Corte ha detto che anche per quest’ultima vale l’obbligo di registrare il contratto a pena di nullità, con la conseguenza che non è possibile la locazione di un negozio o un magazzino stipulata verbalmente. Leggi sul punto: Locazione commerciale non registrata: è nulla?

Secondo la Cassazione la norma che prevede la concessione di un termine di grazia [4] si applica solo alle locazioni a uso abitativo. Pertanto, nelle locazioni di immobili ad uso commerciale non è possibile ottenere, alla prima udienza, il termine di 90 giorni per il pagamento dei canoni scaduti e relativa sanatoria. Con la conseguenza che l’offerta o il pagamento del canone, avvenuti dopo l’intimazione di sfratto, non hanno valore. 

Certo questo non toglie che all’udienza di sfratto gli avvocati delle parti si mettano d’accordo e congiuntamente chiedano la concessione di un termine e il rinvio ad altra udienza per consentire all’affittuario di sanare la morosità, ma ci vuole ovviamente il consenso del locatore ossia del proprietario dell’immobile. 

Frugare nella spazzatura è violazione della privacy?

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Le regole sulla raccolta differenziata: cassonetti, buste della spazzatura e immondizia non sono coperti dalla privacy perché, una volta buttati, se ne perde la proprietà.

L’altro giorno hai visto uno dei condomini del tuo palazzo gironzolare intorno ai cassonetti della spazzatura, come se stesse cercando qualcosa o volesse nascondersi da qualcuno. È una persona strana, con cui hai avuto in passato diverse discussioni. È litigioso, sospettoso, curioso, ma soprattutto imprevedibile. D’un tratto ti sorge il dubbio che questi possa frugare nelle buste della spazzatura alla ricerca di tracce e informazioni sui vicini di casa, magari solo per curiosità o per attuare qualche ricatto. Alla fine il sospetto si è trasformato in certezza quando lo hai visto, con la coda dell’occhio, infilare le mani in uno dei bidoni dell’immondizia. Vorresti fotografarlo per denunciarlo alla polizia o all’amministratore, ma è notte e l’immagine, soprattutto da lontano, viene sfocata. Cosa puoi fare contro di lui? Sei infatti convinto che frugare nella spazzatura è violazione della privacy.

Nei sacchetti si trovano informazioni di tutti i tipi: dagli estratti conto bancari alle bollette delle utenze, dalle scatole vuote dei medicinali agli scontrini della spesa, dai semplici appunti ai fogli con documenti di lavoro, dalle tessere sconto dei negozi alle prescrizioni del medico curante. C’è chi, ingenuamente, non strappa la carta e la lascia alla mercé di chiunque e chi, invece, più sospettoso, la fa in mille pezzi in modo che non sia leggibile. Ma cosa si può fare se scopri qualcuno che apre un sacchetto dell’immondizia altrui? Se dovessi aver buttato un oggetto che non usi più, convinto che la sua unica destinazione sia il macero, mentre poi lo vedi in casa di un’altra persona, la potresti denunciare per furto? Se hai a cuore la tua riservatezza e non vuoi che nessuno si faccia i fatti tuoi, ti consiglio di leggere fino in fondo questo articolo. Qui ti spiegheremo infatti se frugare nella spazzatura è violazione della privacy e cosa puoi fare per difenderti se dovessi scoprire che uno dei tuoi vicini di casa sta facendo il detective con i tuoi rifiuti.

Garante della Privacy: non frugare nella spazzatura altrui

C’è un vecchio documento emesso dal Garante della Privacy, risalente a più di 10 anni fa, con cui l’Autorità ha dettato alcune linee guida sulla raccolta differenziata per tutelare la riservatezza dei cittadini. Questa guida ha creato un po’ di confusione negli utenti i quali hanno erroneamente ritenuto che, in tal modo, il Garante abbia voluto dire che frugare nella spazzatura è violazione della privacy. In realtà non è così. Il testo del documento conteneva raccomandazioni ai Comuni e non ai cittadini. Ad esempio – si legge in tale provvedimento – l’ente locale non può imporre l’utilizzo di sacchetti dei rifiuti trasparenti o con etichette adesive nominative per la raccolta “porta a porta”; in questo modo infatti chiunque potrebbe controllare il contenuto dell’immondizia e risalire alla sua provenienza. È invece lecito contrassegnare il sacchetto con un codice a barre, un microchip o con etichette intelligenti (Rfid).

Ed ancora l’Authority ha escluso la possibilità di controlli indiscriminati sulle buste della spazzatura per verificare il rispetto delle norme sulla differenziata; per tutelare la privacy dei cittadini le ispezioni possono arrivare solo se ci sono fondati dubbi di violazione della normativa e se il responsabile non è identificabile in nessun altro modo.

Insomma, il Garante non ha mai detto che frugare nella spazzatura è una violazione della privacy. E difatti non lo è. Cerchiamo di capirne la ragione.

Aprire le buste della spazzatura altrui è vietato?

A ben vedere, nel momento in cui una persona butta un oggetto nei cassonetti della spazzatura comunale si disfa non solo dell’oggetto in sé da un punto di vista materiale ma anche della relativa proprietà a cui, così facendo, rinuncia per sempre. In questo stesso istante perde anche ogni diritto sulla cosa che non può più tutelare davanti a un giudice o a un’autorità di pubblica sicurezza (la polizia o i carabinieri). Se butti un letto o un comodino non puoi poi lamentarti se qualcuno lo prende per sé e lo utilizza, non puoi chiedergli un corrispettivo, né puoi lamentarti che questi ha violato la tua privacy. Lo stesso discorso vale anche per la carta straccia.

Il passaggio cruciale di tutto il ragionamento è dunque il seguente: quando metti un oggetto qualsiasi in un bidone della differenziata o dell’indifferenziata non ne sei più titolare. La proprietà passa al Comune. Se così non fosse, del resto, l’ente locale non potrebbe fare della spazzatura ciò che vuole: il macero, il riciclaggio, la distruzione, ecc.

La conseguenza è abbastanza chiara: come abbiamo già scritto in passato, frugare nella spazzatura è reato, ma non ai danni del cittadino bensì del Comune, nuovo proprietario dei rifiuti abbandonati. Il reato è ovviamente quello di furto (e non quindi di violazione della privacy) la cui pena è della reclusione fino a tre anni e con la multa da 154 euro a 516 euro. In più c’è l’aggravante per aver rubato cose esposte (per consuetudine o necessità) alla pubblica fede (ossia in mezzo a una strada).

Che fare se qualcuno fruga nella spazzatura?

Se trovi qualcuno che fruga nella tua spazzatura puoi comunque agire, non in tutela della tua privacy ma degli interessi del Comune, sebbene così facendo, in modo indiretto, finisci per tutelare te stesso. Puoi infatti recarti dalla polizia municipale: le autorità, infatti, avendo notizia di un reato dovranno procedere, ma sempre a tutela dell’interesse della pubblica amministrazione.

Controllo rumori molesti: come si misurano e chi chiamare

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Il controllo della normale tollerabilità effettuato in condizioni di silenzio assoluto, senza cioè tenere conto dei rumori di fondo, non è valido perché rende facile superare la soglia dei tre decibel.

Ti sarà certamente capitato di non riuscire a dormire a causa dei rumori del condomino del piano di sopra. Se sei fortunato e hai un vicino educato, ti sarà bastata una telefonata per farlo smettere e riportare tutto alla normalità. Ma in gran parte dei casi, chi nasce maleducato rimane tale e, a volte, neanche la diffida di un avvocato ne può mutare le abitudini. Iniziare causa ha di certo il vantaggio di far capire al molestatore che non stai scherzando; in più, con una sentenza in mano, hai la possibilità di procedere contro di lui anche in altri modi, ad esempio con un’azione di tipo penale nel caso in cui, nonostante l’ordine del tribunale di cessare le attività rumorose, questi prosegua imperterrito. Ma come avviene il controllo dei rumori molesti, come si misurano e chi chiamare? A dare qualche interessante indicazione è una recente sentenza della Cassazione [1].

Qui di seguito risponderemo alle domande più frequenti in materia di schiamazzi nei condomini e disturbo della quiete pubblica. Potrai trovare utili queste informazioni anche se vivi in una villetta con due soli appartamenti: anche in questo caso, infatti, si forma un condominio – anche se non avete un amministratore o un regolamento – e si applicano le relative norme. Il condominio infatti è un fenomeno giuridico che si crea in automatico, senza bisogno di atti formali, nel momento in cui la proprietà dell’edificio è divisa almeno tra due (o più) persone.

Ma procediamo con ordine e vediamo come avviene il controllo dei rumori molesti.

Rumori molesti: chi chiamare?

Il primo problema che si pone chi viene svegliato durante la notte dal vicino del piano di sopra, dai cani nel cortile o dal dirimpettaio che tiene la televisione ad alto volume è chi chiamare per farsi difendere.

L’amministratore di condominio? No. L’amministratore non risolve le liti private tra i condomini. Egli quindi non è competente. Potrebbe intervenire solo nel caso in cui, all’interno del regolamento approvato all’unanimità, sia presente una clausola che vieta i rumori oltre una certa ora e, appunto, si versa in tale ipotesi. Difatti compito dell’amministratore è anche quello di far rispettare il regolamento e, se previsto in quest’ultimo documento, applicare anche sanzioni fino a 200 euro.

I carabinieri: i carabinieri possono intervenire solo se il chiasso è tale da svegliare tutto il palazzo o i vicini delle case limitrofe. In tale ipotesi si realizza infatti il reato di disturbo della quiete pubblica che consente di denunciare il molestatore. La denuncia si fa appunto ai carabinieri, alla polizia o alla questura. In alternativa si può depositare la denuncia presso la Procura della Repubblica (ma bisogna aspettare la mattina successiva). Chiamare i carabinieri non ha alcun senso quindi se a sentire i rumori sono solo due o tre condomini, perché in tal caso non c’è alcun reato. Si dovrà allora agire con un avvocato affinché diffidi il molestatore e, in caso di insuccesso, proceda presso il tribunale civile. Quest’ultimo potrà emettere un ordine di cessazione dei rumori e, se vi è prova dei danni fisici, anche l’ordine di versare un risarcimento.

Se sussistono i presupposti del reato, ossia viene molestato un numero indeterminato di persone, l’intervento di polizia o carabinieri ha il vantaggio della redazione di un verbale nell’immediato: le autorità rileveranno i rumori e potranno documentarli in un atto pubblico che poi è anche prova nel processo.

Il sindaco o la polizia municipale? Neanche. Le autorità amministrative non sono competenti a dirimere le controversie tra vicini di casa. Tutt’al più la polizia può intervenire se vengono violate le norme comunali in materia di immissioni rumorose di bar e altri locali.

Chi effettua il controllo dei rumori molesti?

Veniamo ora alla raccolta delle prove per poter denunciare o citare in tribunale il vicino molestatore. Per far ciò c’è bisogno di poter dimostrare al giudice che i rumori sono «intollerabili» ossia superiori alla norma. Per quanto la legge non lo dica espressamente, si considerano tali i rumori che superano i 3 decibel rispetto ai rumori di fondo.

Dimostrare un rumore è molto più facile di quanto si possa pensare. Nel processo penale non è necessario che a denunciare siano tutti i soggetti molestati, basta anche uno. Per quanto invece riguarda la prova, sia nel processo civile che nel penale si procede nello stesso modo. Il giudice può innanzitutto interrogare i testimoni per verificare se, oltre alle parti in causa, ad essere molestati dalle immissioni acustiche sono stati anche altri soggetti. Diversamente potrebbe nominare un perito fonografico.

Nel processo penale vale anche la dichiarazione della vittima che asserisca di essere stata molestata. Questa prova invece non vale nel civile.

Come si misurano i rumori molesti?

Per misurare i rumori molesti non si possono fare le prove “in silenzio assoluto”. Il perito deve cioè valutare le immissioni acustiche anche tenendo conto dei rumori di fondo rispetto ai quali, come detto, deve essere superiore di almeno 3 decibel. Questo perché – ribadisce la Cassazione [1] – i rumori diventano illeciti quando superano la “normale tollerabilità”. Per valutare questo concetto bisogna tenere conto di una serie di circostanze come la dislocazione geografica dell’immobile. Ad esempio in una zona urbana, con il traffico delle auto, le voci dei passanti sotto casa e i normali schiamazzi dei centri urbani, il rumore di fondo è più alto per cui è più difficile che i tacchi del vicino o il volume della tv possa dirsi intollerabile. Al contrario, in una zona residenziale o di campagna è più facile superare la soglia della tollerabilità. Ecco perché non si possono fare le prove del rumore del vicino sulla base del criterio del silenzio assoluto (facile in tal caso sarebbe superare la soglia) ma bisogna invece considerare sempre i normali rumori di fondo che si innestano nell’arco di una normale giornata.

Dice appunto la Corte: «il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante della zona, su cui vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi», e ciò significa che «la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata». In sostanza, «occorre considerare il complesso di suoni, di origine varia, spesso non identificabile, continui e caratteristici della zona sui quali si innestano, di volta in volta, rumori più intensi (prodotti da voci, veicoli, eccetera), tutti elementi che devono essere valutati in modo obiettivo in relazione alla reattività dell’uomo medio, prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate dalle immissioni (condizioni fisiche o psichiche, assuefazione o meno alla rumorosità)».

In definitiva, «non può giungersi a ritenere intollerabili le immissioni sulla base del livello di rumorosità di fondo calcolato nel solo ambiente sottostante alla proprietà del soggetto molestato e in condizioni di assoluto silenzio, prescindendo dalle normali modalità di utilizzo degli immobili e dal livello di rumorosità della zona».

Ordine del sindaco di tagliare l’erba: che fare?

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Sfalcio dell’erba di un terreno o di un giardino: i motivi per impugnare l’ordine del Comune rivolto al proprietario del fondo.

Il sindaco ha il potere di intervenire con provvedimenti urgenti rivolti alla tutela dell’igiene, sanità e sicurezza pubblica. Può pertanto ordinare ai proprietari di terreni di provvedere tempestivamente alla bonifica, allo scolo delle acque stagnanti, allo sgombero delle aree divenute ricettacolo di rifiuti (anche se abbandonati da terzi) o allo sfalcio dell’erba. Già! hai compreso bene: il sindaco può ordinare di tagliare l’erba. Ovviamente, per farlo, dovrà anche spiegarne le ragioni. Non può certo emettere un’ordinanza di questo tipo solo a tutela dell’estetica del giardino o delle aree circostanti; devono al contrario sussistere ragioni gravi e urgenti a tutela della collettività. È ad esempio il caso di un campo abbandonato da anni a sé stesso, dove la vegetazione è divenuta talmente alta e fitta da divenire abitacolo di animali pericolosi come topi, serpenti e zanzare, causa di aria insalubre per i vicini o di possibili intralci alla circolazione nelle strade limitrofe. Insomma, alla base dell’ordine del sindaco di tagliare l’erba devono sempre sussistere delle ragioni volte a preservare l’igiene, la sicurezza o la sanità pubblica.

Di certo la questione interessa più i proprietari di fondi estesi o di terreni ad uso agricolo e non, spesso abbandonati perché gli eredi non si mettono d’accordo tra loro o perché il proprietario non riesce a trovare acquirenti o magari è emigrato all’estero. Difficilmente – anche se non è impossibile – si potrà emettere un’ordinanza di questo tipo nei confronti del piccolo giardino prospiciente casa, le cui dimensioni non implicano un pericolo per la collettività.

Una recente sentenza del Tar Veneto [1] spiega come deve avvenire il procedimento di formazione di tale ordinanza e quale parte può avere il cittadino destinatario dell’ordine: insomma, spiega quali sono i diritti di quest’ultimo e cosa fare se viene raggiunto dall’ordine del sindaco di tagliare l’erba del proprio campo. Vediamo cosa è stato detto in questo caso.

Immaginiamo quindi che tu abbia un terreno adiacente alla strada comunale. Non lo hai mai voluto coltivare, un po’ perché è troppo piccolo e quindi non conveniente, un po’ perché non è questa la tua attività. Lo hai messo in vendita ma nessun offerente si è mai fatto avanti. Negli anni il campo è rimasto pressoché abbandonato: nessuno si è preso cura di sfrondare gli alberi, tagliare l’erbaccia, bonificarlo. L’eccessiva vegetazione in prossimità della via pubblica, che potrebbe costituire un pericolo per gli automobilisti mette in allarme il Comune che all’improvviso ti notifica un ordine con cui ti commina delle sanzioni e ti impone di tagliare l’erba. Contro questa specifica disposizione, adottata senza prima avviare un procedimento amministrativo e senza un preavviso, ti opponi davanti al giudice. Il Comune però si difende dicendo che l’urgenza del caso non ha consentito di avviare un’istruttoria lunga e farraginosa sicché si è stati costretti a inviare direttamente l’ordinanza. Chi ha ragione?

Secondo la pronuncia in commento, prima di arrivare all’ordine categorico di sfalcio dell’erba in un’area privata, il Comune deve interloquire con il cittadino. Non può limitarsi a sanzionarlo e poi notificargli un’ordinanza di ripristino da parte del sindaco. 

Non è corretto pertanto ordinare formalmente ad un utente di provvedere allo sfalcio della vegetazione presente nel suo giardino senza prima avergli comunicato l’avvio del procedimento. Anche perché il Comune, nell’immediatezza del necessario sopralluogo può facilmente adottare accorgimenti utili a limitare il rischio per le persone e la circolazione dei veicoli.  

Insomma, questo significa che l’eventuale ordine rivolto al cittadino e piombatogli addosso dalla sera alla mattina è illegittimo e si può considerare davanti al tribunale amministrativo regionale (il Tar) entro 60 giorni dalla sua notifica. 

L’utilità di una fase amministrativa preventiva, in cui si favorisce il dialogo tra l’ente locale e il proprietario, ha il vantaggio di consentire a quest’ultimo da un lato di evitare le sanzioni, e dall’altro di concordare modalità e tempi per la potatura, eventualmente coordinandosi con le autorità e gestendo le operazioni in tutta tranquillità. Tranquillità che invece non sussiste se viene già emesso l’ordine in quanto la sua mancata attuazione può comportare il rischio di un procedimento penale. Esiste infatti un articolo del codice penale [2] a norma del quale chi non rispetta un provvedimento dell’Autorità, impartito per ragioni di sicurezza o di igiene, commette reato ed è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro. Si tratta quindi di una lama al collo che chi è in buona fede vorrebbe certamente evitare. 

A fondamento dell’ordine di sfalcio dell’erba non possono sussistere generiche motivazioni; il Comune deve specificatamente chiarire l’omesso avviso di avvio del procedimento e indicare quali sono stati i motivi dell’urgenza che hanno impedito la previa comunicazione al proprietario del fondo.  

In effetti anche se la legge [3] prevede la possibilità di omettere questa incombenza formale in caso di particolare urgenza, tuttavia, nel caso sottoposto al Tar Veneto non sussistevano i motivi della necessità e dell’urgenza (o meglio, il Comune non li ha specificati). Il provvedimento era infatti particolarmente generico, specifica la sentenza. Inoltre il Comune, «nelle more del rapido espletamento del contraddittorio procedimentale, potrebbe adottare opportuni accorgimenti (per esempio, recintare l’area interessata, apporre cartelli e segnalazioni di pericolo, ecc), così da scongiurare rischi per persone e cose». 

In sintesi, il sindaco, prima di intimare lo sfalcio di un giardino, deve avvertire l’interessato e concordare con lui il ripristino dell’area. Diversamente se agisce in modalità troppo affrettata il rischio per l’amministrazione locale è di ritrovarsi pure a pagare le spese del ricorso.

7 modi con cui l’amministratore di condominio può fregarti i soldi

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Irregolarità dell’amministratore di condominio nella ripartizione delle spese tra i vari condomini.

Neanche la riforma del 2012 è riuscita a risolvere i numerosi contrasti che nascono all’interno dei condomini tra amministratori e condòmini. I principali motivi di attrito continuano a ruotare attorno alla gestione della cosa comune (ad esempio il denaro raccolto e depositato sul conto) e ai criteri di divisione delle spese. «Cosa ne ha fatto dei soldi che gli abbiamo dato e come mai ci chiede di pagare ancora?»; «Perché io devo pagare di più degli altri?»; «Non sarà mica che l’amministratore di condominio sta fregando i soldi?», sono domande tipiche che, in modo diretto o indiretto, i proprietari degli appartamenti si fanno quando hanno a che fare con un amministratore dalla gestione poco cristallina. Spesso però il singolo abdica alla propria difesa perché delega al gruppo – ossia all’assemblea – ogni contestazione, un po’ per pigrizia, un po’ per evitare di imbarcarsi in costosi e lunghi contenziosi. Ma l’assemblea, si sa, non è facile da aggregare; inoltre le riunioni e l’ordine del giorno vengono dettati dallo stesso amministratore che, certo, se sospetta del malcontento, tenterà di sedarlo sul nascere tenendolo lontano dalle riunioni.

Per tenersi quantomeno aggiornati sui propri diritti ecco dunque questa mini guida su 7 modi con cui l’amministratore di condominio può fregarti i soldi, su come cioè questi può chiederti – in buona o malafede – delle somme non dovute. Chiaramente, non potrai limitarti a sbuffare o a criticarlo in pubblico (cosa che peraltro potrebbe costarti una querela per diffamazione) ma dovrai agire in tribunale. E qui spesso si inseriscono dei termini per le azioni giudiziarie che, se non rispettati, comportano la sanatoria di qualsiasi decisione illegittima.

Ma procediamo con ordine e vediamo in che modo l’amministratore di condominio può fregarti.

Criteri di ripartizione delle spese dell’acqua e del riscaldamento

In ogni condominio con un contatore unico per l’acqua, la ripartizione della bolletta idrica deve avvenire secondo millesimi. L’amministratore non può stabilire criteri differenti come ad esempio quello basato sul numero degli occupanti o del tipo di destinazione dell’immobile (uso ufficio, uso attività commerciale, ecc.). Il regolamento di condominio o l’assemblea potrebbero fissare delle regole differenti in aggiunta o in sostituzione a quella dei millesimi come appunto quello sul numero di teste all’interno dell’unità immobiliare; solo in questo caso sarebbe legittima la richiesta dell’amministratore di fornire i dati sul numero degli occupanti l’appartamento. L’assemblea può modificare il criterio di ripartizione delle spese dell’acqua, basato per legge in base ai millesimi, solo con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti, in rappresentanza di almeno 500/1.000. Se, invece, il regolamento di condominio che stabilisce i criteri di divisione dei consumi è stato approvato all’unanimità, è necessario il consenso di tutti i condomini anche per la modifica [1].

Se sono stati riscontrati errori di calcolo nella ripartizione effettuata dall’amministratore in merito alla suddivisione dei metri cubi di acqua, l’unico strumento che la legge offre (qualora l’amministratore non provveda a una rettifica degli stessi calcoli mediante la convocazione di un’assemblea condominiale) è l’impugnazione della relativa delibera che deve avvenire entro 30 giorni.

Il criterio migliore e più equo per stabilire la divisione delle spese dell’acqua è quello che si basi sui consumi registrati da contatori individuali. Ma perché questo possa essere attuato è necessario che ogni appartamento ne sia munito (e non solo alcuni).

Anche per il riscaldamento valgono le stesse regole: l’unico criterio resta quello della tabella millesimale allegata al regolamento. L’amministratore non può operare dei correttivi con dei coefficienti che non trovano riscontro nella carta. Anche qui l’adozione dei contabilizzatori di calore dovrebbe togliere ogni problema sulla gestione poco equa del denaro.

Riparto dei buchi di bilancio tra i condomini

Potrebbe succedere che, in un anno, i soldi riscossi dai condomini siano stati di più rispetto alle spese affrontate e che si sia verificato un avanzo di gestione. Queste somme possono essere ripartite tra i singoli condomini (scelta di solito poco utilizzata) oppure vanno riportate all’attivo del bilancio dell’anno successivo. In questo secondo caso potranno essere destinate ad apposita riserva (ad esempio per far fronte a spese impreviste come la manutenzione dell’ascensore o di altre parti dell’edificio) oppure potranno essere imputate alle quote che ciascun condomino dovrà versare (in tal modo si pagherà di meno nei primi mesi).

L’amministratore quindi non può utilizzare l’avanzo di gestione per chiedere un ulteriore compenso che non gli è dovuto in base al mandato ricevuto all’atto della nomina dall’assemblea.

Compensi per lavori straordinari

Nell’ipotesi in cui l’edificio sia stato interessato da lavori straordinari, l’amministratore non può addebitare, al bilancio del condominio, un compenso in proprio favore ulteriore rispetto a quello ordinario. Si tratta di una pratica comune che, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto illegittima a meno che ciò non sia stato chiaramente espresso nel preventivo sottoposto all’assemblea al momento della nomina. Non esistono infatti norme che danno, all’amministratore, il diritto di chiedere una percentuale per le ristrutturazioni eseguite all’interno dello stabile, anche se la sua attività non si limita a un semplice controllo “su carta”, ma è presente giornalmente sul cantiere per verificare che tutto si svolga regolarmente. Tale, infatti, è il compito proprio dell’amministratore che non richiede un ulteriore compenso. Secondo la Cassazione [2] se l’assemblea condominiale non ha mai deliberato un compenso straordinario in favore dell’amministratore, i condomini non possono certo presumere che l’incarico di seguire i lavori nel palazzo sia a pagamento perché, al momento di conferire l’incarico all’amministratore, è già stato stabilito un corrispettivo globale per tutta l’attività di amministrazione del condominio.

Gestione del conto corrente

L’amministratore può far transitare le quote mensili solo sul conto corrente condominiale e non su quello personale. È capitato molte volte però il contrario, specie quando il conto del condominio viene pignorato dai creditori. La finalità è quella di garantire la massima trasparenza nella gestione del denaro comune. L’amministratore che dovesse spostare del denaro sul proprio conto commetterebbe un grave illecito con profili di carattere penale per l’appropriazione del denaro altrui. Il che potrebbe comportarne la revoca immediata per giusta causa.

Pagare gli ammanchi di cassa

L’amministratore non può chiedere ulteriori somme ai condomini per coprire gli ammanchi di cassa determinati dalla mancata riscossione delle quote dai morosi. Se anche il bilancio è in perdita l’amministratore non può che sollecitare un’assemblea condominiale affinché decida il da farsi. Si potrà ad esempio chiedere ai condomini di anticipare le quote dei mesi successivi ma non anche di ripartire i debiti tra coloro che hanno già pagato. Quest’ultima opzione può essere valida solo se approvata all’unanimità. Se anche un solo condomino dovesse pertanto opporsi, la delibera sarebbe illegittima (ma va impugnata entro 30 giorni). In buona sostanza, la regola resta sempre quella della divisione delle spese in base ai millesimi mentre una diversa ripartizione, che addebiti sui condomini virtuosi le quote non riscosse dai morosi, costituirebbe una violazione della norma.

Pagamenti delle quote senza bilancio

L’amministratore ha l’obbligo, almeno una volta all’anno, di convocare l’assemblea per l’approvazione del bilancio consuntivo. Senza la riunione e la votazione dei condomini, non può riscuotere le quote condominiali relative all’annualità non “approvato”, quote che, pertanto, non sono dovute. Quindi, se anche l’amministratore dovesse notificare un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, il decreto è opponibile in assenza di un bilancio consuntivo regolarmente approvato dall’assemblea.

La mancata predisposizione del rendiconto annuale o l’omessa convocazione dell’assemblea per la sua approvazione entro 180 giorni comportano una grave irregolarità  dell’amministratore, sanzionabile con la sua revoca da parte dell’autorità giudiziaria.

Spese anticipate senza urgenza

L’amministratore che anticipa delle spese per conto del condominio per l’ordinaria amministrazione non ha diritto a chiederne la restituzione. Può farlo solo se le spese sono urgenti e indifferibili, fermo comunque l’obbligo di comunicarlo all’assemblea alla prima riunione utile.

Affitto a studenti: si può ospitare qualcuno?

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Subaffitto e ospitalità nei contratti di locazione a studenti universitari fuori sede: si può far dormire un genitore o un fidanzato nell’appartamento senza chiedere il permesso agli altri inquilini?

Sei uno studente universitario fuori sede. I tuoi genitori ti hanno preso una camera in affitto affinché tu possa studiare e frequentare i corsi nella città ove si trova l’ateneo. Nello stesso tempo, però, il padrone di casa ha affittato le restanti camere ad altri studenti che, insieme a te, divideranno l’appartamento per tutto l’anno. Arriverà, a breve, tua madre per darti una mano in prossimità di un importante esame e la ospiterai in camera tua, dove hai un secondo letto. Gli altri studenti si sono opposti all’arrivo di un estraneo che potrebbe sfasare gli equilibri, occupare il bagno e minare la riservatezza della loro quotidianità. Minacciano perciò di dirlo al padrone di casa affinché ti impedisca di farlo. Hai però rinfacciato loro il fatto di aver, in passato, consentito di dormire nell’appartamento ai relativi partner senza creare alcun problema o chiedere il permesso ai compagni. Ti chiedi dunque quali siano i tuoi diritti in merito, se cioè in caso di affitto a studenti, si può ospitare qualcuno come un genitore, un parente o un altro amico.

Di tanto parleremo in questo articolo. Ti forniremo cioè delle specifiche indicazioni in materia di subaffitto ed ospitalità nel caso di contratto di locazione a uso transitorio destinato a studenti universitari: ecco dunque come devi comportarti e quali sono le tue facoltà.

Contratto di locazione a studenti universitari: come funziona?

Il contratto di locazione per studenti “fuori sede”, ossia iscritti a corsi di laurea o di formazione post laurea (specializzazioni master, dottorati, ecc.), richiede che la residenza dello studente sia in una città diversa rispetto a quella ove si trova l’ateneo. Il contratto non è libero ma deve rispettare un modello prestabilito da un decreto ministeriale del 16 gennaio 2017.

L’appartamento deve necessariamente trovarsi nel Comune ove ha sede l’università o in una città limitrofa. L’inquilino deve essere uno studente universitario (o equiparato). Se si verifica tale presupposto, il contratto può essere sottoscritto dal singolo studente (o dai suoi genitori), da gruppi di studenti o dalle aziende per il diritto allo studio. All’interno del contratto è necessario specificare il corso di studi e l’università al quale è iscritto lo studente.

Il contratto per studenti universitari deve avere una durata minima di non meno di 3 mesi e una durata massima di non più di 3 anni. Il contratto si rinnova automaticamente per pari periodo alla prima scadenza, a meno che l’affittuario non comunichi la disdetta al proprietario almeno un mese e non oltre tre mesi prima del termine. 

Trattandosi di un accordo di durata superiore a 30 giorni, è obbligatoria la registrazione all’Agenzia delle Entrate. L’imposta di registro va divisa al 50% tra locatore e conduttore. 

Il padrone di casa può stipulare tanti contratti di affitto per lo stesso appartamento?

Spesso il proprietario di un appartamento stipula tanti contratti di affitto per lo stesso immobile per quante sono le stanze, mantenendo trattative indipendenti e spesso concordano prezzi diversi. Può farlo? La risposta è sì. La legge gli consente infatti di poter affittare anche una sola porzione dell’appartamento, in molti casi suddiviso in stanze indipendenti singole o doppie, e quindi sottoscrivere più contratti per l’uso dello stesso alloggio.

Ciascun contratto è però autonomo rispetto agli altri. Il che significa che ogni studente può ben recedere in qualsiasi momento senza dover trovare un sostituto al suo posto e senza doverlo concordare con gli altri inquilini (ad esempio se uno studente decide di cambiare ateneo o di non frequentare più). Peraltro il suo recesso non può comportare un proporzionale aumento del prezzo del canone per gli altri inquilini (se ciò non viene esplicitamente concordato al successivo rinnovo della locazione), e ciò proprio per via dell’indipendenza tra loro dei vari contratti.

Se gli studenti sono più di uno, ciascuno di essi può esercitare il diritto di recesso in qualsiasi momento, senza fornire motivazione e senza che vi debbano per forza essere i “gravi motivi” che invece sono necessari in caso di recesso del conduttore “unico”. In altri termini se tutto l’appartamento viene affittato a un solo studente, questi può recedere solo per giusta causa mentre invece, se nello stesso appartamento ci sono differenti inquilini, il recesso è libero.

Contratto a studenti universitari: possibile il subaffitto?

Se, di norma, nel contratto ordinario di locazione a uso abitativo, il subaffitto di una camera non può essere vietato (salvo che il contratto disponga diversamente) mentre il subaffitto dell’intero immobile deve essere previamente autorizzato dal proprietario, nella locazione per studenti universitari le regole sono diverse. L’inquilino non può subaffittare una camera salvo che il contratto non disponga diversamente. Diverso, per come diremo qui avanti, è il caso dell’ospitalità.

Contratto a studenti universitari: possibile ospitare amici o parenti?

La Cassazione ha detto che un contratto di affitto non può contenere la clausola con cui vieti all’inquilino di ospitare, per un breve periodo, parenti o amici. Ne abbiamo già parlato in Posso ospitare una persona se vivo in affitto? Questo vale anche per gli studenti universitari. Dunque, ogni inquilino può ospitare parenti, amici e fidanzate per qualche giorno, senza dover chiedere l’autorizzazione agli altri affittuari (che non potranno neanche opporsi) o al padrone di casa. Chiaramente l’ospitalità non deve andare a pregiudicare il diritto degli altri studenti a utilizzare l’immobile. Ad esempio non è possibile ospitare un genitore facendolo dormire sul divano del salotto considerato come stanza in comune a tutti gli inquilini dell’appartamento. 

Agire in sostituzione dell’amministratore di condominio: quando?

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Legittimazione processuale ad agire in caso di inerzia dell’amministratore a difesa degli interessi del condominio: i singoli condomini hanno il potere?

Come in tutte le attività professionali esistono soggetti più solerti e diligenti e altri invece più pigri, anche gli amministratori di condominio non sono tutti uguali: c’è chi è attento alle esigenze dei condomini e chi, invece, pur sollecitato ripetutamente dal gruppo, si attiva con enorme ritardo. Nonostante la legge elenchi gli obblighi incombenti sull’amministratore, il quale è tenuto ad attivarsi per il bene del condominio e delle parti comuni dell’edificio senza che sia a tal fine necessaria una sollecitazione da parte degli interessati, c’è chi è più riluttante ai doveri del proprio mandato. In alcuni casi la giurisprudenza consente ai singoli condomini di agire in sostituzione dell’amministratore di condominio e di svolgere le azioni che altrimenti sarebbero da questi dovute. Ciò può succedere, ad esempio, in tema di interventi urgenti e necessari, di riscossione delle quote condominiali, di convocazione dell’assemblea e fissazione dell’ordine del giorno, di tutela delle parti comuni dello stabile, ecc. Fatta salva la possibilità di rimuovere il professionista poco diligente che non si è attivato nell’esercizio delle proprie funzioni, in questo modo la legge riconosce al singolo un potere di intervento in tutte le situazioni a lui pregiudizievoli.

In altri casi però il singolo condomino non ha alcuna legittimazione ad agire; si pensi all’ipotesi in cui si debba sporgere una querela per conto del condominio. In tali ipotesi, se l’amministratore non si muove è necessario rimuoverlo dall’incarico ricorrendo al giudice.

In questo articolo faremo un’elencazione di tutti quei casi in cui la legge e l’interpretazione dei tribunali riconoscono a ciascuno singolo condomino la cosiddetta “legittimazione ad agire” ossia quando si può agire in sostituzione dell’amministratore di condominio.

Sostituzione dell’amministratore a salvaguardia delle parti comuni

Tra i compiti più importanti che ha l’amministratore vi rientrano le cosiddette “funzioni conservative”, cioè l’attività volta a tutelare non solo l’esistenza delle parti comuni, ma anche il loro uso corretto, in conformità con la loro funzione e con la originaria destinazione.

Quindi, quando è minacciato l’edificio nel suo insieme, ovverosia nella sua stabilità, sicurezza e decoro, o anche una singola parte dello stesso (ad esempio le scale, il cornicione, il tetto), l’amministratore del condominio, l’amministratore ha l’obbligo di attivarsi e compiere gli atti conservativi ossia gli interventi miranti a mantenere l’esistenza e la pienezza od integrità dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio [1]. Così, può, senza autorizzazione dell’assemblea, stipulare contratti di assicurazione del fabbricato oppure verificare eventuali comportamenti pericolosi posti nei garage o nei locali comuni.

In quanto rappresentante dei condomini, l’amministratore ha la cosiddetta legittimazione attiva in giudizio: significa che ha il potere di rappresentare il condominio in causa facendosi assistere da un avvocato. Chiaramente, gli effetti dei processi si riversano sul condominio medesimo, ragion per cui, nelle cause di particolare importanza, è necessario che questi si faccia autorizzare dall’assemblea. Non così per l’ordinaria amministrazione come nel caso di recupero dei crediti condominiali.

Quindi sussiste la legittimazione processuale dell’amministratore del condominio che, senza bisogno di alcuna autorizzazione può intraprendere tutte le opportune iniziative giudiziarie per la conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio.

Tuttavia tale facoltà dell’amministratore di agire in giudizio per tutelare i diritti sulle parti comuni dell’edificio non esclude che ciascun condomino possa provvedervi direttamente; il diritto dell’amministratore si aggiunge infatti a quello dei naturali e diretti interessati ad agire a tutela delle parti comuni dell’edificio, delle quali sono comproprietari [2].

Ad esempio, se una ditta di costruzioni invade il cortile condominiale lasciandovi delle travi o degli strumenti di costruzione e l’amministratore non ricorre in tribunale per far liberare l’area, può attivarsi anche il singolo condomino. Se uno dei proprietari degli appartamenti occupa abusivamente una parte comune, confidando magari nell’usucapione, in caso di inerzia dell’amministratore può agire il singolo condomino per contestare tale condotta.

Ed ancora si pensi al caso di una costruzione eretta abusivamente da un condomino su una parte comune dell’edificio: contro l’autore dell’illecito può procedere anche uno solo dei condomini, atteso che ciascuno di essi ha il diritto di esigere, indipendentemente dall’opinione degli altri, la rimozione dell’opera abusiva.

Quindi, se l’amministratore non compie i necessari atti conservati, ciascun condomino, può agire giudizialmente, in difesa delle cose comuni dell’edificio, insidiate da azioni illegittime di altri condomini o di terzi.

In alternativa, può agire contro lo stesso amministratore di condominio per sentirlo condannare all’esecuzione degli atti conservativi, esperendo cioè un’azione volta ad una condanna ad agire materialmente.

Azione in causa contro sentenze sfavorevoli al condominio

Immaginiamo che uno dei condomini impugni una delibera dell’assemblea e, perciò, chiami in causa il condominio. Alla fine del primo grado il condominio viene condannato. Può il singolo condomino fare appello se non si attiva l’amministratore? Secondo un recente indirizzo della Cassazione è consentita tale legittimazione processuale [3]. In sostanza, secondo la Corte, il Condominio è sempre ed in ogni caso un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti: il che comporta che ogni condòmino, qualora l’Amministratore non agisca in tal senso a nome del Condominio, possa benissimo sostituirsi a lui nella tutela dei diritti comuni connessi alla sua partecipazione al Condominio, senza che si possa distinguere (distinzione fra l’altro non facile e che si può prestare a molte differenti opinioni) fra questioni ove egli avrebbe o non avrebbe (in quanto riferiti alla gestione di un servizio comune) legittimazione processuale ad agire.

I singoli condominio potrebbero anche costituirsi in una causa in cui si è già costituito il condominio a tutela delle proprie posizioni. Ha detto la Cassazione [4] a riguardo: ««Nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione né quindi del potere di intervenire nel giudizi in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore stesso che vi abbia fatto acquiescenza, salvo che relativamente alle controversie aventi ad oggetto la gestione di un servizio comune».

La regola della legittimazione processuale del singolo condomino in sostituzione dell’amministratore – e quindi del condominio – vale solo quando la situazione di fatto, l’illecito o la decisione del giudice può avere effetti diretti nei suoi confronti. Se invece gli effetti sono sono mediati allora non vi è più legittimazione processuale. La Cassazione, più di recente [5], ha detto che la legittimazione ad agire (o impugnare) spetta al solo amministratore, e quindi non ai condomini, nelle controversie ove non vi sia una correlazione immediata con l’interesse esclusivo di uno dei partecipanti.

Nel caso l’interesse in discussione sia collettivo, solo l’amministratore può agire a nome del Condominio. Se, osserva ancora la Cassazione, vi sia un interesse direttamente collettivo e solo mediatamente individuale, è soltanto l’amministratore ad essere legittimato ad agire in giudizio a nome del condominio.

In buona sostanza, il Condòmino può sostituirsi all’amministratore condominiale nell’impugnare una decisione giudiziale solo qualora questa abbia effetti diretti e non mediati nei suoi confronti. Pertanto, nel giudizio promosso dal condomino e volto ad impugnare la delibera dell’assemblea condominiale inerente interessi collettivi, la legittimazione passiva spetta in via esclusiva all’amministratore rappresentante dell’intero complesso abitativo [6].

La delibera dell’assemblea di divisione delle spese e l’impugnazione

nei giudizi relativi alla suddivisione e ripartizione delle spese comuni condominiali la legittimazione passiva spetta esclusivamente all’amministrazione del condominio, mentre la legittimazione attiva è riconosciuta a ciascun condominio dissenziente. Altresì, « il potere di impugnazione del singolo condomino viene, infatti, generalmente riconosciuto nelle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche nelle azioni personali, ma se indicenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante». Aderendo a tale interpretazione, ormai prevalente, la Cassazione ha detto che i condomini non sono legittimati ad impugnare delibere inerenti la gestione di un servizio o bene rivolto a soddisfare la comunità condominiale (ad esempio la ristrutturazione di alcune finestre delle scale) giacché, nelle suddette controversie vertenti su di un interesse plurimo, la legittimazione passiva «spetta in via esclusiva all’amministratore».

La riscossione delle spese condominiali

Secondo la giurisprudenza, in mancanza di attivazione dell’amministratore, i singoli condomini possono agire nei confronti dei morosi per riscuotere le quote di gestione ordinaria e straordinaria non versate. È vero che si tratta di un obbligo prettamente dell’amministratore e che, anzi, questi ha il dovere di agire a pena di responsabilità personale; ma poiché dagli ammanchi e dal mancato pagamento delle fatture possono derivare effetti pregiudizievoli per i condomini virtuosi (potendo i creditori pignorare il conto corrente condominiale e i beni personali dei proprietari di appartamenti), la giurisprudenza ha riconosciuto loro una legittimazione processuale al recupero dei crediti per conto del condominio [7]. Leggi Il singolo condomino può agire contro i morosi?

La querela al posto dell’amministratore 

Se l’assemblea non delibera la presentazione della querela contro chi commette reati ai danni del condominio, il singolo condòmino, in quanto in parte proprietario delle parti comuni, può presentare la querela in vece dell’amministratore? No, almeno secondo il tribunale di Milano [8]. Nel caso trattato la querela per appropriazione indebita era stata tempestivamente proposta da un solo condòmino che nel giudizio risultò tardiva e proposta da un soggetto non legittimato. Infatti la tardività della querela risultava dalla constatazione che fu presentata quando il condominio aveva deliberato di agire in sede civile nei confronti dei due amministratori. Inoltre il querelante era soltanto uno dei condòmini e non rivestiva la qualifica di amministratore , l’unica che permetta di presentare la querela in nome e per conto del condominio. Anche quando concerna un fatto lesivo del patrimonio condominiale la querela non rientra tra gli atti ordinari di gestione dei beni e di conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio. Inoltre deve escludersi che in assenza dello specifico mandato dell’assemblea, il diritto di proporre la querela possa proporsi da persona diversa dal suo titolare ossia l’amministratore.

La querela infatti è un presupposto per la validità del promuovimento dell’azione penale , non è un mezzo di cautela processuale o sostanziale, e il relativo diritto compete in via strettamente personale alla persona offesa dal reato. Ne consegue che , per essere valida, la presentazione di una querela in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio condominiale richiede uno specifico incarico conferito all’amministratore dall’assemblea dei condòmini.

Sostituto dell’amministratore

In caso di assenza dell’amministratore per motivi personali (lutti, malattie, ricoveri) o professionali (corsi, trasferte) e più in generale in caso di impedimento temporaneo a svolgere le proprie funzioni, può essere necessario che un sostituto svolga le sue funzioni. In sede di nomina dell’amministratore l’assemblea può anche prevedere un supplente per l’ipotesi di un impedimento temporaneo o definitivo dell’amministratore.

Se il regolamento condominiale non lo vieta, l’amministratore può avvalersi dell’opera di un ausiliario che lo sostituisca nella sua attività: la sostituzione è consentita per limitate e specifiche mansioni e per periodi di tempo determinati, anche in assenza di una specifica autorizzazione assembleare.

Manutenzione urgente

Se un intervento di manutenzione risulta urgente (ad esempio la riparazione del tetto scoperchiato, un cornicione pericolante verso la pubblica via) e l’amministratore o l’assemblea non riescono in tempi brevi ad essere avvisati al fine di potervi provvedere secondo le normali regole di gestione condominiale, ogni singolo condomino può disporli, anticipando le relative spese, per evitare il deterioramento della cosa [9].

Secondo la giurisprudenza costante, sono spese urgenti quelle che, secondo il criterio del buon padre di famiglia, appaiono indifferibili per evitare un pregiudizio possibile (anche se non certo) al bene comune [10].

Eseguito l’intervento urgente, il condomino ha diritto al rimborso delle spese sostenute, dimostrando l’urgenza dei lavori, la loro non differibilità e il fatto di non aver potuto in tempi ragionevoli avvertire l’amministratore o gli altri condomini [11].


Ripartizione spese condominiali tra proprietario e inquilino

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Affitto: il conduttore paga il servizio di pulizia, il funzionamento e l’ordinaria manutenzione dell’ascensore, l’acqua, la luce, il riscaldamento, lo spurgo.

Sei in affitto. Il contratto di locazione non specifica chi debba pagare le spese condominiali. Il padrone di casa pretende che sia tu a farvi fronte; a tuo avviso, invece, non essendo stato concordato prima, non compete a te. Chi dei due ha ragione? Mai come in questo caso, la verità è al centro. Difatti la legge prevede che alcuni oneri condominiali siano a carico del conduttore e altri del locatore. Qui di seguito faremo il punto della situazione e spiegheremo qual è la ripartizione delle spese condominiali tra proprietario e inquilino.

In questo modo, dopo la lettura di questo articolo, saprai per quali importi il locatore ha diritto al rimborso da parte dell’affittuario una volta effettuato il versamento. Già, perché l’unico soggetto obbligato verso il condominio è solo il padrone di casa in qualità di condòmino. È a quest’ultimo che l’amministratore deve rivolgersi per chiedere le quote ordinarie e straordinarie, salvo poi il suo diritto di rivalsa verso l’affittuario. Ed è sempre al locatore che va notificato eventualmente il decreto ingiuntivo per la morosità. Sarà poi il padrone di casa a rivalersi contro l’inquilino ed, eventualmente, in caso di inadempimento, a sfrattarlo. Ma non per tutte le somme versate, ma solo per alcune voci. Di tanto parleremo a breve.

Omesso pagamento degli oneri accessori: quando lo sfratto?

Tuttavia, prima di spiegarti qual è la ripartizione delle spese condominiali tra locatore e conduttore è bene che tu sappia che lo sfratto è possibile non solo in caso di morosità dei canoni di locazione convenuti nel contratto, ma anche per l’omesso versamento della quota delle spese condominiali (i cosiddetti oneri accessori). In particolare per le locazioni ad uso abitativo, il locatore può procedere all’intimazione per sfratto solo se l’ammontare dovuto per il condominio supera l’importo corrispondente a due mensilità di canone.

Quali spese condominiali a carico dell’inquilino?

La legge sull’Equo Canone dispone che, salvo patto contrario (ossia salvo che nel contratto di locazione le parti non si siano messe d’accordo diversamente), l’inquilino deve sostenere le seguenti spese condominiali:

  • servizio di pulizia,
  • funzionamento e ordinaria manutenzione dell’ascensore,
  • fornitura dell’acqua,
  • fornitura dell’energia elettrica per le parti comuni,
  • fornitura del riscaldamento e del condizionamento dell’aria,
  • spurgo dei pozzi neri e delle latrine,
  • fornitura di altri servizi comuni.

Le spese per il servizio di portineria sono a carico del conduttore nella misura del 90%, salvo che le parti abbiano convenuto una misura inferiore. Il pagamento deve avvenire entro due mesi dalla richiesta.

Le predette disposizioni si riferiscono solo ai rapporti tra locatore e conduttore; il condominio non può agire nei confronti del conduttore con il quale non ha alcun rapporto. L’amministratore dunque può rivolgersi solo ai condomini (e quindi al proprietario di casa) per il rimborso delle spese condominiali.

Il patto contrario

La giurisprudenza più recente ritiene ammissibile pattuire a carico dell’inquilino un elenco di spese più ampio rispetto a quello indicato dalla legge. In generale, le spese come luce, gas, pulizia, acqua, ecc. sono a carico dell’inquilino, essendo a questi direttamente imputabili in quanto utilizza materiamente l’appartamento Si tratta delle spese ordinarie imputabili in capo a chi effettivamente vive nel condominio. Sono invece a carico del proprietario le spese per la costruzione di nuovi impianti, ad esempio la costruzione della fognatura, l’installazione di un’antenna parabolica, l’installazione di un videocitofono, ecc. Questo criterio generale può essere derogato dalle parti.

Diritto a prendere visione delle spese

Prima di effettuare il pagamento l’inquilino ha diritto di pretendere dal padrone di casa l’indicazione specifica delle spese condominiali da questi anticipate con la menzione dei criteri di ripartizione.

Il conduttore ha inoltre diritto di prendere visione dei documenti giustificativi delle spese effettuate. In mancanza di tali indicazioni l’inquilino può omettere il pagamento.

È comunque opportuno per quest’ultimo, di fronte a una richiesta generica e non specifica del locatore di somme a titolo di oneri accessori, entro due mesi dalla richiesta stessa contestarla formalmente con lettera raccomandata, richiedendo l’indicazione specifica delle spese e dei criteri di ripartizione.

Il conduttore ha diritto di richiedere al locatore e di ricevere copie dei bilanci e preventivi approvati.

Solo se il locatore rispetta tali obblighi persistendo il mancanto pagamento, l’inqilino può essere sfrattato.

Votazione in assemblea

La legge [1] attribuisce al conduttore il diritto di votare in luogo del proprietario nelle assemblee condominiali aventi ad oggetto l’approvazione delle spese e delle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria e di intervenire senza diritto di voto sulle delibere relative alla modificazione di servizi comuni). L’inquilino ha anche il diritto di impugnare le deliberazioni viziate, sempreché abbiano ad oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria. Al di fuori di tali situazioni, la normativa non attribuisce all’inquilino il potere generale di sostituirsi al proprietario nella gestione dei servizi condominiali, sicché deve escludersi la legittimazione del conduttore ad impugnare la deliberazione dell’assemblea condominiale di nomina dell’amministratore e di approvazione del regolamento di condominio e del bilancio preventivo [2].

Per quanto riguarda la comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea esso deve essere comunicato al proprietario e non anche al conduttore dell’appartamento; è il proprietario tenuto ad informare il conduttore dell’avviso di convocazione ricevuto dall’amministratore. Se non vi provvede però la delibera è ugualmente valida (il condominio rimane infatti estraneo al rapporto di locazione) [3].

L’omessa convocazione del conduttore all’assemblea dei condomini che delibera sulle spese e sulla gestione del servizio di riscaldamento, non è causa d’invalidità della deliberazione adottata dall’assemblea nel caso in cui né il condomino-locatore né il conduttore abbia adempiuto all’onere di informare l’amministratore del condominio del concluso contratto di locazione relativo a singola unità immobiliare dello stabile condominiale [4].

Compenso dell’amministratore: chi lo paga?

Il compenso dell’amministratore non è spesa a carico del conduttore, essendo l’amministratore un mandatario dei soli condomini, titolari di un diritto reale inerente alle parti comuni e ai servizi del condominio stesso, ma sul contratto di locazione si può stabilire di dividere la spesa al 50% tra le parti perché l’amministratore svolge un servizio di cui beneficia anche l’inquilino.

Assicurazione: chi la paga?

Per quanto riguarda la spesa dell’assicurazione dell’edificio, si ritiene che possa essere lecito ripartire le spese in parti uguali tra conduttore e locatore.

Se l’inquilino non paga le spese di condominio che rischia?

Se l’inquilino non rimborsa al padrone di casa le spese condominiali rischia lo sfratto.

La legge stabilisce, infatti, che il mancato pagamento delle spese accessorie può essere causa di risoluzione del contratto quando l’importo non pagato superi quello di due mensilità del canone. Il pagamento degli oneri accessori deve avvenire entro due mesi dalla richiesta. Pertanto il locatore può instaurare il procedimento di sfratto per morosità, allo stesso modo in cui potrebbe agire per il mancato pagamento dei canoni di locazione.

Sfratto per mancato pagamento del condominio

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Possibile l’intimazione di sfratto per la morosità nel versamento degli oneri accessori ma solo se l’importo supera quello di due mensilità.

Sei in ritardo con il pagamento del condominio e vuoi sapere se rischi lo sfratto per morosità? Vuoi sapere se puoi chiedere al Tribunale lo sfratto per morosità se il tuo inquilino non paga le rate del condominio?

Quante volte succede che l’inquilino, pur puntuale e preciso nel pagamento del canone dell’affitto, non lo sia invece nei confronti del condominio, o meglio di quelle voci che sono, per legge, a suo carico. Si tratta dei cosiddetti «oneri accessori» che la normativa [1] elenca nel dettaglio. Tali oneri vanno “rimborsati” dall’inquilino al padrone di casa che, in quanto condomino vero e proprio e, quindi, obbligato nei confronti del condominio, li anticipa (e ne subisce anche le conseguenze in caso di mancato pagamento). Analizziamo quali sono i casi e le condizioni nelle quali è possibile o non è possibile l’intimazione di sfratto per morosità per mancato pagamento del condominio.

I presupposti in breve dello sfratto per morosità

Lo sfratto per morosità è un procedimento speciale previsto dal codice di procedura civile che ha lo scopo di mettere in condizione il proprietario di un immobile di ottenere in tempi rapidi dal giudice (che è sempre il Tribunale) l’ordinanza di rilascio e cioè il provvedimento con il quale il magistrato ordina a chiunque occupi l’immobile di rilasciarlo, libero da persone e cose.

L’esistenza di questo procedimento speciale si giustifica per il fatto che il mancato pagamento da parte del conduttore (e cioè chi avrebbe dovuto pagare) costituisce un inadempimento grave del contratto che non deve andare a svantaggio del proprietario dell’immobile (che viene chiamato locatore).

Nel nostro ordinamento il grave inadempimento di uno degli obblighi del contratto provoca una mancanza di equilibrio tra le posizioni delle diverse parti e giustifica quella che viene chiamata “risoluzione per inadempimento”, e cioè il venir meno del vincolo giuridico costituito dal contratto (che ha “forza di legge tra le parti”).

Risoluzione del contratto che è poi il principale oggetto dell’accertamento del giudice nella procedura di sfratto per morosità.

Però non sempre è sufficiente che l’inquilino non paghi il canone di locazione o le quote condominiali per consentire al proprietario di essere legittimato ad intimare lo sfratto per morosità.

Come abbiamo detto, l’inadempimento deve essere grave e cioè tale da incidere in modo significativo sull’equilibrio degli interessi delle parti che hanno trovato nel contratto il loro regolamento.

Allora, se è vero che il presupposto fondamentale dello sfratto per morosità è che il conduttore non abbia pagato il canone o gli oneri accessori e che questo inadempimento sia grave, cioè non sia di lieve entità e sia in grado di modificare l’equilibrio del contratto, dobbiamo constatare che ad oggi sussiste ancora un diverso atteggiamento del legislatore a seconda che l’inadempimento (e cioè il mancato pagamento) da parte dell’inquilino riguardi il canone di locazione o gli oneri accessori.

Infatti, in caso di mancato pagamento del canone, il legislatore consente al proprietario di procedere allo sfratto per morosità a condizioni molto più semplici (ed in tempi molto più rapidi) rispetto a quando l’affittuario non paga le quote condominiali.

Per quanto riguarda il mancato pagamento degli oneri accessori, la risposta richiede alcune precisazioni.

Cosa sono gli oneri accessori?

In generale, gli oneri condominiali addebitati al conduttore sono la fornitura di elettricità, il riscaldamento, l’acqua nonché la raccolta dei rifiuti cui provvedono soggetti terzi a favore del conduttore che li utilizza direttamente.

La legge [1] specifica chiaramente quali sono le spese condominiali a carico dell’inquilino (lo fa chiamandole «oneri accessori»). Si stabilisce infatti che sono interamente a carico di chi occupa un immboile  le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all’ordinaria manutenzione dell’ascensore, alla fornitura dell’acqua, dell’energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell’aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni. Inoltre, anche le spese per il servizio di portineria sono a carico del conduttore nella misura del 90%, salvo che le parti abbiano convenuto una misura inferiore.

Prima di effettuare il pagamento il conduttore ha diritto di ottenere l’indicazione specifica delle spese di cui ai commi precedenti con la menzione dei criteri di ripartizione. Il conduttore ha inoltre diritto di prendere visione dei documenti giustificativi delle spese effettuate».

Quando è dovuto il pagamento degli oneri accessori?

Di solito, è il contratto che stabilisce quali spese sono a carico dell’inquilino e quali no. Molto più spesso, però, il contratto si limita a richiamare la legge in vigore e a far salvo quindi il principio che l’ordinaria manutenzione spetta al conduttore e la straordinaria amministrazione al locatore. Come abbiamo però appena detto, gli oneri accessori elencati dalla legge sono sempre a carico dell’inquilino, salvo che il contratto non disponga diversamente. Così ad esempio le bollette della luce, dell’acqua e del gas non si devono ritenere comprese nel canone di affitto, ma vanno pagate a parte.

Secondo la Cassazione [2] le spese che possono essere poste a carico del conduttore sono solo quelle collegate al godimento effettivo, da parte sua, di un servizio; restano quindi esclusi gli oneri straordinari che riguardano non solo l’unità immobiliare ma l’edificio condominiale nel suo complesso: nulla è quindi dovuto per un servizio non fornito o per un servizio che il locatore non utilizza, anche se il pagamento del relativo onere è previsto nel contratto.

Che succede se l’inquilino non paga le spese di condominio?

Veniamo ora alla specifica ipotesi di omesso pagamento degli oneri accessori da parte dell’inquilino. In base alla legge [3], anche se l’inquilino è in regola con il versamento dell’affitto, il prprietario di casa può intimargli lo sfratto se non paga le spese di condominio e/o tutti gli altri oneri accessori.

Sfratto per morosità per mancato pagamento del condominio: immobile ad uso abitativo

Nel caso in cui l’immobile che sia stato affittato sia di tipo abitativo (come un appartamento) dobbiamo prendere in considerazione gli articoli 5 e 9 della Legge 392/1978 (la Legge dell’equo canone) che contiene norme applicabili ancora oggi a tutti i contratti di locazione.

In particolare, l’art. 5 della legge sull’equo canone stabilisce che costituisce motivo di risoluzione del contratto per inadempimento grave del conduttore il mancato pagamento del canone di locazione o il mancato pagamento degli oneri accessori pari a due mensilità del canone.

Il successivo art. 9 della stessa legge sull’equo canone stabilisce quali siano le spese a carico del conduttore che costituiscono oneri accessori.

Fra queste spese rientrano quelle che riguardano ad esempio il servizio di pulizia, il funzionamento e la manutenzione ordinaria dell’ascensore e altre.

La norma che ti ho indicato stabilisce infine che sono oneri accessori tutti quelli che riguardano la fornitura di servizi comuni.

A questo punto ti sarà chiaro che non pagare gli oneri condominiali (che sono proprio la quota a carico di ciascun appartamento di tutti i servizi comuni, compresi ad esempio la pulizia delle scale e l’ascensore) può, nei casi che abbiamo indicato, rientrare nella definizione di inadempimento grave che giustifica la risoluzione del contratto.

Ci sono però delle precisazioni da fare.

Anzitutto ti faccio notare che è stato il legislatore che ha stabilito quando il mancato pagamento degli oneri condominiali può integrare il requisito della gravità che giustifica la risolizione del contratto (e consente al proprietario di notificare l’intimazione di sfratto per morosità).

E questo ricorre quando il mancato pagamento del condominio è pari a due mensilità di canone.

Quindi per fare un esempio, se il canone di locazione è di Euro 400,00 al mese e la quota condominiale è di Euro 100,00 al mese, fino a che l’inquilino non abbia omesso il pagamento di una somma pari a due mensilità di canone (euro 800,00 pari a 8 mesi di mancato pagamento del condominio) non potrà essere chiesto lo sfratto per morosità.

Tutto questo nasce dall’esigenza di bilanciare il diritto del proprietario che ha concesso la casa in locazione con le esigenze dell’inquilino, che può trovarsi in una situazione di temporanea difficoltà economica anche senza sua colpa (pensa al caso del datore di lavoro che non paga puntualmente gli stipendi) e che abitando la casa è portatore di un interesse fondamentale: quello ad un’abitazione che costituisce quel domicilio inviolabile, garantito anche dalla Costituzione.

Inoltre, l’art.9 della legge sull’equo canone stabilisce che non è sufficiente che l’inquilino non abbia pagato le rate del condominio per consentire al proprietario di procedere con il procedimento di sfratto per morosità.

Infatti, la norma richiede pure che il pagamento degli arretrati degli oneri accessori (tra i quali rientrano quelli delle quote condominiali) venga chiesto espressamente dal proprietario e che comunque il debitore avrà due mesi di tempo dalla ricezione della richiesta per mettersi in regola con il pagamento.

O in alternativa per ridurre il suo debito sotto la soglia delle due mensilità di canone.

È tuttavia facoltà dell’inquilino pagare fino all’udienza di convalida dello sfratto davanti al giudice, con tutte le spese e gli interessi nel frattempo maturati. In tal caso non subisce lo sfratto. Se però non dovesse avere i soldi per corrispondere subito tale cifra, può chiedere 90 giorni di tempo per adempiere. Anche in questo caso, se provvede a versare il dovuto non subirà lo sfratto.

Sfratto per morosità e mancato pagamento del condominio: immobile ad uso diverso da quello abitativo

In caso di contratto di un immobile diverso da quello abitativo non vale quanto abbiamo visto per i contratti delle abitazioni.

Infatti nella parte della legge sull’equo canone che contiene le norme applicabili ai contratti di locazione commerciale (quella per usi diversi da quello abitativo) non sono presenti norme come quelle degli articoli 5 e 9.

La differenza di trattamento normativo tra le locazioni abitative e quelle commerciali si spiega con il fatto che la locazione di un locale per un negozio o per un box auto non è finalizzata a soddisfare quell’interesse primario della persona che è avere a disposizione un’abitazione per sé o per la propria famiglia.

La giurisprudenza ha di recente ribadito che la soglia dell’importo delle due mensilità di canone per le quote condominiali arretrate non si applica in modo diretto alle locazioni commerciali.

Sono però necessarie almeno due precisazioni.

La prima è che la giurisprudenza ha affermato in più occasioni che anche in mancanza di una norma specifica, rimane sempre il potere del giudice di valutare se l’inadempimento dell’inquilino (cioè l’importo delle quote di condominio non pagate) abbia raggiunto e superato la soglia della gravità e dunque se sia tale da giustificare la risoluzione per inadempimento.

Quindi, anche in mancanza di una specifica previsione normativa, possiamo affermare che è possibile che il giudice ritenga, eventualmente in applicazione indiretta e per analogia delle norme di cui agli artt. 5 e 9 della legge dell’equo canone, che il mancato pagamento del condominio possa giustificare l’intimazione di sfratto per morosità.

Inoltre, devi considerare che proprio la mancanza di una norma come quella dettata dal legislatore per le locazioni di tipo abitativo ha da tempo indotto i proprietari a inserire nei contratti di locazione commerciale, in forza del principio generale dell’autonomia contrattuale, una specifica clausola con la quale stabilire quale siano le conseguenze in caso di mancato pagamento del condominio, e tra queste anche l’automatica risoluzione per inadempimento e lo sfratto per morosità.

In questo caso, il giudice potrebbe ritenere legittimato il proprietario ad agire con lo sfratto per morosità in caso di mancato pagamento del condominio, anche per importi diversi da quelli che abbiamo analizzato nel caso delle locazioni di abitazioni.

Prescrizione delle spese di condominio e degli altri oneri accessori

Le spese di condominio che l’inquilino deve restituire al padrone di casa si prescrivono in due anni. In altri termini il locatore deve richiedere il pagamento degli oneri accessori al conduttore nel termine di 2 anni decorrenti dalla data di chiusura annuale, senza essere obbligato a consegnargli i documenti giustificativi delle spese poste a suo carico o indicargli i relativi criteri di ripartizione salvo che l’inquilino stesso glielo chieda. Infatti, una volta ricevuta la richiesta di pagamento, l’affittuario prima di pagare la somma, può – entro due mesi dalla richiesta – ottenere l’indicazione specifica delle spese con la menzione dei criteri di ripartizione e di prendere visione dei documenti giustificativi. Il conduttore che non richiede i documenti nel termine di legge non può poi sospendere, ridurre o ritardarne il pagamento.

In sintesi

Perché sia possibile però lo sfratto, è necessario che la morosità superi una determinata soglia. In particolare:

  • per le locazioni ad uso abitativo, l’ammontare dovuto supera l’importo corrispondente a due mensilità di canone [4];
  • per le locazioni ad uso commerciale, l’ammontare dovuto risulta di non scarsa importanza secondo le regole generali [5].

Secondo un orientamento della Cassazione però [6], per ottenere lo sfratto in caso di mancato pagamento delle spese di condominio e/o degli altri oneri accessori il padrone di casa non può far ricorso al procedimento “veloce” previsto invece per le morosità del canone, in quanto la normativa speciale fa riferimento solo a quest’ultimo e non anche ai primi. Di diverso avviso altre sentenze secondo cui è possibile l’intimazione di sfratto secondo il procedimento tipico del canone [7].

È tuttavia facoltà dell’inquilino pagare fino all’udienza di convalida dello sfratto davanti al giudice, con tutte le spese e gli interessi nel frattempo maturati. In tal caso non subisce lo sfratto. Se però non dovesse avere i soldi per corrispondere subito tale cifra, può chiedere 90 giorni di tempo per adempiere. Anche in questo caso, se provvede a versare il dovuto non subirà lo sfratto.

Prescrizione delle spese di condominio e degli altri oneri accessori

Le spese di condominio che l’inquilino deve restituire al padrone di casa si prescrivono in due anni. In altri termini il locatore deve richiedere il pagamento degli oneri accessori al conduttore nel termine di 2 anni decorrenti dalla data di chiusura annuale, senza essere obbligato a consegnargli i documenti giustificativi delle spese poste a suo carico o indicargli i relativi criteri di ripartizione salvo che l’inquilino stesso glielo chieda. Infatti, una volta ricevuta la richiesta di pagamento, l’affittuario prima di pagare la somma, può – entro due mesi dalla richiesta – ottenere l’indicazione specifica delle spese con la menzione dei criteri di ripartizione e di prendere visione dei documenti giustificativi. Il conduttore che non richiede i documenti nel termine di legge non può poi sospendere, ridurre o ritardarne il pagamento [8].

Furto in appartamento: responsabilità condominio

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Ladri in casa: è possibile richiedere il risarcimento al condominio se l’impianto di videosorveglianza non è adeguato o non funziona e se ci sono i ponteggi per i lavori di ristrutturazione.

Ci sono stati i ladri in casa tua. A giudicare dagli effetti, più che un furto sembra un terremoto. Sono stati rubati alcuni oggetti di valore, ma il resto dell’appartamento è sottosopra: sono stati rivoltati i cassetti degli armadi, svuotate le mensole e rovistati gli scaffali delle librerie. Non hai neanche idea, con esattezza, di cosa manchi all’appello non avendo un inventario di tutto ciò che tieni in casa. Tra le cose “profanate” ci sono le foto di famiglia, i documenti, gli archivi con i tuoi dati (anche quelli degli ultimi esami medici). A conti fatti, il vero danno sta nella violazione della tua privacy e nel fatto che ora ti senti più vulnerabile di prima. Non hai un’assicurazione e nessuno ti risarcirà per il vuoto e il senso di fragilità che questo evento ti ha determinato; tuttavia, se c’è ugualmente una via per avere un indennizzo, la vuoi ugualmente perseguire, non fosse altro perché, con i soldi, potrai acquistare un impianto di video sorveglianza, una porta blindata più sicura o un allarme antifurto. Bene, abbiamo proprio qualcosa che fa al caso tuo. Ci sono due recenti sentenze che stabiliscono la responsabilità del condominio per il furto in appartamento.

Già, hai capito bene: anche il condominio potrebbe essere partecipe dei danni che hai subito per aver agevolato i ladri nel loro crimine. Di tanto, è vero, c’è poco da rallegrarsi perché, se non si corre subito ai ripari, il fattaccio potrebbe verificarsi di nuovo. Nel frattempo, però, potrai ottenere un ristoro delle tue ragioni economiche e iniziare a prendere le tue precauzioni.

Di tanto parleremo nel seguente articolo: ti spiegheremo cioè in quali casi, se arrivano i ladri in casa, il condominio è responsabile e come puoi ottenere il risarcimento. Lo faremo commentando appunto gli indirizzi della giurisprudenza che, in questo, è certamente molto abile a sopperire alle lacune della legge andando a interpretare, in via analogia, le norme di legge e del codice civile. Ma procediamo con ordine.

Furto in appartamento: se la colpa è della videosorveglianza

Se il condominio ha deliberato l’installazione di un sistema di videosorveglianza e questo dovesse essere guasto o non adeguato a prevenire i furti (si pensi al caso in cui l’angolo di visuale della telecamera non è in grado di percepire l’arrivo dei ladri), il condominio può essere ritenuto responsabile per il furto in appartamento o nel negozio al piano terra. Questo significa che il condòmino derubato può chiedere il risarcimento dei danni subiti all’amministratore il quale, previa autorizzazione dell’assemblea, dovrà liquidare l’indennizzo. A dirlo è il tribunale di Latina [1] secondo cui il condominio risponde delle carenze del sistema di sorveglianza se hanno facilitato il furto in uno dei locali. Non rileva il fatto che l’impianto sia stato concesso in comodato al condominio da una società incaricata del sistema di allarme. Se poi risulta che la società terza non ha svolto a dovere i propri compiti, sarà possibile un’azione di rivalsa.

Furto in appartamento: se la colpa è del portone di ingresso

Lo stesso principio si può applicare per qualsiasi altro servizio condominiale non funzionante come per il caso del portone d’ingresso. Si pensi ad un palazzo al cui interno si possa accedere facilmente per via del guasto alla serratura che consente l’ingresso nell’atrio comune e, di lì, alle scale e agli appartamenti. L’amministratore, in quanto supervisore di ogni parte comune dell’edificio e della sicurezza dello stabile, è tenuto ad attivarsi immediatamente, con o senza le segnalazioni da parte dei proprietari. Se non lo fa è responsabile in prima persona. Chiaramente, le segnalazioni ricevute in passato dagli interessati aggravano la sua posizione. Seguendo la stessa linea interpretativa sposata dal tribunale di Latina, resta tuttavia la corresponsabilità del condominio che ha, non provvedendo alla riparazione del portone, agevolato l’ingresso dei malviventi nelle unità immobiliari.

Furto in appartamento: se la colpa è dei ponteggi

Se, su una facciata qualsiasi del tuo palazzo, sono stati installati dei ponteggi necessari all’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione, l’ingresso dei ladri potrebbe essere stato agevolato proprio da tale struttura che conduce fino alle finestre degli appartamenti e dall’assenza di un adeguato sistema di allarme.

Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza e, da ultimo, la Cassazione con una recente ordinanza [2]. Ma chi è responsabile: la ditta edile o il condominio?

Innanzitutto, potrebbe essere configurabile la responsabilità della società esecutrice dei lavori. All’appaltatore può essere, in particolare, contestata l’omessa adozione delle cautele necessarie per impedire l’uso anomalo dei ponteggi se, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia ha agevolato l’accesso ai ladri e il furto nell’appartamento.

Ma si può parlare anche di una responsabilità del condominio. In base al nostro codice civile [3] difatti chi ha il beneficio dell’opera dei sottoposti ne sopporta anche i rischi. La colpa del condominio potrebbe essere stata nell’aver esonerato la ditta appaltatrice dall’installazione di un impianto di allarme collegato ai ponteggi, da attivare durante la notte (precauzione alla quale, di solito, le società fanno corrispondere un aumento del prezzo per i lavori).

Il condominio poi potrebbe essere considerato responsabile per aver scelto un appaltatore inadeguato per l’esecuzione dell’opera, oppure quando l’impresa è stata una semplice esecutrice degli ordini del committente; oppure, ancora, se l’amministratore abbia omesso di sorvegliare l’operato dell’impresa appaltatrice.

Serbatoio dell’acqua sul terrazzo condominiale: si può?

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Serbatoio acqua sul tetto o sul lastrico condominiale: l’uso degli spazi comuni è consentito nei limiti in cui non impedisca agli altri condomini di sfruttare la stessa area.

A casa tua manca spesso l’acqua. La cisterna condominiale non è più idonea a causa di un guasto e, mentre l’assemblea decide se acquistarne una nuova, hai deciso di renderti autonomo dotandoti di un tuo serbatoio. Poiché però non hai spazio a sufficienza sul balcone e, peraltro, c’è il rischio che il peso possa pregiudicarne la stabilità, la ditta ti ha consigliato di installarlo sul terrazzo condominiale. È quello che l’amministratore chiama lastrico solare e che appartiene a tutti i condomini. Essendo uno spazio comune, in teoria potresti utilizzarlo per i tuoi comodi atteso peraltro che anche gli altri già lo fanno, riponendovi tutte le loro cianfrusaglie. Ma ti chiedi se sia legittimo un comportamento del genere, che implicherebbe un’occupazione “perenne” dell’area, o se in futuro qualcuno potrebbe importi di rimuovere la piccola cisterna. Cosa dice in merito la legge? Si può installare un serbatoio d’acqua sul terrazzo condominiale? La questione è stata, proprio di recente, decisa dalla Cassazione [1]. Ecco cosa ha detto la Corte in merito.

L’utilizzo degli spazi comuni in condominio

Il lastrico solare condominiale, comunemente chiamato terrazza (sebbene quest’ultima abbia la caratteristica di avere, in più, dei parapetti per sporgersi), al pari del tetto dell’edificio, delle scale, dell’androne, del cortile, ecc. è uno spazio che si presume in comproprietà di tutti i condomini. Solo un atto di proprietà che ne stabilisca la titolarità o l’uso esclusivo potrebbe derogare a tale norma.

L’uso delle parti condominiali è libero. Ciascun condomino può quindi servirsene a proprio piacimento; può cioè sfruttare le aree comuni secondo l’uso che gli è più congeniale. Ma ciò solo a condizione che rispetti due limiti imposti dal codice civile [2]:

  • non si può alterare la destinazione della cosa comune, facendone un uso diverso rispetto a quello per cui essa è realizzata. Ad esempio l’androne, che nasce come luogo per accedere al palazzo e consentire ai condomini di prendere l’ascensore o accedere alle scale, non può diventare il parcheggio di biciclette e motorini;
  • non si può impedire l’uso paritetico dell’area: non è cioè possibile impedire agli altri condomini l’utilizzo contestuale di tale spazio comune.

Il problema principale si è posto su cosa si debba intendere per «uso paritetico». Di certo, se una persona colloca un vaso da fiori sul terrazzo o sul giardino non si può esigere che, sullo stesso metro quadro, gli altri condomini facciano altrettanto. L’importante però è non occupare così tanto spazio da non consentire l’utilizzo delle residue parti. Così, è lecito montare un condizionatore sulla facciata dell’edificio (se il regolamento non lo vieta) purché questo non impedisca al dirimpettaio di fare altrettanto; si può installare un’antenna parabolica sul tetto a condizione che anche gli altri condomini possano farlo, ecc.

Serbatoio individuale in condominio: si può installare sulle parti comuni?

Vediamo allora se l’installazione di un serbatoio personale in una delle parti comuni dell’edificio impedisce agli altri condomini di fare altrettanto. Se la risposta dovesse essere affermativa sembrerebbe doversi negare la legittimità dell’opera.

Tuttavia, la Cassazione ha detto il contrario, legittimando così la cisterna privata nei vani condominiali. Cerchiamo di capire il perché.

Nel caso deciso dai giudici, un condomino si lamentava perché il vicino di casa aveva collocato un serbatoio d’acqua all’interno di un locale condominiale. Secondo il condomino, l’installazione del serbatoio precludeva, agli altri condomini, di installare i propri serbatoi. Ciò finiva per costituire una violazione del “pari uso”. Se infatti tutti i condomini avessero fatto altrettanto, lo spazio non sarebbe stato sufficiente a contenere tutte le strutture.

Tuttavia, a detta dei giudici supremi, l’installazione del serbatoio è legittima anche quando la sua dimensione è talmente ampia da impedire che, sulla stessa area, ve ne sia uno per ogni appartamento dell’edificio. L’uso paritetico della cosa comune, infatti, deve essere compatibile con la «ragionevole previsione dell’utilizzazione che, in concreto, faranno gli altri condomini dell’area in questione». In altre parole, se non risulta che i restanti proprietari siano interessati anche loro a dotarsi di una cisterna, non c’è ragione per impedire a uno di loro di occupare uno spazio più ampio.

L’uso paritetico delle parti comuni dell’edificio

L’uso paritetico, in altre parole, non deve essere interpretato come la identica e contemporanea utilizzazione del bene comune da tutti i condomini [3].

Dunque, se l’installazione del serbatoio non impedisce agli altri condomini di utilizzare il locale condominiale per differenti scopi e gli altri condomini non hanno alcuna attuale necessità di collocare un proprio serbatoio all’interno dello stesso locale, non c’è ragione per vietare l’installazione della struttura.

Considerando che l’installazione sospesa del serbatoio, nell’immediatezza, non comporta alcun peso per gli altri condomini, se ne deduce che le opere sono del tutto legittime. L’uso paritetico della cosa comune, tutelato dalla norma, deve essere compatibile con la «ragionevole previsione della concreta utilizzazione da parte degli altri condomini della stessa cosa», e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che ipoteticamente e astrattamente essi ne potrebbero fare [4].

L’ordine del giorno dell’assemblea di condominio

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Tra l’ordine del giorno e la delibera condominiale ci deve essere corrispondenza.

A chi non è mai capitato di partecipare ad una assemblea di condominio o di ricevere un avviso di convocazione di una riunione condominiale? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad ordini del giorno troppo vaghi o non rispettati? E quali sono le tutele previste dall’ordinamento? In questo articolo cercheremo di rispondere alle tue domande. In particolar modo tratteremo l’ordine del giorno dell’assemblea di condominio, delle modalità e del termine per l’invio, del contenuto e dei rimedi apprestati dalla legge a tutela del diritto di informazione dei condomini.

L’assemblea di condominio: natura e funzioni

L’assemblea di condominio è un organo complesso e collegiale, rappresentato cioè dall’insieme dei proprietari di ciascuna delle unità immobiliari di cui l’edificio si compone. Essa è un organismo autonomo e indipendente. La volontà che si esprime in seno all’assemblea, infatti, non corrisponde alla somma dei singoli voti dei partecipanti, ma si qualifica come volontà autonoma e a sé stante che si esprime, a sua volta, attraverso un atto finale e collettivo: la delibera condominiale.  L’assemblea, per definizione, è il luogo in cui si risolvono le problematiche che ciascun condomino vi porta, e dove, a seguito dello scambio delle reciproche opinioni, si cerca di addivenire ad una decisione comune: la migliore per la vita condominiale; ma, al pari di qualsiasi altro organo collegiale, per poter “funzionare” deve essere, innanzitutto, convocata attraverso una procedura che sia conforme a quella dettata dal legislatore. Il codice civile, infatti, si preoccupa sin da subito di stabilire che l’assemblea non può deliberare se non dopo aver verificato che tutti i condomini siano stati regolarmente invitati alla riunione [1]. In realtà, nessuna forma di convocazione è espressamente prescritta dal codice [2].

L’ordine del giorno nelle assemblee condominiali

L’ordine del giorno è, tecnicamente, il documento contenuto nell’avviso di convocazione di un’assemblea in cui sono elencati, in sequenza, tutti gli argomenti e le materie che saranno oggetto di trattazione e sulle quali verranno prese le successive decisioni. Si tratta di un elemento necessario [3] che il legislatore ha previsto al fine di evitare che il singolo condomino venga preso alla sprovvista e si trovi a dover votare su una questione sulla quale non si era potuto preparare.

Il diritto di informazione dei condomini

Ti chiederai a questo punto se esiste effettivamente un diritto di informazione in capo a ciascun condomino. La risposta a questa domanda non può che essere positiva. Per consolidato orientamento giurisprudenziale, esiste il diritto di ogni condomino ad essere informato preventivamente delle materie oggetto di discussione; tanto è vero che la sua violazione comporta l’annullabilità delle delibere successivamente approvate, posto che il vizio di informazione incide inevitabilmente sul procedimento di formazione delle maggioranze assembleari.

In che cosa consiste questo diritto? Il diritto di informazione è strettamente connesso al diritto di ciascun interessato di prendere visione ed estrarre copia della documentazione posseduta dall’amministratore relativa agli argomenti inseriti nell’ordine del giorno. Per fare un esempio, in tema di approvazione del bilancio, sebbene non vi sia alcun obbligo per l’amministratore di depositare la relativa documentazione, è opinione condivisa che egli debba comunque mettere i condomini nelle condizioni di prenderne visione ed estrarne copia. E’ prassi comune che all’avviso di convocazione siano allegati tutta una serie di documenti, ad esempio, la copia del rendiconto consuntivo e la relativa ripartizione delle spese; la relazione dell’amministratore sulla passata gestione annuale; la copia del preventivo di spese relative ad uscite condominiali.

Termini per l’invio dell’ordine del giorno

Per espressa previsione normativa, l’avviso di convocazione contente l’ordine del giorno deve essere inviato ai condomini almeno cinque giorni prima della data prevista per la riunione, pena l’annullabilità della delibera.  Il termine di decorrenza è calcolato a ritroso, partendo proprio dal giorno in cui si terrà l’assemblea, che non verrà computato nel calcolo finale [4]. L’invio può avvenire a mezzo posta elettronica certificata, fax o raccomandata con avviso di ricevimento o anche consegnata a mano. In quest’ultimo caso, la prova della ricezione sarà subordinata alla firma dell’avvenuta consegna da parte del destinatario; mentre, nell’ipotesi di invio a mezzo raccomandata bisognerà attendere che l’avviso di ricevimento ritorni al mittente.

Peraltro, secondo una parte della dottrina ai fini del calcolo del termine di legge non deve tenersi conto della data di spedizione della raccomandata, ma piuttosto quella della sua ricezione; secondo altri invece, nel calcolo non va compreso né il giorno del ricevimento della raccomandata, né quello della riunione. Inoltre, la comunicazione non è valida se fatta attraverso una semplice e-mail o mediante affissione in portineria o in altro luogo frequentato dai condomini [5].

Nel caso in cui l’amministratore decida, poi, di inviare l’ordine del giorno tramite pec, non è necessario che egli si accerti che tutti i condomini siano in possesso di una casella di posta elettronica certificata, la comunicazione sarà pur sempre valida [6].

Cosa succede in caso di condomino assente o non residente nell’edificio condominiale?

Nel primo caso, la prova dell’avvenuta ricezione si ritiene raggiunta al momento del deposito dell’avviso di giacenza presso la sua abitazione o presso l’ufficio postale [7]; nel secondo caso, all’atto della consegna ad altro condomino suo congiunto [8]; invece, nel caso di immobile in comproprietà o di proprietà di due coniugi conviventi e non in conflitto di interessi, la prova è raggiunta al momento della consegna anche soltanto ad uno di essi [9].

Modalità di compilazione dell’ordine del giorno

L’ordine del giorno non deve fornire dati approfonditi sui temi oggetto di discussione, ma deve essere formulato in modo sufficientemente completo, tale cioè da permettere a ciascun condomino di decidere consapevolmente se partecipare o meno alla riunione, se dare delle direttive ad un proprio delegato e se prepararsi sulle materie che verranno trattate. Detto in altri termini, perché possa dirsi soddisfatto il diritto di informazione su menzionato è sufficiente che gli argomenti presenti nell’ordine del giorno siano enunciati nei loro termini essenziali, siano tali da essere comprensibili agli interessati, senza la necessità che essi siano specificati in maniera analitica e puntuale o siano tali da anticiparne gli sviluppi o l’esito della discussione [10].

Vizi di compilazione e sanzioni e tutele

Quando invece può dirsi incompleta la formulazione dell’ordine del giorno? L’ordine del giorno inserito nell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale è incompleto quando risulta indeterminato e oscuro nel suo contenuto. In questo modo i condomini non potranno sapere quale e quando un determinato argomento verrà discusso e sottoposto al voto dell’assemblea.

Ad esempio, la Cassazione ha chiarito che l’espressione “deliberazioni inerenti e conseguenti” deve considerarsi una voce generica e incapace di giustificare autonome deliberazioni, semmai riferibile solo ad aspetti accessori, correlati a quelli specificamente indicati nell’ordine del giorno. Non è consentito, perciò, all’assemblea condominiale deliberare su questioni non inserite nell’avviso di convocazione ovvero inserite su un argomento apparentemente collegato ma con differenti finalità rispetto a quelle raggiunte con la successiva delibera.

Cosa fare in caso di ordine del giorno incompleto o non rispettato?

La deliberazione assembleare può essere impugnata entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla data della deliberazione per i dissenzienti e astenuti e dalla data della sua comunicazione per gli assenti [11] Ma attenzione perché la giurisprudenza ha precisato che l’omessa indicazione di un argomento, poi deliberato, nell’ordine del giorno di una assemblea condominiale, non può essere rilevata dal condomino dissenziente nel merito, se  questi prima non abbia eccepito, in quella sede, l’irregolarità della convocazione medesima [12].

Quanto alla natura dell’invalidità di delibere assembleari conseguenti ad un ordine del giorno incompleto, la Cassazione ha più volte chiarito che l’incompletezza non determina la nullità assoluta, ma piuttosto, la annullabilità della delibera. La spiegazione è semplice: trattasi di un vizio formale inerente il procedimento di convocazione e informazione dei condomini. Ad esso non può che conseguire la sanzione “meno grave” della annullabilità della delibera.

La nullità invece, consegue nell’ipotesi in cui risulti che non tutti i condomini siano stati informati della convocazione o quando la delibera sia priva degli elementi essenziali o, ancora, quando essa abbia un oggetto impossibile o illecito. Ad ogni modo, l’eventuale genericità dell’ordine del giorno non sempre determina l’invalidità della delibera condominiale [13].

Qualora, infatti, l’ordine del giorno, sebbene incompleto, risulti comunque idoneo allo scopo di informare i condomini sulle materie oggetto di trattazione, alla luce, ad esempio, di altri elementi inseriti nell’avviso di convocazione, esso deve considerarsi valido a tutti gli effetti. Si ritiene che nell’elenco degli argomenti enunciati nell’ordine del giorno, debbano ricomprendersi anche quegli ulteriori elementi che ne costituiscono lo sviluppo logico o la necessaria conseguenza [14].

Ad esempio, in tema di lavori di sostituzione dell’impianto di riscaldamento di un condominio, si ritiene compresa anche la decisione sull’opportunità o meno di eseguire i lavori, sull’idoneità di quelli preventivati e la congruità dei relativi costi o la necessità di incaricare all’uopo un professionista affinché rediga un parere tecnico. Vi è poi un’altra questione.

Cosa succede nel caso in cui nel corso di una assemblea condominiale si decida di mettere al voto la revoca di una precedente deliberazione già approvata, sebbene tale argomento non sia stato inserito nell’ordine del giorno? È possibile impugnarla? Nella giurisprudenza di legittimità si è affermata l’opinione per cui, sebbene, la riproposizione di una delibera oggetto di una precedente votazione abbia lo scopo di sollecitare una nuova manifestazione di volontà dell’assemblea per revocare, modificare, rinnovare o confermare le determinazioni precedentemente assunte, essa tuttavia, non richiede il formale inserimento nell’avviso di convocazione tra gli argomenti all’ordine del giorno. Allo stesso modo, qualora la trattazione di uno o più degli argomenti inseriti nell’avviso di comunicazione non risultino esauriti nel corso dell’assemblea e si decida, perciò, di rinviare la discussione ad una successiva riunione, non è necessaria una nuova comunicazione, purché vi sia l’accordo di tutti i condomini presenti e ne sia dato avviso ai soli assenti [15].

Voce “varie ed eventuali”

“Varie ed eventuali” è la voce che solitamente chiude la sequenza delle materie inserite nell’ordine del giorno di una assemblea condominiale.

Ma quali sono gli argomenti “vari ed eventuali” su cui è possibile deliberare? Ci si è a lungo interrogati sul tema, cosicché secondo un primo orientamento tale dicitura deve considerarsi assolutamente priva di valore e di significato, vista la sua intrinseca genericità [16]; secondo un diverso orientamento, l’espressione ricomprende le semplici comunicazioni, i suggerimenti per le future assemblee, la prospettazione di problemi o la richiesta di risposte dall’amministratore [17]. Non possono, tuttavia, essere ricondotte sotto questa voce le delibere relative a: l’esecuzione di lavori di rifacimento della facciata dell’edificio condominiale; la diffida assembleare alla rimozione di  piante posizionate sul balcone di un condominio; la costituzione di un fondo speciale per spese condominiali urgenti e imprevedibili; la determinazione del compenso in favore di un professionista che abbia prestato la propria opera per il condominio; la deliberazione di stipulare un contratto di assicurazione contro rischio di incendio; la decisione di diniego circa l’installazione da parte di un condomino di una canna fumaria sul muro perimetrale dell’edificio condominiale; la chiusura di un ballatoio sul cortile e cosi via.

Pertanto, per concludere, qualora a seguito della trattazione di un argomento ricompreso nelle cc.dd “varie ed eventuali”, sorga la necessità di assumere una decisione, questa dovrà necessariamente essere rinviata alla riunione successiva ed essere indicata nell’avviso di comunicazione.

Di SABRINA CAPORALE

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