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Disturbo alla quiete pubblica: chi chiamare

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Rumori molesti: quando c’è illecito civile e quando invece scatta il reato di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone. Il cittadino, in questo caso, può chiamare carabinieri o polizia, non già l’amministratore di condominio. 

Chi non ti consente di riposare o di lavorare perché fa così tanto rumore da disturbare il vicinato o i condomini di un intero palazzo commette reato, quello di disturbo alla quiete pubblica. In verità il nome corretto del capo di imputazione è «disturbo alle occupazioni e al riposto delle persone» ed è previsto dall’articolo 659 del codice penale. Il caso tipico è quello del titolare di un locale notturno che diffonde musica a volume elevato o quella del proprietario di alcuni cani, lasciati sul balcone ad abbaiare fino a notte fonda. Nel reato non ricade, invece, l’ipotesi del vicino del piano di sopra che rientra la sera tardi strisciando i tacchi a terra, che tiene alto lo stereo o la televisione, che chiacchiera al cellulare alle tre della notte svegliando il condominio che vive sotto. In questi ultimi casi si commette solo un illecito civile il quale può comportare, oltre all’ordine del giudice di cessare i rumori, il risarcimento de danno.

La differenza tra il reato e l’illecito civile non sta quindi nell’entità dei rumori ma del numero di persone molestate: nel primo caso si tratta di un numero indeterminabile di soggetti (il “vicinato”), mentre nel secondo caso la vittima può essere una o poche famiglie. Chiaramente quando scatta il reato, la vittima ha uno strumento di difesa più forte: la denuncia alle autorità. Proprio di questo ci occuperemo qui di seguito: spiegheremo cioè chi chiamare in caso di disturbo alla quiete pubblica.

Quindi, se non riesci a lavorare perché c’è un chiasso infernale nella piazza sottostante per via di una manifestazione, se non trovi la concentrazione perché un’automobile parcheggiata sotto il palazzo ha lo stereo talmente alto da far arrivare le vibrazioni sino ai piani alti, se nel giardinetto sotto casa i cani schiamazzano fino a notte fonda o se il bar intrattiene i propri clienti all’esterno con degli amplificatori, leggendo questo articolo saprai cosa fare per tutelarti.

Ed è proprio sulla tutela che si gioca al differenza fondamentale tra il reato di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone e la semplice responsabilità civile. In quest’ultima ipotesi difatti – quella del vicino maleducato che fa sentire i propri rumori negli appartamenti con lui confinanti – non c’è possibilità di chiamare la polizia o i carabinieri, ma bisogna ricorrere a un avvocato che avvii, a proprie spese, un ricorso in tribunale.

Dando quindi per scontato che tu abbia compreso quando scatta il reato di disturbo alla quiete pubblica, vediamo ora chi chiamare in questi casi.

Disturbo alla quiete pubblica: quando c’è reato

Non si configura il reato di disturbo alle occupazioni e al riporto delle persone nel caso in cui i rumori prodotti non comportino molestia per un «numero indefinito di persone» ma solo per taluni determinati soggetti – quali gli occupanti di un singolo appartamento – che, in quanto appunto limitati, non possono rappresentare quella “tranquillità pubblica” meritevole di tutela per l’ordinamento. In questi casi può al limite configurarsi un’ipotesi di illecito civile, fonte di risarcimento del danno, ma non si integra alcuna violazione penalmente rilevante.

La norma del codice penale [1] prevede due distinte ipotesi di reato.

Il primo comma dell’articolo si rivolge a qualsiasi cittadino e stabilisce la punibilità di «chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici».

Il secondo comma invece si rivolge invece solo a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso e lo punisce se produce rumore violando le varie disposizioni della legge (norme di solito a carattere amministrativo o locale) o le prescrizioni dell’Autorità.

Il reato in questione è rivolto a tutelare l’ordine pubblico da intendersi come la pubblica e privata tranquillità delle persone.

Secondo la giurisprudenza il reato scatta anche qualora a lamentarsi dei rumori o a sporgere denuncia sia un singolo soggetto. L’importante però è che venga accertato che i rumori abbiano una tale diffusività da molestare un numero indeterminato di persone, anche se poi queste non si lagnano. Ad esempio, se la musica viene avvertita da tutto l’edificio ma solo tra famiglie di vecchietti si lamentano, mentre le altre, pur sentendo chiaramente i suoni, preferiscono non agire perché trovano piacevole e di proprio gusto la musica, il reato scatta ugualmente.

Non a caso è stato utilizzato il termine “potenzialmente idoneo”. Invero, occorre precisare che, essendo la fattispecie in esame un reato di pericolo, non è necessario che si verifichi in concreto l’evento, essendo, viceversa, sufficiente una condotta tale da poter determinare il disturbo di un indefinito numero di soggetti [2].

Ci si deve poi riferire alla «media sensibilità delle persone» che vivono nell’ambiente ove i rumori fastidiosi vengono percepiti [3].

Non c’è invece alcun reato quando ad essere stati disturbati sono solo i condomini che si trovino in un luogo contiguo a quello da cui provengono i rumori. In tali ipotesi, perciò, occorrerà inquadrare la fattispecie nell’ambito dei rapporti di vicinato tra immobili confinanti: con la conseguenza che polizia e carabinieri non sono competenti a intervenire.

Quali sono i mestieri rumorosi?

Con riferimento poi al secondo comma della norma del codice penale, la Cassazione ha che per «mestieri rumorosi» si intendono tutte quelle attività di lavoro produttive di vibrazioni sonore di carattere molesto per il senso auditivo in ragione della particolare natura degli strumenti adoperati o dei peculiari procedimenti attraverso cui si realizzano.

Qualsiasi attività lavorativa può, dunque, essere qualificata come mestiere rumoroso ogni qual volta, per le modalità con cui si svolge e per i mezzi di cui si avvale, produca rumori fastidiosi esorbitati la normale tollerabilità, a prescindere dal fatto che l’autorità comunale abbia predisposto l’indicazione dei mestieri rumorosi: una tale elencazione ha quindi solo valore di esempio.

Disturbo alla quiete pubblica: in quali orari?

La legge non dice in quali orari si può verificare il reato di disturbo alla quiete pubblica: può essere tanto di giorno quanto di notte. Del resto la norma parla di «disturbo alle attività e al riposo» quando le prime sono spesso diurne. Il disturbo punito dal codice penale non ha infatti riguardo soltanto al riposo ma anche alla quiete che è bene tutelato in ogni orario, di giorno e di notte, a prescindere dagli orari lavorativi. Il concetto di “riposo” non deve, dunque, essere inteso solo come quello di «sonno notturno» ma comprende anche il riposo in senso lato, ad esempio quello delle due del pomeriggio sul divano, dopo il pranzo o anche quello a metà mattina o di chi, dopo una notte di veglia per il lavoro è costretto a dormire di giorno.

Disturbo alla quiete pubblica: chi chiamare?

Vediamo ora come agire in caso di un rumore che integra il reato di disturbo alla quiete pubblica e chi chiamare. Trattandosi di un reato perseguibile d’ufficio, la denuncia che sporge il cittadino ha un semplice valore di segnalazione, potendo le autorità intervenire anche in via autonoma.

Se un bar fa rumore da disturbare il vicinato si possono chiamare la polizia o i carabinieri. I pubblici ufficiali, una volta intervenuti, stileranno un verbale che ha valore di atto pubblico. Il fatto che questi intervengano ha un duplice vantaggio: innanzitutto evita al soggetto molestato di doversi avvalere di un avvocato per presentare una denuncia in tribunale; in secondo luogo potranno constatare i rumori e farne menzione nel verbale. Le loro percezioni potranno poi essere confermate nel corso del processo penale durante il quale potranno essere sentiti come testimoni per confermare l’intensità dei rumori.

Se sei il solo a sentire i rumori non puoi chiamare carabinieri o polizia perché non si parla di reato. Né potrai avvalerti dell’amministratore di condominio che, per sua natura, non è competente a dirimere i rapporti privati tra i condomini. Dovrai invece ricorrere a un avvocato affinché diffidi il responsabile e, in caso di mancato rispetto dell’altrui riposo, agisca contro di lui in sede civile.

Se invece ci sono i presupposti del reato, non è necessario che vi sia una petizione del quartiere o dell’intero stabile: ogni singola vittima del chiasso può agire indipendentemente dagli altri chiamando le autorità o presentandosi al loro ufficio per denunciare l’accaduto.

Il risarcimento del danno

Sia nel caso in cui il rumore integri il reato, che un semplice illecito civile alla vittima spetta il risarcimento del danno. Chiaramente cambia la forma per chiedere tale risarcimento. Vediamole entrambe.

Il risarcimento per il reato di disturbo alla quiete pubblica

Nel caso di illecito penale, la vittima, una volta instaurato il processo, può avanzare le sue pretese risarcitorie in sede dibattimentale, attraverso la costituzione di parte civile nel processo penale per il tramite di un avvocato.

A tal fine la dichiarazione di costituzione di parte civile deve contenere, a pena di inammissibilità:

  • le generalità della persona fisica o la denominazione dell’associazione o dell’ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante;
  • le generalità dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo;
  • il nome e il cognome del difensore e l’indicazione della procura;
  • l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda;
  • la sottoscrizione del difensore.

Questo a condizione che il contravventore non abbia richiesto e non sia stato ammesso all’oblazione speciale. Il codice penale, infatti, prevede [4] che nelle contravvenzioni punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda – come quella in esame – il contravventore può essere ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento ovvero prima del decreto penale di condanna, una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa nonché le spese del procedimento.

Il risarcimento per l’illecito civile dei rumori molesti

Nel caso in cui non vi sia reato ma solo illecito civile, il risarcimento deve essere avanzato con un atto di citazione, anche in questo caso per il tramite di un avvocato.

A quanto ammonta il risarcimento per i rumori?

Non è necessario dimostrare l’ammontare di tale danno, ma bisogna provarne l’esistenza, non potendosi intendere come implicito all’illecito e quindi automatico. Non è necessaria una relazione medica che dimostri come la persona ha perso il sonno, ma servirà quantomeno una prova di aver perso le proprie abitudini di vita e la tranquillità domestica.

Il Tribunale di Napoli, in tema di danno derivante dal disturbo del riposo, in una sentenza del 17 novembre 1990 ha detto che: «le alterazioni generate dal rumore sull’organismo umano e particolarmente sulle sue funzioni vegetative sono state ormai accertate dagli studiosi e si possono così riassumere:

  • nessun sistema della vita vegetativa risulta privo di reazioni al rumore di una certa intensità. Per quanto, in particolare, concerne il rumore urbano il limite di sicurezza è certamente inferiore a quello di sicurezza usuale per le industrie;
  • vengono alterati i valori della compensazione del sangue con un aumento di determinate cellule;
  • la funzione digestiva presenta alterazioni di rilievo quali spasmi al piloro, iper o iposecrezione di succhi gastroenterici;
  • alterazione alla motilità intestinale con crisi di diarrea o di ostinata stipsi;
  • alterazioni delle funzioni renali con iper o iposecrezione urinaria;
  • alterazione della glicemia;
  • alterazione della secrezione salivare.

Oltre a provocare danni così rilevanti il rumore possiede un generico potere di depressione delle capacità mentali con scadimento di quasi tutte le funzioni dell’intelligenza ed in particolare dell’attenzione, con conseguente detrimento per l’attività lavorativa. Il rumore esercita altresì una notevole influenza sul tempo di reazione, sull’apprendimento di cui riduce l’efficienza, sulla fatica generale dell’uomo».


Affitto in nero: conseguenze inquilino

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Restituzione affitto pagato in nero: è nullo ogni accordo verbale o scritto con cui il proprietario e l’inquilino convengono un canone più alto di quello indicato in contratto. 

L’evasione fiscale negli affitti è ancora molto alta nonostante, nel 2004, sia stata introdotta una norma volta a contrastare il fenomeno degli affitti in nero. La legge ha infatti stabilito la nullità di tutti i contratti di locazione non registrati [1] entro il termine di legge, che è di 30 giorni dalla stipula. Un contratto nullo è come se non esistesse: in questo caso però la nullità si dice “relativa”, vale cioè solo per il locatore (vero evasore dell’imposta e, quindi, effettivo colpevole) e non invece per il conduttore. Il che significa che il primo avrà solo gli svantaggi dell’aver fittato, mentre il secondo potrà continuare a stare nell’appartamento “a sbafo”. Facciamo un esempio: se il padrone di casa non “denuncia” all’Agenzia delle Entrate l’affitto non potrà sfrattare l’inquilino con la procedura accelerata, non potrà inviargli un decreto ingiuntivo se non paga i canoni, non potrà neanche pretendere le maggiori somme concordate a voce. L’affittuario, dal canto suo, potrà lasciare in qualsiasi momento l’appartamento senza essere tenuto al preavviso e potrà anche pretendere la restituzione dei canoni non concordati. Quali sono dunque, in caso di affitto in nero, le conseguenze per l’inquilino? A spiegarlo è una sentenza della Cassazione [2] pubblicata poche ore fa.

La Corte ribadisce un principio ormai stabile, da noi anticipato sia nella guida dal titolo Affitto con canone in nero: che succede? e, con riferimento all’ipotesi di un contratto registrato ma con l’indicazione di un canone più basso rispetto a quello effettivamente corrisposto, nell’articolo Affitto maggiore rispetto al contratto: è valido l’accordo verbale? Il principio è il seguente: tutto ciò che non viene registrato è come se non esistesse. Per cui: così come un affitto non registrato è inesistente, allo stesso modo il patto per un canone superiore rispetto a quello indicato nel contratto registrato è nullo.

Come avrai modo di scoprire, però, ci sono alcune mitigazioni a queste regole e, se da un lato, il conduttore subisce a sua volta degli effetti negativi dalla mancata denuncia dell’affitto, allo stesso modo il padrone di casa può sanare l’evasione fiscale in qualsiasi momento con effetto retroattivo.

A questo punto non resta che concentrarci su tutti questi aspetti, trattandoli nel modo più semplice e comprensibile, in modo che chiunque – anche chi non è avvocato – possa comprendere quali sono le conseguenze per l’inquilino in caso di affitto in nero.

Affitto ed evasione dell’imposta di registro: cosa rischia l’inquilino?

La registrazione del contratto di affitto serve soprattutto per consentire all’Agenzia delle Entrate di sapere che quel determinato immobile è produttivo di reddito, reddito che va denunciato annualmente dal locatore e quindi tassato. Insomma, con la registrazione, l’affitto viene “censito” dal fisco e i canoni di locazione verranno tassati in capo al padrone di casa. In alcuni casi, l’inquilino può scaricare l’affitto dalle tasse (leggi sul punto Come scaricare l’affitto dalle tasse).

Potrà sembrarti paradossale ma, alla registrazione, si pagano anche un’ulteriore tassa: l’imposta di registro. Paradossale perché l’affitto viene così tassato due volte: una prima una tantum, all’atto della registrazione, e una seconda, anno dopo anno, sui canoni di locazione percepiti dal locatore.

Ora, in caso di affitto in nero, se per la mancata denuncia dei canoni mensili risponde solo il padrone di casa e non l’inquilino, invece per l’omesso versamento dell’imposta di registro è prevista una responsabilità solidale di entrambi. Questo significa che, seppure per legge la registrazione è un onere spettante al locatore, che vi deve provvedere entro 30 giorni dalla stipula della locazione, qualora questi non vi ottemperi l’Agenzia delle Entrate può richiedere il versamento indifferentemente anche all’affittuario.

Ne consegue che l’inquilino, per evitare le conseguenze di un accertamento fiscale e delle relative sanzioni, ben potrebbe spontaneamente e di propria iniziativa registrare il contratto per poi pretendere il rimborso dell’imposta dal locatore.

Contratto registrato con canone inferiore rispetto all’effettivo

Se il contratto di affitto dovesse essere stato registrato ma nella versione ufficiale è indicato un canone inferiore rispetto a quello ufficiosamente convenuto tra le parti, l’accordo segreto è inesistente. Con la conseguenza che il conduttore potrebbe limitarsi a pagare l’importo indicato nel contratto senza rischiare nulla. In altri termini il padrone di casa non potrà né sfrattarlo, né inviargli un decreto ingiuntivo o citarlo in causa. E ciò perché l’accordo ufficioso, volto a prevedere un canone superiore rispetto a quello registrato, è inesistente. Anzi, se l’inquilino ha versato per qualche mese i maggiori importi, rispettando la parola data, può chiederne la restituzione fino a sei mesi dal momento in cui lascia l’appartamento.

Come ha rilevato dunque la Cassazione, non vale il patto secondo cui il conduttore paga al locatore per l’immobile (sia esso a uso abitativo o commerciale) un affitto più alto rispetto a quanto indicato nel contratto registrato. E ciò perché la maggiorazione consente al locatore di eludere le imposte. L’accordo viola l’interesse pubblicistico alla riscossione dei tributi.

Per quanto riguarda poi gli immobili commerciali, al contrario di quelli abitativi, le parti possono pattuire un canone crescente per frazioni successive di tempo, ma a patto che l’aumento sia ancorato ad elementi certi e predeterminati. E sempre che in realtà non serva soltanto a sterilizzare gli effetti della svalutazione monetaria: in tal caso è prevista la nullità perché si eludono i limiti quantitativi della legge sull’equo canone.

Diverso è il discorso se le parti con un nuovo accordo modificano il precedente assetto. Ma deve trattarsi non di un escamotage per risparmiare sulle tasse bensì di una contrattazione che risponde alla volontà dei due soggetti.

Affitto in nero: rischi per il padrone di casa

Abbiamo detto che da un contratto di affitto in nero, l’unico rischio per l’inquilino è quello di dover rispondere, insieme al locatore, dell’omesso versamento dell’imposta di registro. Nessun’altra problematica ne può derivare per lui che, anzi, beneficia di un contratto che può decidere di non rispettare in qualsiasi momento. Se infatti smettesse di versare i canoni, il locatore non potrebbe ingiungergli il pagamento con un decreto ingiuntivo né potrebbe sfrattarlo con la procedura più veloce; sarà quindi tenuto ad avviare una causa ordinaria per occupazione abusiva, con tempi particolarmente lunghi.

Nello stesso tempo, seppur l’affitto non può durare meno dei termini imposti dalla legge (4+4 anni nei contratti a canone libero o 3+2 anni in quelli a canone concordato), qualora il contratto non sia stato registrato, l’inquilino potrà lasciare l’immobile in qualsiasi momento senza neanche essere tenuto a giustificare la ragione o a dare il preavviso.

Restituzione affitto pagato in nero

Se il contratto di locazione non è stato registrato o è stato registrato con previsione di un canone inferiore di quello effettivo, l’inquilino, come detto, ha diritto alla restituzione dell’affitto pagato in nero. A tal fine egli può agire in giudizio fino a sei mesi dopo da quando ha lasciato l’appartamento. Chiaramente dovrà dimostrare di aver versato il denaro nelle mani del locatore e se questi non gli ha rilasciato una quietanza, sia pur informale, la prova sarà più complicata.

Pulizie condominiali fatte dai condomini in proprio

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Per risparmiare è possibile imporre ai singoli condomini, a turno, di pulire le scale o di provvedere al proprio pianerottolo?

Nel tuo condominio avete deciso di tagliare le spese inutili. Per risparmiare, alcuni condomini hanno proposto di rinunciare alla ditta di pulizie. Da oggi in poi dovrete essere voi stessi a prendervi cura di lavare scale e vetri, gradini e i pianerottoli. Lo farete a turno, magari delegando il compito alle rispettive colf che già vi aiutano in casa. Viene così indetta una riunione per deliberare su questo punto e la votazione passa a maggioranza. A te però non ti sta bene: a differenza degli altri, non hai una domestica; in più hai un monolocale di pochi metri quadri  e dovresti, a questo punto, sobbarcarti un onere fisico impossibile: quello di lavare le scale di tutto il palazzo. Hai già un lavoro e una bambina piccola a cui badare: non puoi certo metterti a fare le pulizie nell’intero edificio, seppur una volta ogni due settimane. Cosa prevede la legge a riguardo delle pulizie condominiali fatte dai condomini in proprio?

A prendere una posizione su questa delicata questione è stata la Cassazione con una sentenza pubblicata poche ore fa [1]. La Corte ha deciso un caso del tutto identico a quello nel quale ora ti trovi e la sua decisione, per quanto non costituisca legge, è comunque un “precedente”; essa ti aiuterà dunque a comprendere come si interpretano le norme del codice civile in materia di ripartizione delle spese del servizio di pulizia e come agire in caso di sostituzione dello stesso con l’opera individuale dei condomini (sia che questi vi debbano provvedere personalmente che  attraverso il pagamento di qualcuno ad hoc).

Procediamo allora con ordine e cerchiamo subito di capire se si può decidere di effettuare le pulizie condominiali in proprio dai condomini

Sicuramente, l’assemblea ha il potere di tagliare i costi del servizio pulizia. Del resto rientra nelle sue facoltà stabilire quali spese affrontare e quali no. L’amministratore, in questo, non ha alcun potere di imporre la “sua”, essendo un esecutore della volontà del gruppo.

Nello stesso tempo, però, non è possibile deliberare a maggioranza un obbligo per i condomini di pulire le scale in proprio o di pagare qualcuno che lo faccia in propria vede. Si tratterebbe di imporre un onere eccessivo che peraltro viola le regole del codice civile secondo cui la ripartizione delle spese condominiali deve avvenire secondo millesimi. Questo però non significa che alla legge non si possa derogare, ma perché ciò avvenga è necessaria l’unanimità.

Serve dunque il consenso di tutti i condmini per decidere se alla pulizia delle scale deve pensarci il singolo condomino quando è il suo turno o affidare il compito a terzi a proprie spese. È conseguentemente nulla la delibera condominiale approvata a maggioranza che modifica i criteri legali o del regolamento di riparto delle spese necessarie per servizi nell’interesse comune [2] (criteri come detto basato sul principio proporzionale dei millesimi); essa incide incide sul diritto individuale del singolo attraverso l’imposizione di un obbligo di “fare”.

In questo modo la Cassazione ha accolto il ricorso di un condomino, proprietario di un appartamento in uno stabile ove l’assemblea aveva deciso di porre a carico del singolo l’obbligo personale di provvedere alla pulizia delle scale o di affidarle a un terzo a proprie spese.

Secondo la giurisprudenza più recente, ricorda poi la Corte, «la ripartizione della spesa per la pulizia delle scale va effettuata in base al criterio proporzionale dell’altezza dal suolo di ciascun piano o porzione di piano a cui esse servono e trova la propria ratio nella considerazione di fatto che «i proprietari dei piani alti logorano le scale in misura maggiore rispetto ai proprietari dei piani bassi».

L’obbligo di provvedere alle pulizie condominiali in proprio comporta non solo l’obbligo di sostenere le spese connesse a tale attività (non fosse altro per acquistare gli attrezzi necessari come scope, strofinacci e detergenti), ma anche tutti gli obblighi di fare connessi alle modalità esecutive dell’attività di manutenzione. In alternativa è vero che ci si può valere dell’opera di terzi, come la colf personale, ma si tratterebbe di far ricadere un costo comune sul singolo. Un sacrificio così gravoso dei diritti dei proprietari si può ammettere solo se c’è il consenso di tutti i condomini che va quindi espresso in apposita convenzione. Tale consenso fungerebbe da “autolimitazione” e potrebbe essere ammesso dalla legge.

Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali, anche quello inerente alle spese di pulizia e di illuminazione delle scale, prosegue l’ordinanza, «può essere derogato mediante convenzione modificatrice della disciplina codicistica contenuta o nel regolamento condominiale “di natura contrattuale”, o in una deliberazione dell’assemblea approvata all’unanimità da tutti i condomini». È in ogni caso necessario, perché sia giustificata l’applicazione di un criterio di ripartizione delle spese diverso da quello legale, commisurato alla quota di proprietà di ciascun condomino, che la deroga convenzionale sia prevista espressamente.

Spese condominiali per luce e pulizia scale: come si dividono?

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Condominio: le spese per il servizio di pulizia delle parti comuni e per l’illuminazione dell’ingresso e delle scale si dividono secondo millesimi o in base all’altezza dell’appartamento?

Nel tuo condominio è arrivato il momento di approvare il bilancio consuntivo da cui dipenderà anche la ripartizione delle spese tra i vari proprietari. Gli esborsi più rilevanti presentati dall’amministratore riguardano la ditta di pulizie e la luce per le parti comuni del condominio ossia scale e androne d’ingresso. Subito si pone il problema di come vadano divisi tali importi. A detta di alcuni sarà necessario procedere secondo millesimi di proprietà: per cui a pagare di più saranno i proprietari di appartamenti più grandi. A detta di altri, invece, ci si deve basare, come per le spese dell’ascensore, sull’altezza del piano ove si trova l’unità abitativa dei condomini: il che significa che le spese principali ricadranno su chi vive in alto al palazzo mentre gli inquilini dei locali al piano terra o ai primi piani avranno una quota minima. Il dubbio è stato risolto da una recente ordinanza della Cassazione [1] la quale ha chiarito come si dividono le spese condominiali per luce e pulizia delle scale.

Chi partecipa alle spese per illuminazione e pulizia?

Prima però di affrontare questo problema, dobbiamo fare una premessa che spesso induce in errore i condomini e genera liti. I proprietari di magazzini e negozi che hanno un proprio accesso diretto agli immobili, per il tramite del marciapiede e della strada, e che quindi non accedono mai all’androne dell’edificio e non utilizzano l’ascensore, non accendono le luci delle scale e non sporcano le parti comuni devono partecipare a tali spese?

L’androne e le scale, così come il tetto, sono parti comuni dell’edificio, cui devono partecipare tutti i condomini, ivi compresi i proprietari dei locali “frontestrada” con un proprio ingresso. Del resto, l’androne del portone non viene utilizzato solo ed esclusivamente come “passaggio obbligato” all’interno del palazzo; in esso, di norma, vengono posizionati una serie di servizi dell’intero condominio quali, per esempio, il contatore dell’acqua che alimenta l’intero fabbricato (spesso anche i locali a piano terra), i contatori dell’energia elettrica di tutte le unità immobiliari (a volte anche dei locali a piano terra), le cassette delle lettere, la guardiola del portiere, la bacheca condominiale, ecc. Senza contare il fatto che se la terrazza  condominiale, anche i proprietari dei negozi hanno il diritto di accedervi e di utilizzarla (e, se non lo fanno, è solo per una loro scelta). In tale ipotesi, quindi, si varranno delle scale o dell’ascensore.

Pertanto, essendo androne, scale e ascensore beni comuni dell’intero condomino, i titolari dei locali a piano terra non potranno essere esclusi dalla partecipazione alle relative spese di pulizia e illuminazione.

L’unica eccezione potrebbe scattare se l’atto di acquisto prevede diversamente, escludendo i proprietari dei magazzini al piano terra dalla partecipazione ad alcune categorie di spesa.

Come si dividono le spese per luce e pulizia scale in condominio?

Una volta chiarito chi deve partecipare alle spese per luce e pulizia delle scale, vediamo invece come si dividono. A riguardo la Cassazione ha detto l’assemblea non ha un potere discrezionale nel riparto dei contributi: non può quindi stabilire un riparto delle spese in base ai millesimi di proprietà in deroga a quanto previsto dal codice civile. Dunque sia per la pulizia delle scale che per la relativa bolletta della luce delle parti comuni la divisione tra i condomini deve avvenire in base al criterio dell’altezza dal suolo di ciascun piano.

Chi abita in cima all’edificio gode di tutta l’illuminazione, chi vive più in basso no

È appunto questo il principio sancito dalla Cassazione nell’ordinanza in commento. Ogni delibera dell’assemblea di condominio che disponga un diverso criterio di distribuzione di tali spese è nulla a meno che non sia presa all’unanimità. Solo infatti il consenso di tutti i condomini dell’edificio può prevedere un diverso criterio di riparto.

Come noto, afferma la Cassazione, «la ripartizione della spesa per la pulizia delle scale va effettuata in base al criterio proporzionale dell’altezza dal suolo di ciascun piano o porzione di piano cui esse servono e ai fini di tale ripartizione resta ininfluente la destinazione in atto delle singole unità immobiliari». Allo stesso modo tale interpretazione vale, in via analogica, anche per la ripartizione delle spese per l’illuminazione delle scale perché anche tali esborsi riguardano un servizio del quale i condomini godono «in misura maggiore o minore a seconda dell’altezza di piano, visto che il proprietario dell’ultimo piano utilizza l’illuminazione di tutta la tromba delle scale, mentre il proprietario del primo piano utilizza solo l’illuminazione della prima rampa».

Autorizzazione gazebo giardino privato

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L’installazione di un gazebo nel proprio giardino può avvenire, in alcuni casi, previa autorizzazione del Comune. Per alcune tipologie di strutture è necessaria anche l’autorizzazione paesaggistica.

Chi ha un ampio spazio verde a disposizione ha sicuramente progettato di arredarlo con tende, gazebo e pergolati per poter usufruire del proprio giardino soprattutto nelle belle giornate. Basta una semplice costruzione, ed il gioco è fatto. Se non fosse che, per alcune tipologie di manufatti, è necessaria l’autorizzazione del Comune.
In ambito edilizio la confusione è molta, tanto che negli ultimi anni gli interventi legislativi sono stati diversi. A fornire un quadro chiaro in materia di edilizia libera è stata una legge [1] che individua un glossario delle opere che non richiedono alcun tipo di permesso. L’elenco (come specifica la stessa normativa) non è esaustivo perché si tratta di un settore in continua evoluzione e, come spesso capita nella realtà, diventa quasi difficile stabilire cosa rientra e cosa non rientra nell’edilizia libera. In riferimento all’installazione di un gazebo nel proprio giardino la legge è chiara: l’opera inamovibile dal suolo è soggetta ad autorizzazione comunale. Vediamo insieme tutto quello che c’è da sapere sull‘autorizzazione per un gazebo installato nel giardino privato.

Autorizzazione gazebo: cosa dice la legge?

Il gazebo è, in architettura, una struttura realizzata in ambienti aperti mediante l’uso di diversi materiali per la copertura. In riferimento a quello che dice il Consiglio di Stato [2] il gazebo è una struttura leggera, non annessa ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con un’anima portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiusa ai lati da tende facilmente rimuovibili. Il gazebo viene utilizzato generalmente per allestire eventi all’aperto su suolo privato o pubblico, ed in questo caso esso ha un utilizzo temporaneo. In altri casi il gazebo è realizzato in modo tale da trarre una migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
Le novità del settore design propongono gazebo dalle linee leggere e dai materiali innovativi, ma tradizionalmente il gazebo è formato da un telaio in ferro o in legno (in alcuni casi anche in cemento) ricoperto da tessuti idrorepellenti, tende o pannelli di diverso genere. Il gazebo viene concepito per sfruttare in maniera intuitiva uno spazio esterno, quale potrebbe essere un terrazzo o, appunto, un giardino. C’è chi lo attrezza come area relax con poltrone, tavoli e sedie, e chi preferisce ricavarne una cucina rustica. Magari con tanto di panche e barbecue. Questa premessa ci serve a capire quando è necessario ottenere l’autorizzazione del Comune, poiché spesso non basta solo dimostrare al giudice di aver installato un gazebo amovibile. Ma andiamo per gradi.

L’elenco fornito dalla legge di cui sopra ci dice che fra le opere non soggette ad autorizzazione rientrano le aree ludiche senza fini di lucro, nonché gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici. Cosa significa tutto ciò? Partiamo dal significato di pertinenza. Secondo la legge [3] la pertinenza è un’opera edilizia legata da un rapporto di strumentalità e complementarietà rispetto alla costruzione principale. Si tratta di un’area non utilizzabile autonomamente, sia per le dimensioni modeste, sia per il carattere di accessorietà della stessa. Non si può cedere un giardino rimanendo proprietari di una villa, nè tanto meno vendere un terrazzo senza l’appartamento. Ragion per cui un giardino privato non è altro che una pertinenza dell’immobile, dotato di carattere accessorio rispetto alla stessa costruzione.

I lavori eseguiti nelle aree pertinenziali degli edifici possono essere di diverso tipo e, nell’ambito dell’edilizia libera, essi si configurano come gli interventi di installazione, riparazione, sostituzione e rinnovamento di alcuni manufatti. Questi, per essere esenti da autorizzazione, devono avere le caratteristiche descritte dalla normativa: per quanto concerne i gazebo, è necessario che la struttura sia di limitate dimensioni e non stabilmente infissa al suolo. Quei gazebo che si trovano in formato kit a poco prezzo anche nei supermercati rispecchiano gli elementi appena descritti, poiché consentono di utilizzarli giusto con un tavolino e due sedie per fare ombra durante l’estate. Inoltre sono smontabili e montabili, oltre ad essere dotati di una tenda asportabile. Metterli da parte durante l’inverno ne accentua la caratteristica dell’amovibilità.

Al contrario se ne deduce che un gazebo oggetto di autorizzazione dovrebbe essere una struttura fissa, magari realizzata in muratura o con telaio in legno fissato al suolo. A prescindere se la copertura sia in tessuto, in legno o in metallo, la struttura immobile fa si che questo tipo di manufatto si differenzi molto dalla prima tipologia, essendo quindi necessario procedere con il permesso del proprio Comune. Non importa quale materiale viene scelto per l’installazione dell’opera (la struttura potrebbe essere in metallo, come i gazebo venduti in kit fai da te). È l’ancoraggio con il suolo a fare la differenza. Ma c’è di più.
Perché se la legge da un lato afferma un principio, dall’altro la giurisprudenza offre interpretazioni diverse, tanto che sapere quando è necessaria l’autorizzazione per un gazebo nel giardino privato è meno semplice di quanto sembri.

Autorizzazione gazebo: cosa dicono i giudici?

In una recente sentenza [4] i giudici del Tar della Toscana hanno considerato un gazebo di 24 metri quadri dalle caratteristiche “precarie” una vera e propria costruzione di rilevanza urbanistica soggetta ad autorizzazione. La struttura in questione era sì realizzata con telaio ancorato al suolo mediante l’uso del cemento, ma aveva una copertura di plastica che sembrava imprimere carattere di precarietà al manufatto. Ad essere oggetto di discussione è proprio l’elemento della precarietà che, in materia edilizia, nulla ha a che fare con l’amovibilità di una costruzione. La precarietà si desume talvolta dalla temporaneità dell’opera, tal’altra dalla destinazione della stessa.

Secondo i giudici fiorentini un gazebo, a prescindere se sia rimovibile o sia privo di strutture murarie, è un manufatto che altera lo stato dei luoghi (con conseguente incremento del carico urbanistico) quando il suo utilizzo soddisfa esigenze che durano nel tempo. Non importa quindi il materiale utilizzato. Rileva invece l’intenzione che si ha sullo sfruttamento dell’opera. Se viene utilizzata tutto l’anno, magari anche per esigenze lavorative, il carattere precario (per cui non è necessaria l’autorizzazione) viene meno diventando obbligatorio mettersi in regola con il proprio Comune.

Di strutture precarie se ne sono occupati diversi tribunali che ne hanno ampliato il significato. Secondo la Cassazione [5] la precarietà di un manufatto deve risultare dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso effettivamente temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, a prescindere dalla sua rimovibilità. Pensiamo ad un gazebo che utilizzeremo tutto l’anno, per riparare l’auto dalle intemperie o creare una zona da adibire all’asciugatura del corredo. Oppure ad un gazebo di un ristorante dove verrà servito l’aperitivo anche durante l’inverno.

In effetti la materia in ambito di edilizia libera, per quanto sia scevra e non molto esaustiva, viene spesso interpretata assieme ad altre leggi che introducono via via elementi differenti. Un esempio che potrebbe tornare utile è la disciplina sulle verande che, se realizzate in maniera tale da creare un vano a tutti gli effetti utilizzabile, esse sono soggette ad autorizzazione. Ma anche per la costruzione di un porticato è necessario il permesso, se l’utilizzo non è temporaneo.
In conclusione un gazebo è equiparato a tutti gli effetti ad una nuova costruzione quando, pur essendo costruito con materiali che possono facilmente essere rimossi, viene destinato per un uso duraturo.

Come richiedere l’autorizzazione di un gazebo?

La legge [6] dice che ciascun Comune è dotato di uno Sportello Unico per l’Edilizia, il cui compito è gestire i rapporti con i privati in materia di permesso di costruire e di denuncia di inizio attività. La stessa normativa individua i casi specifici in cui è possibile procedere con una semplice denuncia oppure è necessario ricorrere al permesso. Quest’ultimo deve essere richiesto quando i lavori sono attività di trasformazione urbanistica ed edilizia, essendo ricompresi gli interventi di nuova costruzione e gli interventi di ristrutturazione che comportino un aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici.

Il gazebo, così come accertato dai giudici toscani e dalla Cassazione, è equiparabile a nuova costruzione, poiché si tratta di un manufatto non annesso all’immobile principale, ma installato in prossimità di una pertinenza. E il Testo Unico sull’Edilizia specifica a sua volta cosa si intende per nuova costruzione, riconducendo gli interventi di:

  • trasformazione edilizia e urbanistica del territorio diversi dal restauro, dalla ristrutturazione e dalla manutenzione ordinaria e/o straordinaria;
  • costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati;
  • installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.

Il gazebo rientra in quest’ultima categoria, perché si tratta di un manufatto leggero utilizzabile per esigenze temporanee ma che può essere destinato per diverse necessità. Lo ha detto il Consiglio di Stato che, oltre ad essere smontabile, un gazebo viene installato per trarre maggiore fruibilità da uno spazio aperto. Ragion per cui il gazebo è equiparabile a tutti gli effetti alla stregua di una nuova costruzione, quindi necessita di un permesso di costruire.

Per ottenere il permesso di costruire bisogna rivolgersi all’ufficio tecnico del Comune dove è ubicato l’immobile. Alla relativa domanda andranno allegati un certificato che attesta il legittimo possesso dell’immobile ed eventualmente il progetto così come richiesto dal regolamento edilizio tecnico comunale. Il rilascio del permesso è subordinato alla conformità dell’opera alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Nel permesso sono indicati i termini di inizio e di fine dei lavori: la data di inizio non può essere fissata oltre un anno dal giorno del rilascio del permesso. La data di conclusione non può superare i tre anni. Scaduti questi termini, il gazebo non può essere più costruito, salvo proroghe concesse dal Comune.

Installazione di un gazebo: le autorizzazioni paesaggistiche

Un punto cruciale riguarda eventuali autorizzazioni paesaggistiche necessarie per l’installazione di un gazebo. Anche in questo caso la disciplina deve essere interpretata poiché la legge di riferimento [7] non parla esplicitamente di gazebo, quanto invece di chioschi da giardino e di manufatti semplicemente ancorati al suolo. Nello specifico queste due tipologie di costruzioni sono soggette l’una a procedimento autorizzatorio semplificato. L’altra esclusa da ogni tipo di autorizzazione. Il manufatto oggetto di autorizzazione è il chiosco da giardino di natura permanente. Per chi avesse problemi, la legge in questione equipara al chiosco anche i manufatti consimili che, essendo aperti su più lati, devono avere una superficie non superiore a 30 mq.

Dalla disciplina si deduce che, qualora il gazebo fosse adoperato temporaneamente, ad esempio solo nella stagione estiva, non è necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica. La costruzione permanente con superficie inferiore ai 30 mq è soggetta ad autorizzazione paesaggistica.
Competente al rilascio dell’autorizzazione è lo Sportello Unico per l’Edilizia. In assenza di tale organo la competenza passa agli uffici comunali designati per le questioni edilizie (ad esempio l’Ufficio del Territorio).

Cosa succede se si installa un gazebo senza autorizzazione?

Nulla se si tratta di una struttura precaria, quindi amovibile ed effettivamente utilizzata per brevi periodi. Si è passibili di denuncia per abuso edilizio in tutti gli altri casi. In realtà il reato di abuso si configura anche se il manufatto installato non è conforme a quanto risultante dal permesso di costruire, e le sanzioni sono di diverso tipo, sia amministrative che penali.
Il Testo Unico sull’Edilizia le definisce entrambe ricomprendendo anche la demolizione delle opere abusive: la sanzione pecuniaria amministrativa varia da 2.000 a 20.000 euro ed il gettito sarà utilizzato esclusivamente per la demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive. La sanzione amministrativa viene comminata se chi commette l’abuso non provvede alla demolizione dell’opera. Solitamente l’interessato riceverà un’ingiunzione ed avrà tempo 90 giorni per ottemperare a quanto richiesto.

Anche le sanzioni penali comportano il pagamento di un’ammenda. In realtà la pena viene comminata a seconda se l’opera sia difforme a quanto descritto sul permesso di costruire o, addirittura, qualora risultasse completamente abusiva. Nel primo caso l’ammenda potrebbe superare le 10 mila euro. Nel secondo si arriverebbe a 51.654 euro a cui si aggiunge l’arresto fino a due anni.

È possibile tuttavia ottenere il permesso in sanatoria, previo pagamento di un contributo maggiorato. La sanatoria (croce e delizia per molte persone che costruiscono abusivamente) viene rilasciata solo se, a seguito di accertamento, il manufatto risulti essere conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. In tutti gli altri casi l’opera dovrà essere completamente abbattuta.

La sanzione penale (ammenda ed eventualmente l’arresto) viene applicata solo dopo l’esaurimento del procedimento amministrativo, intentato per accertare il tipo e l’entità di abuso. Ma mentre l’illecito amministrativo è imprescrittibile (ciò significa che l’amministrazione competente può procedere alla demolizione anche a distanza di molti anni), l’illecito penale si prescrive:

  • in 5 anni dalla realizzazione dell’opera, se nel frattempo l’interessato ha ricevuto un qualche atto interruttivo, come ad esempio un decreto di citazione a giudizio;
  • in 4 anni dalla realizzazione dell’opera se l’interessato non ha ricevuto alcun tipo di atto interruttivo.

Opposizione iscrizione ipoteca fiscale: competenza

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Regole sulla giurisdizione: il ricorso contro l’iscrizione ipotecaria effettuata da Agenzia Entrate Riscossione non si presenta più sempre alla Commissione Tributaria. La competenza dipende dalla natura del debito.

Se dovesse arrivarti un preavviso di ipoteca per l’omesso pagamento di una cartella esattoriale o se l’iscrizione ipotecaria dovesse provenire direttamente dall’Agenzia delle Entrate sapresti a quale giudice fare ricorso? Può sembrare una questione banale, ma le regole sulla competenza per l’opposizione all’iscrizione dell’ipoteca fiscale hanno spesso interessato le pronunce della Cassazione creando non pochi dubbi interpretativi tra gli avvocati e gli stessi giudici. Solo di recente, la Suprema Corte ha superato il tradizionale orientamento che fissava, per tali tipi di controversie,  la giurisdizione sempre in capo alle Commissioni Tributarie. Ora le regole sembrano più chiare e nette; non è più difficile dunque stabilire qual è il giudice competente nei ricorsi contro l’ipoteca esattoriale.

Di tanto parleremo qui di seguito. Lo faremo però non prima di aver spiegato quando il fisco o l’esattore possono iscrivere ipoteca sui beni del contribuente, potere che – a differenza dei creditori privati – è piuttosto limitato. Ma procediamo con ordine.

Chi può iscrivere l’ipoteca sugli immobili dei contribuenti?

Di solito a iscrivere ipoteca sugli immobili del contribuente è l’agente della riscossione che, per le imposte statali è l’Agenzia Entrate Riscossione mentre per le imposte locali può essere una società privata.

L’ipoteca esattoriale (ossia quella dell’Agente della Riscossione) può essere iscritta su qualsiasi immobile del contribuente purché non si tratti della cosiddetta “prima casa”. È tale l’immobile adibito a civile abitazione, luogo di residenza del debitore, non accatastato nelle categorie A/8 e A/9 e sempre a condizione che il contribuente non abbia altri immobili (anche terreni) di proprietà.

Se dovesse mancare una di tali condizioni, l’ipoteca può essere iscritta a patto che il debito superi 20mila euro.

Dunque, l’ipoteca esattoriale può scattare in una delle seguenti condizioni:

  • debito maggiore di 20 mila euro, se il contribuente ha più di un immobile;
  • debito maggiore di 20 mila euro, se il contribuente non risiede nell’unico immobile di proprietà o se questo non è adibito a civile abitazione (ad esempio, è un negozio) oppure è di lusso (categorie A/8 e A/9).

Affinché l’esattore possa iscrivere ipoteca deve inviare al contribuente, almeno 30 giorni prima, un preavviso in cui va indicato l’importo non corrisposto, le cartelle a cui questo si riferisce, la data di notifica delle suddette cartelle.

Il contribuente può bloccare l’iscrizione dell’ipoteca chiedendo, entro i suddetti 30 giorni, la rateazione del debito.

Se il contribuente dovesse accorgersi che una parte o tutto il debito è prescritto o non è dovuto può fare opposizione al preavviso di ipoteca.

Anche l’Agenzia delle Entrate e qualsiasi altra amministrazione finanziaria (ad es. l’Agenzia delle Dogane) può iscrivere un’ipoteca fiscale sugli immobili del contribuente. Ma per poter attuare tale misura cautelare deve prima farsi autorizzare dalla commissione tributaria nel corso di un giudizio apposito.

deve richiedere la misura cautelare con istanza intestata al presidente della Commissione Tributaria Provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio o ente che ha emesso o ha competenza ad emettere il provvedimento con il quale viene contestata la violazione ed irrogata la sanzione.

Non hanno invece rilevanza l’ubicazione dei beni oggetto delle misure richieste, né il domicilio fiscale del trasgressore.

L’istanza deve essere adeguatamente motivata e deve indicare le circostanze di fatto e di diritto che mettono in pericolo la riscossione del credito erariale.

In pratica, l’istanza deve contenere tutti i seguenti elementi:

  • l’indicazione del titolo in base al quale si procede (atto legittimante) e della somma per la quale si intende procedere nonché le ragioni che stanno alla base della pretesa e le circostanze che la rendono attendibile e sostenibile (il cosiddetto fumus boni iris);
  • le ragioni, analiticamente descritte e supportate da elementi oggettivi, che giustificano il timore di perdere la garanzia del credito nel periodo intercorrente tra la notifica e la riscossione (il cosiddetto periculum in mora);
  • l’individuazione e la descrizione puntuale dei beni o dei diritti che si intendono sottoporre a ipoteca.

L’ufficio deve notificare l’istanza, anche tramite il servizio postale, alle parti interessate.

Automatica iscrizione dell’ipoteca da parte dell’Agenzia Entrate Riscossione 

Se per l’opposizione all’ipoteca dell’Agenzia delle Entrate non si pongono particolari problemi essendo questa richiesta – come appena detto – in contraddittorio con il contribuente moroso, invece contro quella dell’Esattore è necessario un’apposito giudizio. Difatti l’Agenzia Entrate Riscossione è autorizzata a iscrivere ipoteca senza bisogno di passare prima da un giudice che verifichi il proprio credito. La cartella esattoriale è infatti essa stessa un titolo esecutivo. Ciò non toglie che il contribuente possa ugualmente fare opposizione in qualsiasi momento (per motivi di merito).

Opposizione all’ipoteca di Agenzia Entrate Riscossione: giurisdizione

Vediamo ora le regole in merito alla competenza relativa ai giudizi aventi per oggetto l’iscrizione ipotecaria. Come anticipato in apertura, è stato superato l’orientamento secondo cui tali controversie rientrano nella giurisdizione del giudice tributario (la CTP), indipendentemente dalla natura del credito cui si riferisce la garanzia ipotecaria.

Oggi invece la Cassazione ha chiarito che la giurisdizione viene determinata in base alla natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di iscrizione: la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria, o meno, dei crediti, ovvero ad entrambi, se quel provvedimento si riferisce in parte a crediti tributari e, in parte, a crediti non tributari.

In buona sostanza, e detto in parole povere, le regole sono le seguenti:

  • se la cartella esattoriale ha ad oggetto un tributo, la giurisdizione spetta alla Commissione Tributaria;
  • se la cartella esattoriale ha ad oggetto una sanzione amministrativa, la giurisdizione e la competenza sono del giudice di pace;
  • se la cartella esattoriale ha ad oggetto un contributo previdenziale (all’Inps) o assistenziale (all’Inail), la giurisdizione e la competenza sono in carico al tribunale ordinario sezione lavoro.

Potrebbe però succedere che l’ipoteca venga iscritta per più cause di credito; in tale ipotesi si dovrà agire presso giudici differenti.

Le controversie relative ai contributi dovuti ai consorzi stradali obbligatori costituiti per la manutenzione, la sistemazione e la ricostruzione delle strade vicinali, attesa la natura tributaria di tali oneri, sono devolute alla giurisdizione delle Commissioni tributarie.

Per le cartelle di pagamento relative a spese processuali e a somme dovute alla Cassa delle ammende la competenza è del giudice ordinario, non attenendo a crediti tributari.

Anche la giurisdizione sulla controversia nascente dall’impugnazione di un provvedimento di fermo amministrativo di beni mobili registrati, cui sia sottesa una pretesa creditoria per «spese processuali», appartiene al giudice ordinario.

Restituzione affitto pagato in nero

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Contratto di locazione non registrato: conseguenze per l’inquilino e il padrone di casa.

Se vivi da molto tempo in affitto e hai sempre pagato il canone in nero, senza cioè che il contratto sia mai stato registrato all’Agenzia delle Entrate, potresti diventare un serio problema per il padrone di casa. Non solo perché, qualora decidessi di denunciare l’irregolarità fiscale, a pagarne le conseguenze sarebbe solo quest’ultimo – il quale riceverebbe un accertamento con le relative sanzioni – ma soprattutto perché, agendo in tribunale, potresti ottenere la restituzione dell’affitto pagato in nero. Possibile? Assolutamente sì, e la conferma è stata data più volte dalla Cassazione. Per cui, anche se hai concordato – a voce, s’intende – un canone inferiore rispetto a quello che, al lordo delle tasse, avresti dovuto corrispondere, accettando come contropartita l’evasione fiscale, sei tutelato ugualmente dalla legge.

In particolare, secondo i giudici supremi – che sul punto si sono espressi, per la prima volta, con una sentenza del dicembre 2016 [1] – se è vero che il contratto non registrato è nullo per legge [2], è anche vero che le somme versate dall’inquilino a titolo di canone non hanno ragione di essere, sono cioè prive di una valida “causa”. In assenza quindi di un legittimo motivo a giustificare il trasferimento del denaro, quest’ultimo va rimborsato dal primo all’ultimo euro.

Affitto in nero: quali conseguenze?

Può sembrare un controsenso per chi crede che l’affitto in nero sia il frutto di una intesa (seppure illecita) tra locatore e conduttore, per cui entrambi ne dovrebbero essere responsabili. Ma non è così. Non è difficile convincersi del fatto che la mancata registrazione della scrittura privata costituisca un indebito vantaggio solo per il padrone di casa che, in tal modo, evita di pagare le tasse. Poco cambia, invece, per l’inquilino. Se è vero infatti che il prezzo dell’affitto viene solo formalmente deciso dal locatore, ma alla fine dei conti sono invece le leggi del mercato a fissare l’importo, in base all’incontro tra domanda e offerta, a nulla varrebbe chiedere un canone superiore se poi l’appartamento dovesse rimanere sfitto. Ed allora non è il locatore a fare un piacere all’inquilino nel rinunciare alla registrazione del contratto, ma quest’ultimo ad assecondare il primo. In buona sostanza, le tasse sull’affitto riducono il lucro del locatore ma non vanno ad aumentare gli oneri per gli inquilini i quali – con o senza le imposte – non possono permettersi oltre certe cifre.

Stando così le cose, si comprende bene che l’affittuario “subisce” la decisione del proprietario di non denunciare il contratto al fisco. Ed è proprio per questo che la legge stabilisce, in caso di affitto in nero, una nullità relativa: il contratto impegna solo il locatore ma non anche il conduttore. Che, di conseguenza, potrà chiedere la restituzione dell’affitto pagato in nero senza perciò essere sfrattato.

Cerchiamo di comprendere meglio come stanno le cose e di spiegare, quindi, quali sono i poteri dell’inquilino in ipotesi del genere.

Affitto in nero: chi ci perde?

Se hai letto i nostri due articoli Affitto in nero: conseguenze per l’inquilino e Locazione non registrata: conseguenze per il locatore, saprai già bene come la pensano i giudici in caso di un affitto non dichiarato all’Agenzia delle Entrate. Cerchiamo, qui di seguito, di fare il punto della situazione.

Entro 30 giorni dalla firma, il locatore deve registrare il contratto all’ufficio delle imposte. Successivamente dovrà dichiarare i canoni nella sua dichiarazione dei redditi annuali.

La mancata registrazione comporta:

  • una causa di nullità del contratto,
  • un’evasione fiscale.

Con riferimento a questo secondo aspetto, l’omesso versamento dell’imposta di registro comporta una responsabilità solidale dell’inquilino e del padrone di casa. In altri termini l’Agenzia delle Entrate può esigere indifferentemente il versamento della tassa dall’una o dall’altra parte. Proprio per questo, il conduttore può registrare da sé il contratto e farsi poi restituire l’importo dal locatore.

Invece per quanto riguarda la mancata denuncia dei canoni nella dichiarazione dei redditi la responsabilità ricade solo sul padrone di casa (né potrebbe essere altrimenti, visto che l’inquilino non ha alcuna interferenza in tale adempimento).

Quanto invece alla nullità del contratto non registrato, questa si ripercuote solo sul locatore e non sull’inquilino. Difatti il primo è comunque tenuto a rispettare l’affitto: non può cioè mandare via il conduttore solo perché il contratto è nullo. Il secondo, al contrario, può anche non adempiere: può cioè recedere in qualsiasi momento, lasciando l’appartamento senza motivo e senza preavviso; può finanche rifiutarsi di pagare il canone di locazione senza temere un decreto ingiuntivo.

La nullità del contratto non registrato comporta anche il divieto, per il proprietario, di agire con la procedura di sfratto più rapida di quella ordinaria.

Se il contratto dovesse indicare un canone inferiore rispetto a quello concordato a voce e di fatto corrisposto dall’inquilino, quest’ultimo potrebbe chiedere la restituzione del surplus fino a sei mesi dopo dalla riconsegna dell’immobile.

Di recente la Cassazione ha ammesso la registrazione tardiva dell’affitto. Sotto un profilo fiscale, si può registrare il contratto fino a 30 giorni dopo la stipula della scrittura, senza alcuna conseguenza; lo si può fare anche dopo, entro massimo un anno, con il ravvedimento operoso così contando su uno sconto sulle sanzioni. La registrazione tardiva può avvenire anche oltre il ravvedimento operoso (ma lo sconto sulle multe è inferiore) e sempre che, nel frattempo, non sia intervenuto un accertamento.

Sotto un profilo civilistico, la Cassazione ha detto che è possibile la registrazione tardiva – oltre cioè i 30 giorni dalla firma della scrittura – evitando in tal modo la nullità del contratto. Questo significa che, con effetti retroattivi, la locazione viene sanata e diventa valida. In buona sostanza, come abbiamo già spiegato in Affitto: si può registrare in ritardo?, la registrazione tardiva sana la precedente omissione e quindi tutti gli accordi “rivivono”, con effetto retroattivo.

A conti fatti, se il contratto non viene registrato, in caso di affitto in nero ci perde solo il locatore.

Restituzione dell’affitto

L’aspetto forse più saliente di tutta questa vicenda sta nella possibilità, per l’inquilino, di chiedere la restituzione dei canoni di affitto versati in nero. Ciò può succedere in due casi:

  • quando il contratto non è stato registrato;
  • quando il contratto è stato registrato ma indica un affitto inferiore rispetto a quello effettivamente versato.

La legge dà all’inquilino un termine fino a sei mesi da quando lascia l’appartamento per agire contro il locatore e chiedere il rimborso delle somme in più versate e da questi non dichiarate al fisco.

La ragione di tale facoltà – spiega la Cassazione – si desume dalle stesse conseguenze che la legge collega all’omessa registrazione dell’affitto: se è vero che il contratto non registrato non esiste per la legge, anche i canoni versati sono privi di una “giusta causa”; quindi non hanno ragione di essere corrisposti o, se corrisposti, devono essere restituiti.

Affitto in nero: si può chiamare la guardia di finanza?

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È possibile denunciare un affitto non registrato al fisco a condizione che avvenga in forma non anonima. 

Chi mai può essere interessato a chiamare la guardia di finanza per l’affitto in nero? Forse un condomino dello stesso palazzo, infastidito dal fatto che, in uno degli appartamenti del proprio stabile, viva gente poco raccomandabile, a volte più numerosa rispetto alla capienza dell’immobile, magari rumorosa e poco rispettosa del regolamento. Potrebbe essere lo stesso amministratore se il padrone di casa si rifiuta di fornire i dati dei nuovi condomini per l’anagrafe condominiale, dichiarando che si tratta di semplici ospiti. O potrebbe essere lo stesso affittuario che, sapendo a quali conseguenze va incontro in caso di omessa registrazione dell’affitto, teme che un giorno l’Agenzia delle Entrate possa chiedergli il versamento dell’imposta di registro non saldata dal proprietario. Insomma, ci sono tante ragioni per denunciare il proprietario che non dichiara al fisco il contratto di locazione. Ma, al di là di quelle che possono essere la motivazioni individuali, la domanda che ci si può fare è se la legge contempla tale possibilità, ossia se si può chiamare la guardia di finanza per l’affitto in nero.

Una cosa è certa: chi lo fa, verosimilmente preferirà restare anonimo. E questo è un aspetto di non poco conto visto che le fiamme gialle non sono tenute ad accettare segnalazioni non firmate dal dichiarante. Anche se in passato l’Agenzia delle Entrate ha effettuato diversi controlli scaturiti da lettere anonime, la Cassazione ha detto che, in questi casi, la verifica non è obbligatoria e, comunque, non può comportare l’impiego di alcuni poteri tipici del fisco come ad esempio il sequestro delle carte.

Indagini a casa: quali poteri ha il fisco?

L’Agenzia delle Entrate ha il potere di disporre delle indagini all’interno della casa dei contribuenti ma nel rispetto di alcune garanzie previste dalla legge. Innanzitutto è necessaria la sussistenza di gravi indizi di violazioni delle norme sulle imposte sui redditi; in secondo luogo c’è bisogno dell’autorizzazione del pubblico ministero (il quale appunto verifica la sussistenza di tali indizi). È il caso, ad esempio, oltre che dell’abitazione del contribuente e dei suoi familiari, anche di garage, cantine e altri luoghi non di pertinenza aziendale.

Tali indizi devono essere esplicitati nella richiesta che i verificatori avanzano al magistrato. Quest’ultimo, se li ritiene sussistenti, concede l’autorizzazione all’accesso. L’inosservanza di queste prescrizioni comporta per giurisprudenza di legittimità ormai consolidata l’inutilizzabilità degli atti compiuti e quindi la nullità del successivo avviso di accertamento.

È evidente che la nullità dell’accertamento può discendere sia dalla totale assenza di autorizzazione da parte dei verificatori, sia dalla mancanza dei requisiti (gravi indizi di violazioni) legittimanti la richiesta.

Guardia di Finanza: come denunciare?

Qualsiasi cittadino ha il diritto di sporgere denuncia di un’evasione fiscale alla Guardia di Finanza. Si tratta di un atto molto semplice: non è prevista alcuna modalità particolare. Lo si può fare anche attraverso la compilazione di appositi moduli scaricabili dal sito della GdF. Con la denuncia l’interessato mette a conoscenza l’autorità di un illecito tributario di cui ha contezza, ma resta un atto volontario, non obbligatorio. Anche l’amministratore di condominio, consapevole che in un determinato appartamento vivono “inquilini in nero” non ha il dovere di segnalare l’episodio all’Agenzia delle Entrate o alla Finanza.

La denuncia da parte dei privati può essere sia orale che scritta. Nel primo caso sarà l’agente a redigere il verbale. Non è previsto un contenuto formale tipico e il denunciante può limitarsi alla semplice esposizione del fatto.

Proprio per queste ragioni non è possibile una denuncia anonima. Nel senso che, se una persona si presenta alla Finanza e chiede di non firmare l’atto di denuncia, quest’ultima non può accettare la dichiarazione.

Questo non toglie però, che chiunque possa mandare una lettera alla Finanza o all’Agenzia delle Entrate, senza firmarla, denunciando un’evasione fiscale. Lo può fare anche chiamando il numero gratuito 117.

L’unica differenza però è che, in caso di denuncia anonima, le autorità non sono obbligate né a dare una risposta, né ad avviare le indagini. In più, come chiarito dalla Cassazione e da noi spiegato in Denuncia alla guardia di finanza in anonimo, il pm non può concedere un’autorizzazione a eseguire la verifica fiscale a casa del contribuente quando il procedimento è partito solo da informazioni anonime. Difatti, come abbiamo anticipato, l’accesso domiciliare è consentito solo se ricorrono gravi indizi di violazione delle norme tributarie. E di certo una segnalazione anonima non è un indizio, tantomeno grave, perché si fonda solo su una dichiarazione di un soggetto rimasto sconosciuto. Insomma, non ci sono prove.

Affitto in nero: comunicarlo alla Finanza o all’Agenzia Entrate

Questo significa che se anche si può denunciare alla Finanza un affitto in nero, e a farlo può essere chiunque, quest’ultima non potrà fare un accesso nell’abitazione se la segnalazione è anonima (ma ciò non toglie che possa ugualmente avviare delle indagini). Viceversa, se il denunciante viene generalizzato, l’accesso sarà possibile ma sempre previa l’autorizzazione del pm.

L’inquilino può denunciare all’Agenzia delle Entrate di trovarsi in un affitto non registrato perché il padrone di casa non ha voluto dichiarare il contratto. Egli sarà allora tenuto a versare l’imposta di registro per conto del primo e scomputarla dal successivo canone. Non certo per questo il locatore potrà sfrattarlo, ma anzi sarà tenuto a esigere il canone indicato nel contratto registrato e non più uno maggiore.

Dichiarare l’affitto al fisco consente all’inquilino di evitare la responsabilità solidale per il versamento dell’imposta di registro.


Se il padrone di casa non dichiara l’affitto, che rischi?

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Accertamento fiscale in caso di affitto in nero: la responsabilità solidale è sia del locatore che del conduttore, ma solo per l’imposta di registro.

Il padrone della casa in cui vivi in affitto non ha dichiarato il contratto al fisco? Vuoi sapere che che rischi? Te lo spieghiamo in pochi secondi in questo articolo. Ti diremo, per filo e per segno, quali sono i diritti dell’inquilino in nero e chi deve effettuare la registrazione della locazione; andremo a elencare gli effetti della scrittura privata non registrata e quali sono le conseguenze se tale adempimento viene posto in ritardo (ossia dopo 30 giorni dalla sua firma). Ma procediamo con ordine e vediamo che rischi se il padrone di casa non dichiara l’affitto.

Mancato pagamento imposta di registro: responsabilità solidale

Tu magari credi che l’evasione fiscale è un problema solo di chi la compie. Nel tuo caso non è così. Il contratto di locazione in nero, ossia quello che non è stato registrato all’Agenzia delle Entrate, è sì nullo, ma la responsabilità per il mancato versamento dell’imposta di registro è sia tua che del locatore. In termini tecnici siete “responsabili in solido”. Questo significa che il fisco può venirti a chiedere i soldi e, se non li versi, notificarti una cartella esattoriale.

Ecco perché, se vuoi, puoi sempre andare a registrare l’affitto qualora non lo faccia il locatore. Quest’ultimo, è vero, ha 30 giorni dalla firma del contratto per procedere alla registrazione. Di recente la Cassazione ha anche detto che è possibile una registrazione tardiva che sanerà la nullità e, da un punto di vista fiscale, grazie al ravvedimento operoso, può comportare una riduzione delle sanzioni (ma è necessario che l’adempimento sia effettuato al più non oltre un anno dopo).

Mancato pagamento imposte sui canoni di locazione

Quanto poi all’evasione dei singoli canoni di affitto che non sono stati dichiarati, quello è affare del locatore: se non dichiara infatti il contratto subirà un accertamento anche sull’Irpef da parte dell’Agenzia delle Entrate e tu, in qualità di inquilino, non rischierai nulla.

Registrazione affitto con prezzo inferiore rispetto a quello pagato mensilmente

Anche la registrazione di un affitto con un prezzo inferiore rispetto a quello effettivamente versato è vietata per legge. Tu in questo caso puoi limitarti a pagare il canone riportato sul contratto, senza rischiare sfratti o decreti ingiuntivi (è valido solo il canone che risulta sul contratto registrato). E per ciò che hai pagato in più in passato puoi chiedere la restituzione entro 6 mesi da quando lasci l’appartamento.

Diritti dell’inquilino “in nero”

Se l’affitto resta in nero è vero che sei corresponsabile per l’evasione dell’imposta di registro (al più ti può arrivare una richiesta di pagamento da parte dell’Agenzia delle entrate e, se non adempi, una cartella), ma hai più di un punto di forza che puoi giocare a tuo favore. Difatti la nullità del contratto si ripercuote solo a danno del proprietario e non dell’affittuario. Sai che significa in termini pratici? Che tu non sei tenuto a rispettare le varie clausole della scrittura privata mentre il locatore sì. Facciamo qualche esempio.

Avete convenuto un canone di locazione? Ebbene, se tu non paghi il locatore non può intimarti un decreto ingiuntivo, e ciò perché gli manca una valida prova scritta (che non è certo il contratto di locazione non registrato).

Vuoi andartene via in qualsiasi momento? Puoi farlo, senza giusta causa e senza preavviso, perché il termine di scadenza previsto nel contratto può anch’esso non essere rispettato.

Ed ancora: il contratto è scaduto e tu non te ne vai di casa? Il proprietario non può sfrattarti perché la procedura è prevista solo per gli affitti registrati. Dovrà farti una lunga e costosa causa.

Insomma… come dire… Parigi val bene una cartella esattoriale.

Mancata convocazione: la riunione di condominio è valida?

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Omessa convocazione di uno dei condomini: l’assemblea condominiale e la relativa votazione sono annullabili anche se ratificate con una successiva delibera.

Nel tuo condominio si è tenuta una riunione alla quale non hai partecipato. L’amministratore, infatti, ha dimenticato di inviarti l’avviso e, anche se avevi conoscenza della convocazione per averne sentito parlare dal tuo vicino di pianerottolo, hai preferito non presentarti per mancanza di tempo e di interesse. Ora però hai saputo che si è deciso qualcosa di molto importante; vorresti quindi opporti facendo annullare la delibera. Puoi farlo? In caso di mancata convocazione, la riunione di condominio è valida? 

Sul tema dell’omessa comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea a uno o più condomini si è spesso pronunciata la giurisprudenza stabilendo che, tale dimenticanza, comporta l’«annullabilità» della decisione. Attenzione: «annullabilità» e non «nullità», come comunemente si dice; non è una differenza di poco conto perché – per come vedremo a breve – le conseguenze tra l’una e l’altra ipotesi sono notevoli e rilevanti.

Ad esempio, una recente sentenza del tribunale di Milano [1], chiamato appunto ad esprimersi sulla illegittimità dell’assemblea condominiale per omessa convocazione ad un soggetto, ha fornito un importante chiarimento di cui è bene dare conto per comprendere quali margini di manovra ha il condòmino escluso per tutelarsi e quali invece il condomìnio per sanare la situazione. 

Procediamo dunque con ordine e cerchiamo di capire se è valida la riunione di condominio in caso di mancata convocazione di uno o più condomini. 

Avviso di convocazione assemblea di condominio: come e quando

Almeno 5 giorni prima della riunione, ogni condomino deve aver ricevuto l’avviso da parte dell’amministratore. In altre parole ci devono essere almeno 5 giorni tra la data di consegna dell’avviso e quella fissata per la riunione dell’assemblea. Il termine (inderogabile) per l’invio viene calcolato partendo dal giorno stabilito per la riunione, che non viene incluso e conteggiando i 5 giorni all’indietro fino ad arrivare al quinto che viene invece incluso.

La comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea deve essere “formale”, deve cioè poter consentire la dimostrazione dell’avvenuto ricevimento dell’avviso. Sicché non sono sufficienti le convocazioni fatte con email semplice, con sms sul cellulare, con un avviso immesso nella cassetta della posta o affisso alla bacheca di condominio. L’amministratore deve invece valersi della raccomandata o dell’avviso consegnato a mani e controfirmato; ai condomini muniti di Pec (professionisti, ditte individuali, società) è possibile inviare anche solo la posta elettronica certificata. 

L’avviso di convocazione deve indicare, in modo analitico, i punti all’ordine del giorno che verranno trattati durante la riunione in modo da consentire ai proprietari degli appartamenti di farsi una chiara idea di quel che sarà oggetto di dibattito e votazione. Un ordine del giorno incompleto o generico rende annullabile l’assemblea.

Leggi sul punto: Assemblea di condominio: avviso di convocazione.

Omessa o tardiva convocazione dell’assemblea: conseguenze

Secondo la giurisprudenza, in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione anche di uno solo dei condomini, l’assemblea di condominio e tutte le votazioni in essa adottate sono annullabili su istanza solo degli interessati, ossia di coloro che non hanno potuto partecipare. Quindi un condomino che si è presentato alla riunione non può impugnare la delibera se un altro non è stato correttamente convocato; solo quest’ultimo ha il potere di farlo.

Per fare annullare la delibera, il condominio che non è stato avvisato deve rivolgersi al tribunale e impugnarla entro 30 giorni da quando ne ha avuto notizia ossia da quando l’amministratore gli ha comunicato il verbale dell’assemblea. Anche se è venuto a conoscenza della riunione in altri modi (ad esempio tramite voci di corridoio), i 30 giorni iniziano a decorrere solo dalla trasmissione ufficiale del verbale.  

Prima del giudizio in tribunale è obbligatorio presentarsi a un organismo di mediazione per tentare un accordo bonario con la controparte. Senza questo passaggio, il giudice non può mandare avanti il giudizio.

La differenza tra i vizi della delibera che comportano la nullità e quelli che invece comportano l’annullabilità è proprio questa: per i primi non ci sono termini di scadenza per agire, mentre per i secondi ci sono solo 30 giorni. Se scadono i 30 giorni la delibera, anche se invalida per omessa convocazione, si sana e non può più essere contestata.

Vizi dell’avviso di convocazione dell’assemblea di condominio

Comportano l’annullabilità della riunione di condominio (anche) i seguenti vizi collegati all’avviso di convocazione:

  • ordine del giorno incompleto (delibera presa su argomento non nell’ordine del giorno);
  • omessa indicazione dei criteri di ripartizione di una spesa condominiale posta all’ordine del giorno;
  • omessa convocazione di un condomino;
  • omessa convocazione dei nuovi acquirenti proprietari di nuove autonome porzioni di piano a seguito del frazionamento di un unico bene di proprietà esclusiva;
  • convocazione mediante semplice e-mail.

Sostituzione della delibera con un’altra

Secondo la sentenza del tribunale di Milano citata in apertura, qualora uno o più condòmini non ricevano l’avviso di convocazione per partecipare all’assemblea, la delibera è illegittima e va annullata a meno che, nel frattempo, non sia intervenuta un’altra assemblea condominiale a sanare il vizio e, con un avviso questa volta inviato a tutti i condomini, abbia riproposto le stesse questioni all’ordine del giorno e proceduto a nuove votazioni. Viceversa, se tale seconda delibera di ratifica viene avviata solo dopo l’impugnazione della prima in tribunale, il giudice è comunque obbligato a verificare l’illegittimità della prima riunione e a condannare il condominio a rimborsare le spese processuali. 

Dalla pronuncia del tribunale si ricava un ulteriore spunto: compete al condominio dimostrare la data di avvenuta consegna del verbale al condomino assente. 

Condominio e divieto di vendita: può essere valido?

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Stiamo intermediando la vendita di un appartamento all’interno di un condominio anni ’70 di 8 unità abitative. Nel regolamento di condominio è inserita questa norma: “Ogni condomino può vendere o locare il proprio appartamento solo previo consenso della maggioranza dei condomini”. Questa norma è illegittima e priva di efficacia? 

La legge italiana definisce il diritto di proprietà come il diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo (così stabilisce l’articolo 832 del codice civile).

Questo significa che il contenuto del diritto di proprietà consiste essenzialmente nel diritto del proprietario di:

– decidere se, come e quando usare la cosa (diritto di godere);

– compiere atti attraverso i quali disporre della cosa, cioè venderla o costituire su di essa diritti a favore di terzi (diritto di disporre).

Fatta questa premessa, occorre però dire che la legge ammette la possibilità che il proprietario possa accordarsi con un terzo o più terzi per impegnarsi a non vendere il suo bene, ma a condizione che l’impegno sia limitato nel tempo e corrisponda ad un interesse apprezzabile di una delle parti

dell’accordo; in ogni caso, poi, un accordo di questo tipo avrà effetto solamente tra le parti che lo hanno stipulato (così stabilisce l’articolo 1379 del codice civile che regolamenta il cosiddetto “patto di non alienazione”).

Questo vuol dire che il proprietario di una cosa può anche impegnarsi a non venderla, ma l’accordo per essere valido:

– deve essere limitato nel tempo (non può cioè essere di durata illimitata);

– deve corrispondere ad un interesse apprezzabile di almeno una delle parti;

– in ogni caso, anche se fosse valido, un accordo di questo tipo avrebbe effetto soltanto tra le parti che lo hanno sottoscritto (ciò vuol dire che se poi il proprietario, durante il periodo di tempo in cui si era impegnato a non venderlo, vendesse ugualmente il bene ad un soggetto estraneo all’accordo, la parte a cui favore era stato concluso il patto di non alienazione non potrebbe “recuperare” il bene ma solo chiedere il risarcimento dei danni per la violazione del patto di non alienazione).

Occorre aggiungere che la Corte di Cassazione (si vedano le sentenze n. 3.082 dell’11 aprile 1990, n. 12.769 del 17 novembre 1999, n. 15.240 del 20 giungo 2017) ha esteso l’applicazione dell’articolo 1379 del codice civile anche a tutti quegli accordi diversi dal patto di non alienazione, ma che in ogni caso prevedano limitazioni altrettanto incisive del diritto di proprietà: pertanto anche un divieto di locazione con durata illimitata sarebbe illegittimo in base all’articolo 1379 del codice civile.

Riassumendo:

un divieto di alienazione e/o di locazione a durata illimitata (come risulta essere quello contenuto nel regolamento di condominio citato nel quesito in esame), cioè senza alcun limite di tempo, è da considerare nullo in base a quello che stabilisce l’articolo 1379 del codice civile.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Angelo Forte

Si devono sopportare gli odori della cucina del vicino in condominio?

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Vivo in condominio da tanti anni ma di recente vive al primo piano una famiglia che cucina pietanze così maleodoranti da costringermi a tenere chiuse le finestre di casa. L’amministratore mi ha detto che non gli si può vietare di fare da mangiare. Io però non posso neanche utilizzare il mio terrazzo. Ho provato a parlare con la famiglia senza esito, anzi mi hanno risposto che loro non possono tenere i cattivi odori a casa loro. Come posso risolvere la questione? 

Secondo quanto stabilito dall’art. 844 del codice civile, il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.

Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso. 

Questo articolo mira a tutelare la proprietà nella sua pienezza, con riferimento alle multiformi esigenze di vita e di piena fruibilità del bene e non dunque solo alla tutela della salute in quanto tale (Cassazione civile, sez. II, 02/04/2015, n. 6786).

La Suprema Corte ha nel tempo stabilito che tale norma è applicabile anche negli edifici in condominio nell’ipotesi in cui un condomino nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni dia luogo a immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini.

Nella applicazione della norma deve aversi riguardo, peraltro, per desumerne il criterio, di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, alla peculiarità dei rapporti condominiali e alla destinazione assegnata all’edificio dalle disposizioni urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari.

Dalla convivenza nell’edificio – tendenzialmente perpetua – scaturisce talvolta la necessità di tollerare propagazioni intollerabili da parte dei proprietari di fondi vicini. La stessa convivenza – per contro – suggerisce di considerare – in altre situazioni non tollerabili – le immissioni che i proprietari dei fondi vicini sono tenuti a sopportare, in considerazione delle condizioni di fatto, del tutto peculiari, consistenti nei confini in senso orizzontale e verticale tra le unità abitative. In particolare, nel caso in cui il fabbricato non adempia a una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti, a un tempo ad abitazione e a esercizio commerciale, il criterio dell’utilità sociale, cui è informato l’articolo 844 citato impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali le esigenze personali di vita connesse all’abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all’esercizio di attività commerciali. In caso di immissioni nell’ambito di un edificio in condominio i parametri fissati dalla normativa speciale in tema di requisiti e dimensionamento degli impianti termici negli edifici (in quanto diretti alla protezione di esigenze della collettività di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza, al fine di stabilire la intollerabilità delle emissioni che li eccedono non vincola il giudice del merito. Il giudice civile – infatti – non è necessariamente vincolato dalla normativa tecnica prescritta per limitare l’inquinamento e i consumi energetici, e, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo motivatamente al giudizio di intollerabilità sulla scorta di un prudente apprezzamento di fatto che consideri la particolarità della situazione concreta (Cassazione civile, sez. II, 30/08/2017, n. 20555).

Fatta questa premessa, nel caso specifico, il problema si sostanzia nella misurabilità degli odori, per stabilire se superi la normale tollerabilità prevista dalla legge per ottenere la cessazione di quei fatti.

Tuttavia, mentre per i rumori o anche i gas esistono degli strumenti tecnici per la misurazione dei quantitativi tecnici e, quindi, per la verificazione scientifica della tollerabilità, per gli odori da cucina tale strumentazione non esiste, perché non percepibile da nessun macchinario.

Pertanto, la valutazione del Giudice (come anticipato nella sentenza sopra trascritta) non potrà che essere soggettiva, e portare ad un’incertezza di riuscita dell’eventuale azione legale da intraprendere nei confronti dei vicini.

Come sopra riferito, esistono delle sentenze che hanno portato all’esito vittorioso delle cause, ma ovviamente – essendo una valutazione pressoché soggettiva dei fatti – non potrà aversi una certezza del buon esito della causa.

Quello che è possibile consigliare al lettore inizialmente è di chiamare i Vigili più volte e in giorni magari ravvicinati affinché possano verificare l’intollerabilità delle esalazioni, nonché la continuità delle stesse. In questo caso sarebbero costretti a redigere una relazione di servizio.

In più, sarebbe opportuno nominare un perito che valuti la situazione e relazioni, in base all’esperienza maturata sul campo, se quegli odori possano essere considerati come intollerabili.

Queste due prove, unitamente alle testimonianze di altri vicini, potrebbero sicuramente agevolare il buon esito di una causa.

In questo caso, si potrà agire con un’azione negatoria, così come prevista dall’art. 949 c.c. che stabilisce la possibilità per il proprietario, se sussistono anche turbative o molestie, di chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.

Inoltre, si potrà agire a livello penale poiché la contravvenzione prevista dall’art. 674 del codice penale è configurabile anche nel caso di “molestie olfattive” a prescindere dal soggetto emittente (fattispecie relativi ad odori di fritto e sugo provenienti dalla cucina di un condomino) (Cassazione penale, sez. III, 22/11/2016, n. 14467).

Una volta acquisite queste prove, il lettore potrà procedere, quindi, con una lettera di messa in mora e, in caso di esito negativo, con un giudizio civile e un’eventuale querela-denuncia in Procura.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Salvatore Cirilla

Crollo di un costone e vendita del terreno: che fare

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Sono proprietario di un terreno che comprende un costone, che nel 2005 (quando usufruttuario era mio padre, ora deceduto – pertanto non ho alcuna notizia su ciò che avvenne durante e dopo il fatto) è crollato per cause naturali. L’intervento del Genio Civile ha ristabilito la sicurezza del luogo con delle mura di sostegno. Di tale opera non ho documentazione, sono solo in possesso di una perizia risalente al 2008 circa. Da quello che sentivo, l’area non era edificabile in quanto sarebbero serviti lavori troppo onerosi.  Nella proprietà, adiacente al terreno, vi è uno stabile/rimessa, ma non ho certezza sulla relativa stabilità, in quanto mai ristrutturato. Quali documenti sono necessari per procedere alla vendita di tutta l’area (costone/terreno/rimessa)? Presumo di dover accertare la sicurezza del luogo. Va coinvolto ingegnere/VVFF? Il geometra non è in grado di aiutarmi in merito e non vorrei coinvolgere agenzie immobiliari ove possibile. 

Fondamentale per la vendita di ogni immobile è il certificato di agibilità: con esso si dichiara che l’immobile è idoneo ad accogliere le persone perché rispetta le norme riguardanti le condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente (D.P.R. 380/2001, art. 24). In pratica, il certificato assicura che l’immobile sia utilizzabile dall’uomo. 

Il certificato di agibilità viene rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale. La domanda va presentata allo Sportello Unico del Comune ove si trova l’immobile. Insieme alla domanda per il rilascio del certificato di agibilità andranno depositati i seguenti documenti tecnici: il certificato di collaudo statico; la dichiarazione di conformità alle norme in materia di accessibilità e di superamento delle barriere architettoniche; per le abitazioni in zone dichiarate sismiche, il certificato di conformità alle norme antisismiche delle opere eseguite. 

È bene ricordare che l’assenza del certificato di agibilità può viziare l’intera vendita: in particolare, se l’immobile è totalmente inagibile, nel senso che il certificato manca perché l’immobile non è sicuro, l’acquirente può chiedere l’annullamento del contratto, il risarcimento dei danni e la restituzione delle somme già corrisposte; se, invece, il certificato manca perché non è mai stato richiesto, ma l’abitazione è astrattamente agibile, allora è obbligo del venditore presentare la domanda al Comune, pagando tutte le spese necessarie. Se non lo fa, l’acquirente può ottenere la riduzione del prezzo della casa e un risarcimento commisurato al deprezzamento dell’immobile in conseguenza dell’assenza del certificato.

L’immobile deve inoltre essere dotato dell’Ape, attestato di prestazione energetica, cioè di quel documento che indica il livello di consumo di energia dell’abitazione. L’Ape, in altre parole, è la certificazione che attesta le caratteristiche di consumo energetico degli edifici. 

Il certificato di conformità degli impianti, invece, è rilasciato dalle imprese abilitate a installare gli impianti (es.: elettricista, idraulico) e certifica che gli stessi (impianto elettrico, impianto idrosanitario e termico, impianto per l’utilizzazione del gas, ecc.) sono conformi alle norme di sicurezza vigenti al momento della loro realizzazione. 

Non è da escludere che possa servire, in aggiunta, un certificato di collaudo statico, che riguarda il giudizio sul comportamento e le prestazioni delle parti dell’opera che svolgono funzioni portanti. I Comuni dovrebbero accettare anche un’autocertificazione di idoneità statica, ma a parere dello scrivente si sconsiglia al lettore di procedere in tal senso senza l’assoluta certezza di ciò che sta dichiarando. 

In ogni caso, sarebbe comunque bene che lo stesso si faccia seguire da un ingegnere, in quanto potrebbero occorrere valutazione che solo un tecnico potrà dargli visionando anche tutto l’incartamento depositato presso l’ufficio tecnico del Comune; ad esempio, non si può sapere se la zona sulla quale sorge lo stabile/rimessa menzionata dal lettore sia segnalata come zona a rischio (ad esempio, soggetta a frane, ecc.), se vi sia qualche vincolo di sorta oppure se, come diceil lettore, si tratta di area non edificabile. Inutile dire che, se dovessero esserci degli abusi edilizi, la vendita sarebbe nulla e il lettore sarebbe esposto all’obbligo di risarcire il danno. I vizi eventualmente presenti andrebbero prima sanati effettuando i dovuti accorgimenti e pagando le somme richieste dal Comune. Nessun notaio, inoltre, approverebbe la vendita di un immobile irregolare. 

Per quanto riguarda la valutazione del terreno e del costone, si tratta di un aspetto ancora più delicato: è a parere dello scrivente da ritenere che occorra necessariamente il giudizio di un esperto e, in particolare, di un geologo, il quale è in possesso delle competenze necessarie per attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza ed è l’unico in grado di poter effettuare un’indagine geologica del terreno. 

In estrema sintesi, anche se non vuole affidarsi ad un’agenzia immobiliare, il consiglio al lettore è comunque quello di farsi assistere da tecnici del settore, il cui aiuto è indispensabile, attesa soprattutto la delicatezza della condizione in cui versa il costone. Non si può ad avviso dello scrivente prescindere dal conferimento di un incarico ad un geologo e, in più, ad un ingegnere, i quali sono gli unici che possono aiutare il lettore effettuando un sopralluogo e controllando tutta la documentazione 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Mariano Acquaviva 

Agente immobiliare e rinnovo tacito dell’incarico

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Ho affidato un incarico di mediazione per la vendita immobiliare con un’agenzia con lo scopo di vendere un mio immobile (ormai scaduto abbondantemente in termini del contratto firmato). L’invio di una email per comunicare la variazione del prezzo di vendita concordato può aver rinnovato tacitamente l’incarico sottoscritto? 

Secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, le clausole che prevedono il rinnovo tacito all’interno dei contratti di intermediazione immobiliare devono considerarsi vessatorie (art. 33 cod. del consumo) e, pertanto, nulle di diritto. Ovviamente, quanto detto vale solamente se il contratto è intercorso tra professionista e consumatore. 

L’orientamento dell’Autorità garante è stato solo parzialmente accolto dalla Corte di Cassazione, la quale ha sì stabilito che le clausole che prevedano il tacito rinnovo dell’incarico siano vessatorie, ma che esse non siano nulle se firmate appositamente, ai sensi dell’art. 1341 del codice civile (Cass., sentenza n. 20402/2015). In pratica, tali clausole sarebbero efficaci se sottoscritte in uno spazio ad esse riservate, fuori dal resto del testo contrattuale. 

Quello che rende una clausola “vessatoria” è che essa si risolva in un onere a carico del contraente debole, quello cioè che aderisce alle condizioni volute dal contraente forte: e dunque, se anche l’onere opera per entrambe le parti, la seconda firma del contratto è comunque necessaria. 

Quindi, rispondendo alla domanda in esame, una mail può rinnovare l’incarico soltanto se ciò era previsto al momento della sottoscrizione del contratto; detto in altre parole, se il contratto prevede il rinnovo tacito e, quindi, che il rapporto si intende prolungato se entro un determinato lasso di tempo non interviene espressa disdetta, e la clausola è stata appositamente sottoscritta, allora la mediazione potrebbe ritenersi rinnovata; altrimenti, sarà cessata alla data prevista nel regolamento contrattuale. 

Dal quesito può dedursi che il contratto sia ampiamente scaduto, ma non è possibile sapere se tale clausola era stata prevista. Il consiglio al lettore, se l’agenzia ritiene rinnovato l’incarico in virtù di indicazione contrattuale, è di opporre la vessatorietà della clausola e, se essa è stata sottoscritta a parte, di far valere quanto detto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. 

Se il contratto prevedeva semplicemente una scadenza, senza nessun riferimento al rinnovo tacito, allora l’incarico dell’Agenzia è senza dubbio terminato, a meno che il tenore della mail del lettore non facesse pensare in maniera assolutamente chiara alla volontà dello stesso di proseguire il rapporto: in quest’ultimo caso, il contratto sarebbe sempre cessato e, al massimo, l’Agenzia potrebbe chiedere al lettore il rimborso delle spese sostenute per adeguarsi alle sue indicazioni. 

Il lettore, ad ogni modo, può fare valere il regolamento contrattuale e la vessatorietà della clausola di tacito rinnovo (se presente). 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Mariano Acquaviva

Bollette spese condominiali: vanno in prescrizione?

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Pagamento oneri di condominio: il termine massimo del pagamento per il padrone di casa e per l’inquilino.  

L’amministratore di condominio si è presentato con un conto da pagare lungo almeno due pagine. Sono ormai diversi anni che non versi le spese ed è arrivato il momento di tirare le somme. Ti è stato concesso molto tempo per trovare i soldi; gli altri condomini hanno accettato di venire incontro alle tue esigenze e alle difficoltà economiche che hai incontrato negli ultimi tempi; ma ora non sono intenzionati ad attendere oltre. Anzi, se non pagherai intendono avviare contro di te le azioni legali. Insomma, vogliono farti un decreto ingiuntivo. Mentre ragioni sul da farsi, ti accorgi però che alcuni di questi debiti si riferiscono ad annualità remote, tanto remote che potrebbero addirittura essere scadute. Mentre ti chiedi se le bollette per le spese condominiali vanno in prescrizione oppure no decidi di rivolgerti a un legale. Se il tuo avvocato è ben informato ti risponderà pressappoco come ti diremo qui di seguito.

Nelle seguenti righe ti spiegheremo dunque quali arretrati l’amministratore di condominio può pretendere e dopo quanto tempo, invece, non può più chiedere nulla. Ti diremo quali sono i termini della prescrizione per le spese condominiali che deve sostenere il proprietario dell’appartamento e quelle che invece competono a un eventuale inquilino che vive in affitto all’interno dell’appartamento. Si tratta infatti di due cose diverse: l’una coinvolge i rapporti tra condòmino e condominio, l’altra quelli tra locatore e conduttore in forza del contratto di locazione.

Bollette condominiali: chi deve pagare?

In generale, comunque, a dover pagare il condominio è sempre il “condòmino” ossia il proprietario dell’immobile, e ciò vale anche se ha dato in affitto la casa a un’altra persona. Quest’ultima è tenuta, in base alla legge sull’equo canone, a rimborsare al locatore una parte delle suddette quote, ma si tratta di un obbligo contrattuale che non ha alcuna ricaduta nei rapporti con il condominio. Per cui se l’inquilino è inadempiente, sarà il padrone di casa a rischiare il decreto ingiuntivo non potendo addossare la responsabilità al proprio affittuario moroso. Anche di questo parleremo a breve.

Insomma, per comprendere tutta la materia e capire se le bollette per le spese condominiali vanno in prescrizione è necessario fare il punto della situazione e passare in rassegna tutta la materia. Ma non preoccuparti: lo faremo in modo schematico e con linguaggio semplice, dimodoché anche tu, alla fine di questo articolo, potrai sapere quando scadono gli oneri condominiali. Procediamo con ordine.

Prescrizione bollette condominiali per il proprietario

Il proprietario dell’appartamento è tenuto a versare le spese di condominio nel momento di scadenza delle relative quote, il che avviene mensilmente per quelle ordinarie (relative, ad esempio, per il servizio di pulizia, la luce nelle scale, il consumo dell’acqua comune, il giardiniere, ecc.) e all’atto della richiesta da parte dell’amministratore per quelle straordinarie (ad esempio per la riparazione del tetto o per le spese di ristrutturazione della facciata).

L’amministratore può riscuotere le spese condominiali solo dopo l’approvazione del bilancio consuntivo, approvazione che deve intervenire annualmente. Ecco perché l’amministratore è obbligato a convocare l’assemblea almeno una volta all’anno. Con l’approvazione del bilancio consuntivo viene dato anche l’ok definitivo al piano di riparto delle spese.

Con il bilancio consuntivo approvato, l’amministratore può passare alla riscossione delle “bollette condominiali”, meglio detti “oneri condominiali” o “spese di condominio”.

Il termine massimo per la richiesta di tali somme (tanto dovute per l’ordinaria quanto per la straordinaria amministrazione) è di cinque anni. Dopo tale termine si verifica la cosiddetta prescrizione delle bollette condominiali. In termini pratici significa che, se dall’ultima diffida che hai ricevuto da parte dell’amministratore o dal suo avvocato sono passati più di cinque anni non devi più pagare nulla; allo stesso modo, se non hai mai pagato il condominio e non hai mai ricevuto alcun sollecito, ti possono essere richiesti solo gli arretrati degli ultimi cinque anni.

Ogni volta che viene inviata una messa in mora, la prescrizione si interrompe e inizia a decorrere da capo. Ad esempio, se dopo quattro anni da quello in cui le bollette condominiali dovevano essere versate l’avvocato invia una diffida ai morosi, la prescrizione inizia a decorrere di nuovo da “zero” e bisogna aspettare di nuovo cinque anni per liberarsi dal debito (sempre che, nel frattempo, non intervenga un’ulteriore sollecito con raccomandata).

La prescrizione viene interrotta non con una lettera qualsiasi, un messaggino sul cellulare, una telefonata o un avviso di carta lasciato nella cassetta delle lettere: ci vuole una raccomandata a.r. o un’email di posta elettronica certificata (Pec). Questo perché il mittente deve essere in grado di dimostrare che il condomino ha ricevuto la diffida.

Se scadono 5 anni dall’approvazione del piano di riparto, il condominio non può più pretendere il pagamento degli oneri condominiali dal proprietario dell’appartamento.

Anche la notifica di un decreto ingiuntivo nei confronti dei morosi interrompe la prescrizione.

Prescrizione bollette di condominio per l’inquilino

L’obbligo che l’affittuario ha di versare le bollette di condominio è solo nei confronti del padrone di casa e non nei confronti dell’amministratore, il quale potrà continuare a esigere i pagamenti da parte del locatore. È quest’ultimo che rischia il decreto ingiuntivo se il primo non adempie.

Tuttavia la legge sull’equo canone fa ricadere sul conduttore non tutti gli oneri di condominio ma solo alcune spese (leggi Ripartizione spese condominiali tra proprietario e inquilino):

  • servizio di pulizia,
  • funzionamento e ordinaria manutenzione dell’ascensore,
  • fornitura dell’acqua,
  • fornitura dell’energia elettrica per le parti comuni,
  • fornitura del riscaldamento e del condizionamento dell’aria,
  • spurgo dei pozzi neri e delle latrine,
  • fornitura di altri servizi comuni.

Quindi l’affittuario è tenuto a versare, oltre al canone di locazione indicato nel contratto, anche i cosiddetti oneri accessori ossia la sua parte di spese condominiali. E se non adempie può essere sfrattato. Ma se per il canone, lo sfratto avviene anche dopo un solo mese di morosità, per gli oneri accessori lo sfratto può avvenire solo se l’importo non versato supera il corrispondente di due mensilità del canone.

Abbiamo detto che a pretendere il versamento delle spese condominiali dall’inquilino può essere solo il proprietario. Lo può fare, però, entro un termine massimo di prescrizione che, in questo caso, è solo di due anni (e non di cinque). Se il locatore pretende il rimborso delle spese condominiali per annualità più remote di due anni, la sua richiesta non potrebbe mai trovare ingresso in un’aula di tribunale in quanto prescritta. Egli cioè non ha più diritto alla restituzione dei soldi versati al condominio per la parte di spettanza dell’inquilino.

In particolare, come abbiamo già spiegato in Pagamento di condominio e prescrizione (a cui rinviamo per maggiori approfondimenti sul tema):

b) nei confronti del condominio, resta obbligato a pagare il proprietario dell’appartamento, anche se questi ha inserito, nel contratto di locazione, un’apposita clausola ove si prevede che tali spese gravino sull’inquilino; si tratta, infatti, di accordi che valgono solo tra le parti e non sono opponibili al condominio. La prescrizione è, come detto prima, di cinque anni;

a) nei rapporti tra proprietario dell’appartamento e inquilino, la prescrizione è di due anni; così ha precisato, di recente, la Cassazione [1]. In altre parole, il locatore può esigere dal conduttore il versamento dei cosiddetti «oneri accessori» (ossia appunto le spese di condominio) entro e non oltre un biennio. Tale termine decorre da:

  • se l’edificio in cui è ubicata l’abitazione è di proprietà di un singolo locatore, dalla data di chiusura della gestione del singolo esercizio annuale [2];
  • se l’immobile è in condominio, dalla data in cui è stato approvato il consuntivo delle spese con delibera dell’assemblea dei condomini;
  • negli altri casi, dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere [3].

Cambio residenza: chi avvisare?

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Stai cambiando abitazione e non sai come fare per comunicarlo al tuo nuovo Comune di residenza? Ecco gli adempimenti da assolvere, le documentazioni che occorrono e quali uffici pubblici contattare.

La residenza è il posto dove stabilmente dimori e almeno una volta nella vita ti sarà capitato di spostarti in modo permanente presso un’altra abitazione. In queste circostanze ci sono degli adempimenti obbligatori da assolvere come la comunicazione del cambio di residenza. Questa operazione ti permette di rendere ufficiale il tuo trasferimento o quella della tua famiglia in un’altra abitazione che si trova in un Comune diverso o anche all’estero. Puoi richiedere il cambio di residenza se sei maggiorenne e iscritto all’Anagrafe della popolazione residente di un Comune italiano o all’A.I.R.E. (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero). Se ti stai chiedendo cambio residenza: chi avvisare?, continua a leggere questo articolo. Cercheremo di rispondere alla tua domanda.

Come richiedere il cambio di residenza

Dopo la recente legge su semplificazioni e sviluppo [1] fare il cambio di residenza è diventato più semplice e in ogni caso non comporta costi. Puoi trovare la domanda presso il sito internet istituzionale del tuo comune nella sezione “servizi online”, inserendo le seguenti informazioni:

  • il comune da dove provieni;
  • i tuoi dati anagrafici;
  • la tua nuova residenza;
  • i dati anagrafici dei componenti della tua famiglia;
  • se sei proprietario o affittuario dell’appartamento dove ti trasferisci;
  • data e firma.

La domanda va inviata a mezzo raccomandata a/r, fax o telematicamente all’Anagrafe comunale del tuo nuovo Comune di residenza, entro 20 giorni dal trasferimento.

Se scegli la modalità posta elettronica come ho fatto io, segui le istruzioni all’interno del sito internet del tuo comune sottoscrivendo la dichiarazione con firma digitale, facendoti identificare dal sistema informatico tramite l’utilizzo della carta d’identità elettronica, trasmettendo la dichiarazione dalla tua casella di posta elettronica certificata e inviando per posta elettronica (non certificata) copia della dichiarazione con firma autografa e il tuo documento d’identità. L’ufficio preposto ti registrerà la pratica entro 2 giorni e accerterà i requisiti inviando i vigili urbani presso la tua abitazione per verificare la veridicità entro 45 giorni.

Se non dovessero trovarti a casa lo comunicheranno all’Ufficiale dell’anagrafe che emetterà un provvedimento di rigetto della richiesta di cambio di residenza. Avrai 30 giorni di tempo per opporti a tale provvedimento presentando ricorso al prefetto. Al posto della domanda precompilata puoi anche utilizzare una dichiarazione sostitutiva di certificazione di residenza dove dovrai indicare:

  • l’ente destinatario;
  • il tuo nome e cognome;
  • luogo e data di nascita;
  • il nuovo indirizzo di residenza;
  • data e firma.

Gli adempimenti da assolvere quando cambi residenza

Quando cambi residenza devi assolvere anche ai seguenti adempimenti:

  • se possiedi un veicolo devi far pervenire all’anagrafe anche il modulo per aggiornare il cambio di residenza sul libretto di circolazione assieme a un documento d’identità in corso di validità. Puoi trovare il modello di domanda sul sito internet del “Portale dell’automobilista”;
  • per l’assicurazione di auto o moto invia un’autocertificazione di residenza alla tua compagnia assicurativa tramite fax o posta;
  • se possiedi terreni agricoli, aree fabbricabili o fabbricati soggetti al pagamento dell’IMU (Imposta Municipale unica) devi presentare l’aggiornamento della residenza all’anagrafe del Comune dove si trova l’immobile in questione;
  • in qualsiasi posto tu abiti nel territorio italiano, devi necessariamente pagare al tuo Comune di residenza la tassa rifiuti solidi (TARI), l’importo relativo al servizio di raccolta e smaltimento rifiuti. Cambiando residenza dovrai dunque comunicarlo all’ufficio tributi del tuo comune entro 90 giorni dall’avvenuto trasferimento. Puoi trovare il modulo sul sito internet del tuo comune o in alternativa puoi presentare un’istanza di cessazione dell’utenza relativa alla vecchia residenza contemporaneamente all’istanza di nuova iscrizione per l’utenza relativa alla nuova residenza;
  • se sei titolare di una partita IVA hai l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate l’autocertificazione di residenza entro 30 giorni dalla richiesta di variazione fatta all’anagrafe, presso gli uffici del territorio o con raccomandata a/r o telematicamente;
  • se ricevi un qualsiasi tipo di indennità dall’INPS, entro un mese dal cambio di residenza devi comunicarlo alla sede INPS del tuo territorio con autocertificazione e l’apposito “Modulo di cambio residenza INPS”;
  • per le utenze tipo luce, gas, acqua e telefono, puoi richiedere semplicemente l’allacciamento per il nuovo appartamento con il gestore che più preferisci.

Gli adempimenti che non sono necessari quando cambi residenza

Ed ecco cosa non va modificato quando cambi residenza:

  • carta d’identità e passaporto non vanno aggiornati, quando ti viene richiesto di esibirli devi specificare che l’indirizzo è variato; tuttavia se sul passaporto preferisci aggiornare la residenza puoi farlo compilando il modulo di aggiornamento emesso dalla Questura seguendo le indicazioni presenti sul sito internet della polizia di Stato. In caso di trasferimento all’estero dovrai contattare il Consolato italiano;
  • se hai un c/c bancario o bancoposta, ti potrà capitare di effettuare delle operazioni che si fanno necessariamente presso la tua filiale di appartenenza, dunque potrai richiedere il trasferimento di filiale oppure chiudere il conto per riaprirne uno nuovo;
  • il canone abbonamento Rai va pagato per qualsiasi uso o solo possesso della tv a prescindere dalla residenza;
  • se ti trovi nella stessa ASL di appartenenza non hai l’obbligo di cambiare necessariamente il medico di base, soprattutto se ti trovi bene con lui; viceversa ci vorrà il parere del Comitato aziendale dell’ASL. Se dovessi decidere per il cambio dovrai fare richiesta all’Ufficio “Scelta e revoca” dell’ASL.

Di MASSIMILIANO RE

Ascensore: chi paga le spese?

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Le spese per l’installazione e la manutenzione dell’ascensore si dividono tra i condomini anche in ragione del suo utilizzo.

L’ascensore rientra tra quelle parti definite dal codice civile come “comuni” a tutti i comproprietari [1] dell’edificio. Si tratta di una di quelle che suscita maggiori perplessità, in ordine alla divisione delle spese per la sua installazione e manutenzione, perché i condomini sono ben consapevoli del fatto che tale “bene comune” non viene utilizzato da tutti i comproprietari nello stesso modo. Chi è al piano terra, ad esempio, non ne usufruisce affatto. Chi paga le spese di installazione e manutenzione dell’ascensore, quindi? Il proprietario dell’immobile sito al piano terra dell’edificio è tenuto a farlo e – nel caso – a quanto ammontano tali spese? E, i proprietari dei negozi con accesso diretto dall’esterno, invece? Per rispondere a tali quesiti è necessario, anzitutto, distinguere tra spese da sostenersi per l’installazione dell’ascensore e spese per la manutenzione della stessa. Le prime riguardano i costi necessari a dotare un condominio che ne sia sprovvisto di ascensore, le seconde quelle per il buon esercizio e funzionamento dell’impianto. Per quanto riguarda l’installazione dell’ascensore in un condominio che ne sia sprovvisto, questa rientra tra le cosiddette “innovazioni deliberate dalla maggioranza”, che i condomini possono decidere di apportare all’edificio in qualsiasi momento [2]. In questo caso le spese sono ripartite tra i condomini in misura proporzionale al valore dell’immobile di ciascuno in base, cioè, ai millesimi di proprietà [3]. Diverso discorso per le spese di manutenzione dell’ascensore, che sono ripartite tra i comproprietari in ragione del doppio criterio del valore dell’immobile (quindi in base ai millesimi di proprietà) e dell’effettivo utilizzo dell’impianto da parte del singolo condomino (quindi in base al piano su cui è ubicato l’immobile) [4]. In questo articolo risponderemo alla domanda ascensore: chi paga le spese?.

Come viene deliberata l’installazione di un nuovo ascensore?

Le spese di installazione dell’ascensore sono quelle da sostenersi per l’installazione di un nuovo impianto. Per tali devono intendersi le spese necessarie, a dotare un condominio che ne sia sprovvisto, di ascensore. Il codice civile contempla tale attività come “innovazione”, da apportarsi con deliberazione adottata dalla maggioranza dei condomini. L’ascensore, in particolare, rientra tra quelle opere ed interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche.

Per disporre tali innovazioni, e quindi anche per l’installazione dell’ascensore, il codice richiede una particolare maggioranza, statuendo che sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti all’assemblea e almeno la metà del valore dell’edificio [5].

In altre parole, perché la delibera che concerne l’installazione dell’ascensore sia valida, è necessario il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti alla seduta dell’assemblea condominiale e quello altrettanto favorevole che rappresenta almeno la metà del valore dell’edifico (di 500 millesimi).

Chi deve pagare le spese di installazione dell’ascensore?

Le spese necessarie per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, e quindi anche quelle per l’installazione di un nuovo ascensore, devono essere sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore dell’immobile di ciascuno, quindi in base ai millesimi di proprietà.

Le spese per l’installazione dell’ascensore, quindi, vanno ripartite proprio secondo la regola generale dei millesimi di proprietà e quindi in misura proporzionale al valore di ciascun immobile.

Tuttavia, trattandosi di innovazione eccessivamente gravosa e suscettibile di utilizzazione separata, i condomini che non intendono trarne vantaggio possono chiedere di essere esonerati dalle spese di installazione dell’impianto [6]. Resta ferma, comunque, la possibilità di cambiare idea successivamente all’installazione e chiedere di essere ammessi a fruire dell’ascensore precedentemente installata. In tal caso, il condomino dovrà partecipare alle spese di installazione sostenute in precedenza dagli altri condomini e la quota di ingresso deve essere determinata in misura proporzionale al valore della proprietà dell’immobile, calcolando in primo luogo il costo complessivo dell’ascensore sopportato dal condomino o dai condomini che l’hanno installato, rivalutato al momento della domanda.

In secondo luogo, a tale importo dovranno poi essere detratte le agevolazioni godute dal medesimo, ad esempio per invalidità civile. Qualora, infine, l’ascensore sia destinato a servire soltanto una parte del condominio, e quindi non sia collegato strutturalmente e funzionalmente a tutto l’edificio, dovrà essere essere impiantato a cura e spese soltanto di coloro che effettivamente lo utilizzino (e che ne diventeranno gli esclusivi proprietari, creando il tipico “condominio parziale”).

Chi deve pagare le spese di manutenzione dell’ascensore?

Le spese di manutenzione dell’ascensore sono quelle utili al buon funzionamento ed esercizio dell’impianto. In questo caso, la regola generale è quella dell’effettivo utilizzo dell’ascensore da parte del condomino.

Le spese di manutenzione delle scale e degli ascensori, infatti, sono a carico dei proprietari delle unità immobiliari a cui servono. Si tratta, quindi, di tutti i condomini che abbiano espresso opinione favorevole all’installazione di un nuovo ascensore decisa con delibera assembleare, di coloro che successivamente abbiano deciso di fruire dell’impianto dopo un primo diniego, di coloro che erano già comproprietari dell’ascensore perché preesistente (in caso di edificio dotato sin dalla sua costruzione di un ascensore) e di coloro che abbiano costituito il cosiddetto condominio parziario su un ascensore installato per servire solo alcune parti dell’edificio.

In tutti questi casi, le spese relative alla manutenzione dell’ascensore sono ripartite tra i condomini, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo.

In ordine alle spese di manutenzione dell’ascensore, dunque, la legge stabilisce un criterio speciale e binario di ripartizione: metà dell’importo in ragione del valore delle singole unità immobiliari, e quindi con i millesimi di proprietà (cosiddetta quota di valore) e l’altra parte in proporzione all’altezza di ciascun piano dal suolo.

Al fine del concorso nella metà della spesa, che è ripartita in ragione del valore, si considerano come piani anche le cantine, i palchi morti, le soffitte o camere a tetto ed i lastrici solari, qualora non siano di proprietà comune.

I proprietari dei locali siti al piano terra devono pagare l’ascensore?

Anche in questo caso, dispongono tutte le norme ed i relativi criteri dettati in precedenza. Per quanto riguarda le spese di installazione di un nuovo ascensore, coloro che sono proprietari di un immobile sito al piano terra, possono esserne esonerati qualora decidano di non servirsene.

Per quanto riguarda, invece, le spese di manutenzione dell’ascensore a carico dei proprietari dei locali siti al pianterreno, queste si riducono a quella parte commisurata ai millesimi di proprietà e non comprendono pure le altre relative “all’altezza di ciascun piano dal suolo”, che per le suddette unità immobiliari equivale a zero. I proprietari degli immobili siti al pianterreno, dunque, possono essere esonerati dal pagamento delle spese di installazione dell’ascensore, ma sono sempre tenuti – seppur in misura ridotta – al pagamento delle spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto.

Anche se siti al pianterreno, infatti, si ritiene che i proprietari degli immobili in questione siano tenuti comunque al pagamento di una parte delle spese poiché, sebbene nell’appartamento di fatto non viene servito dall’ascensore, riceve comunque un maggior valore indiretto derivante dalla sola presenza nell’immobile dell’impianto di ascensore.

Tale regola non trova applicazione nel caso di condominio parziario, cioè nell’ipotesi in cui l’ascensore sia strutturalmente e funzionalmente collegata solo ad una parte distaccata dell’edificio e questa – esclusivamente – se ne serva.

I negozi devono pagare le spese per l’ascensore?

Una vecchia questione affrontata dalla giurisprudenza e su cui si è spesso interrogata la dottrina, riguarda il pagamento delle spese per l’installazione e la manutenzione dell’ascensore da parte dei negozi, che abbiano accesso diretto sulla strada. In questo caso, infatti, si è opposto che nessun utilizzo viene fatto dell’ascensore da parte di questi comproprietari e quindi che questi non siano tenuti né alle spese di installazione dell’ascensore, né a quelle di manutenzione. Ebbene, al riguardo va verificato, anzitutto, se esista una deroga al regime legale delle spese ad opera di regolamento contrattuale o convenzione o delibera.

E’ possibile, infatti, che la cosiddetta “tabella d’uso” o “ tabella di gestione” allegata al regolamento condominiale, che ripartisce la spesa per gli ascensori, escluda dalla contribuzione i proprietari dei negozi siti al piano terra. Qualora manchino tali convenzioni vanno ricordate numerose pronunce recenti che hanno statuito per l’esonero dalla partecipazione alle spese per i proprietari di negozi siti al piano terra.

Secondo tali pronunce, non è tenuto a contribuire alle spese di rifacimento (sostituzione) il condomino proprietario di unità immobiliari adibite a negozi, con accesso diretto ed indipendente esclusivamente dall’esterno, prive di cantina e con nessuna possibilità di utilizzare l’androne e le scale comuni. Insomma, anche in questo caso, il principio ispiratore è quello dell’effettivo utilizzo dell’ascensore.

Per cui, i negozianti che abbiano accesso diretto e indipendente al negozio esclusivamente dall’esterno, con nessuna possibilità di fruire dell’ascensore, possono essere esonerati al pagamento delle spese di manutenzione e rifacimento dell’ascensore. In ordine alle spese di installazione, invece, resta fermo il criterio già citato per cui possono esserne esonerati proprio in virtù del suo mancato utilizzo.

Di ROSSELLA GIGLIO

Se la casa è inagibile si paga l’imu?

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Casi ed esenzioni per non pagare l’imposta sulla casa quando l’immobile non è abitabile.

Perché se la mia casa è inagibile devo pagare l’imu? Se abito e risiedo in un immobile non a norma devo pagare l’imu? Cosa dice la legge in merito? E i giudici come la pensano? La risposta negativa sembra scontata, ma in realtà la normativa prevede solo una riduzione dell’importa. Per questo si tratta di un argomento controverso e molto discusso e dibattuto nella giurisprudenza di merito e di legittimità. Se la casa è inagibile si paga l’imu? Cominciamo dalla normativa. La legge [1] stabilisce che la base imponibile dell’imu è costituita dal valore dell’immobile [2], e che tale base imponibile è ridotta del 50 per cento per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e, di fatto, non utilizzati, limitatamente al periodo dell’anno durante il quale sussistono dette condizioni.

Chi stabilisce se un fabbricato o un immobile è inagibile?

L’inagibilità o inabitabilità è accertata dall’Ufficio tecnico del comune con perizia a carico del proprietario, la quale deve ovviamente accertare e documentare, appunto, lo stato di fatto. In alternativa, il proprietario ha la possibilità di presentare una dichiarazione sostitutiva [3], con la quale di fatto “autocertifichi” lo stato di inabitabilità o di inagibilità.

Molto spesso, però, il comune di riferimento, a fronte di tale “dichiarazione sostitutiva” proposta dal contribuente, richiede ulteriore documentazione a supporto, di fatto disconoscendone la veridicità. Cosa fare, quindi, in questo caso? Ci viene in aiuto, stavolta, la giurisprudenza, in particolare la Commissione Tributaria Provinciale di Milano [4] ha statuito che la dichiarazione sostitutiva autoprodotta dalla parte non deve essere supportata da alcuna documentazione, visto che con essa il contribuente si assume ogni responsabilità, anche sotto il profilo penale, delle affermazioni ivi contenute (ovvero che i fabbricati soggetti ad imu sono di fatto inagibili e non utilizzabili). Secondo i giudici milanesi, infatti, la norma sopra richiamata non può essere interpretata nel senso che anche nell’ipotesi alternativa rispetto alla perizia del comune il contribuente debba allegare la “idonea documentazione”, non essendo tale interpretazione suffragata da una disposizione di legge o “dalla ratio della stessa, avendo palesemente la norma voluto lasciare al contribuente ogni responsabilità in caso di mendace dichiarazione”.

In caso di dichiarazione sostitutiva autocertificata, quindi, spetta al comune attivarsi per verificare la veridicità o meno della dichiarazione stessa, onde eventualmente far subire alla parte ogni conseguenza delle false dichiarazioni.

Secondo quesito: la riduzione del 50 per cento della base imponibile IMU in caso di immobili inagibili da quando spetta? Dal momento della dichiarazione sostitutiva predisposta dal contribuente/proprietario oppure dal momento in cui vi è la prova che i fabbricati siano diventati veramente inagibili e non utilizzabili? Ancora una volta ci viene in aiuto la giurisprudenza, e sempre gli stessi giudici milanesi della sentenza sopra citata rendono noto che, in presenza di una oggettiva e comprovata inagibilità, la riduzione spetta a far data da quando tale oggettiva e comprovata inagibilità sia verificata, e tale onere della prova spetta al contribuente/proprietario.

Altra giurisprudenza, in particolare la Commissione Tributaria Provinciale di Vercelli [5], ha anche reso noto che il trattamento agevolato (di riduzione dell’imu) spetti anche nei casi in cui l’interessato non abbia presentato la dichiarazione di inagibilità o inabitabilità, purché siano note all’Amministrazione comunale le condizioni di degrado dell’immobile. E ciò nel pieno rispetto dei principi stabiliti dallo Statuto dei diritti del contribuente [6].

In effetti, anche la Cassazione, nel lontano 2008, ha stabilito, in deroga al principio per cui il contribuente è sempre tenuto a dare la prova di avere diritto a un’agevolazione fiscale [7], che in questo caso specifico non è tenuto a provare per via documentale all’ente i fatti e le circostanze, e che spetta al Comune attivarsi per svolgere i dovuti controlli.

Cosa vuol dire inagibile?

Il D.M. Economia e Finanze [8], con il quale è stato approvato il modello di dichiarazione imu, ha precisato che i presupposti per ottenere la riduzione del tributo sono molto rigidi. Infatti, l’inagibilità deve consistere in un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente, disastrato) o in un’obsolescenza funzionale, strutturale e tecnologica, non superabile con interventi semplici di manutenzione. Ed ovviamente inagibilità e inabitabilità devono essere congiuntamente presenti, insieme alla palese impossibilità di utilizzo dell’immobile.

Si può vendere una casa data in prestito?

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Comodato di immobile: diritti dell’utilizzatore alla prelazione, usucapione, opponibilità del contratto e rimborso spese.

Diversi anni fa hai ottenuto da tua madre la possibilità di vivere gratuitamente in una sua casa di proprietà. Da allora hai eseguito numerose migliorie e ristrutturazioni; lo hai fatto di tua spontanea iniziativa e senza chiederle l’autorizzazione, consapevole comunque che ne sarebbe stata felice. Il valore dell’appartamento è infatti aumentato. Proprio questo però ha reso l’immobile appetibile ad alcuni vicini che lo vorrebbero acquistare. Si sono così rivolti a tua madre per presentarle un’offerta. Ora temi che lei possa davvero venderlo, così vanificando tutti i tuoi sacrifici economici e costringendoti a trasferirti in un altro posto. Ti chiedi se esiste una tutela legale per chi è in «comodato», se questi debba essere preferito ad eventuali terzi, se abbia una prelazione o, addirittura, se l’uso dell’immobile nel tempo possa dar diritto a chiederne l’intestazione per usucapione. Poiché non sei un esperto di legge, vorresti sapere da un avvocato se si può vendere una casa data in prestito. Sul punto si sono pronunciati numerosi giudici.

Di tanto parleremo nel seguente articolo. Ti spiegheremo cioè chi prevale, in caso di una eventuale contestazione, tra acquirente e comodatario e come questi possa far valere i suoi diritti per le spese effettuate sull’immobile. Ma procediamo con ordine.

Casa in prestito: quale contratto?

Prima però di spiegarti se si può vendere una casa in prestito è necessario che tu sappia quale rapporto giuridico si crea tra l’utilizzatore e il proprietario. Si tratta di un contratto di comodato il quale si realizza anche oralmente, con la semplice messa a disposizione dell’alloggio. Insomma, si tratta di un contratto che può essere anche verbale e non richiede particolari forme scritte, né tantomeno la registrazione. Quindi ben può un padre lasciare che il figlio abiti nella sua seconda casa senza dover interessare un notaio o stipulare una scrittura privata. Ciò succede spesso quando uno dei genitori destina un proprio immobile ad abitazione familiare del figlio non appena questi si sposa, in attesa almeno che possa acquistare un appartamento con i propri soldi.

Il comodatario ha diritto a restare se la casa viene venduta?

Veniamo al problema di partenza: si può vendere la casa in comodato? La risposta è assolutamente sì. Tuttavia, l’aspetto su cui ci dobbiamo concentrare non è tanto il diritto del proprietario – che non può essere contestato – di disporre del proprio bene e quindi di venderlo (diritto che è intangibile anche se questi avesse stipulato un contratto di affitto), quando piuttosto il diritto del comodatario di continuare a restare dentro la casa. In altre parole, una volta che la casa è stata ceduta, il nuovo titolare può mandare via l’utilizzatore? Lo può già fare il precedente titolare in vista della imminente vendita? Secondo la Cassazione [1], il contratto di comodato, benché firmato prima di un successivo contratto di vendita, non è opponibile all’acquirente del bene stesso. Risultato: il comodatario deve andare via.

Il codice civile [2] stabilisce solo in caso di affitto che il contratto è opponibile all’acquirente a parto che tale locazione abbia una data certa anteriore alla vendita. Tuttavia questa norma – sostiene la Cassazione – non può applicarsi anche al comodato (avendo una portata eccezionale, la disposizione non può essere oggetto di interpretazione analogica ossia di estensione ai casi simili).

Così l’acquirente della casa in precedenza data in comodato «non può risentire alcun pregiudizio dall’esistenza di tale comodato e ha, pertanto, il diritto di far cessare, in qualsiasi momento, a suo piacere, il godimento del bene da parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità della cosa» [3].

Anche se l’immobile fosse stato pignorato, il creditore avrebbe diritto di sfrattare il comodatario.

Il comodatario ha diritto di prelazione?

Se il proprietario dell’immobile decide di vendere la casa, il comodatario non ha alcun diritto di prelazione; non può cioè pretendere di essere preferito all’offerente a parità di prezzo. Nessuna norma di legge gli riconosce tale facoltà.

Il comodatario può usucapire la casa?

Anche se il comodatario fosse rimasto per oltre 20 anni dentro l’immobile, quando la disponibilità all’uso è frutto di un rapporto di cortesia e di tolleranza del proprietario, come succede tra familiari, non si può rivendicare l’usucapione. Leggi Posso rivendicare l’usucapione su una casa in comodato?

Questo perché il comodato presuppone il riconoscimento dell’altrui titolarità dell’immobile, il che è incompatibile con l’usucapione. Per far scattare, invece, l’usucapione è necessario un comportamento, da parte del comodatario, incompatibile con l’altrui diritto: insomma è necessario che questi ponga in essere delle attività che solo il legittimo titolare potrebbe porre.

La moglie può restare nella casa dei suoceri se si separa?

Quando i genitori danno al figlio la casa affinché vi viva con la moglie, quest’ultima, in caso di separazione e divorzio, ha diritto a rimanere nell’immobile solo a patto che il giudice collochi presso di lei il figlio che quindi andrà a vivere nella casa familiare. Solo se il contratto di comodato avesse una data di scadenza, esso potrebbe essere opposto all’ex coniuge e l’immobile andrebbe restituito. Leggi Immobile in prestito al figlio sposato: quali rischi.

Rimborso spese ristrutturazione e migliorie

Non resta che vedere se il comodatario, costretto ad andare via di casa, può chiedere quantomeno il rimborso delle spese eseguite sull’immobile che ne hanno aumentato il valore.

Il comodatario deve provvedere all’ordinaria manutenzione del bene, mantenendolo nel suo stato originario e svolgendo un’attività di vigilanza diretta a prevenirne il deterioramento o la perdita, e sostenere le spese ordinarie necessarie per l’uso e la conservazione dello stesso senza pretendere il rimborso dal comodante. Se esegue  migliorie (non necessarie e urgenti) ne deve sostenere le spese e non ha diritto alla restituzione [4], salvo il caso in cui esse siano state fatte col consenso del comodante.

Sono considerate spese ordinarie necessarie per l’uso dell’immobile concesso in comodato le spese sostenute per usufruire dell’energia elettrica e quelle relative alla cura della vegetazione spontanea (potatura, pulizia, controllo di piante e arbusti ecc.) cresciuta sul terreno su cui sorge l’immobile stesso; pertanto il comodante che le ha sostenute ha diritto a ripeterle nei confronti del comodatario.

Le riparazioni straordinarie e le relative spese spettano al comodante. Quando sono necessarie e urgenti per evitare il deterioramento o il perimento della cosa comodata, le spese devono essere anticipate dal comodatario, salvo essere poi rimborsate dal comodante.

Abuso edilizio: come avvengono i controlli

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Mancato rispetto della concessione edilizia ed opere realizzate senza permesso di costruire: i controlli della polizia municipale (i vigili urbani), le segnalazioni anonime dei vicini e le foto da Google Earth.

Tempo fa hai realizzato una copertura sul balcone e ne hai murato un’altra parte per creare un piccolo ripostiglio. Il tutto senza mai chiedere l’autorizzazione al Comune. Ora però ti chiedi se e in che misura il tuo abuso edilizio possa essere scoperto. La polizia municipale non passa mai dalle tue parti e il lato dell’edificio interessato dall’intervento non dà sulla strada: difficile che qualcuno se ne accorga. Del resto, nel tuo condominio siete tutti amici e non credi che i vicini facciano la spia (ciascuno di loro, del resto, ha qualcosa da nascondere). Per dormire sonni tranquilli ti chiedi come avvengono i controlli dell’abuso edilizio e quali strumenti ha l’amministrazione per sanzionare i proprietari di casa.

La giurisprudenza si è spesso occupata di questo problema e, in realtà, il quadro che ne esce è quello di un’amministrazione titolare di super-poteri di accertamento, che incontrano il solo limite della privacy e dell’inviolabilità del domicilio (cui però un’ordine di accesso del giudice potrebbe derogare). Si pensi, peraltro, che proprio di recente i giudici hanno ritenuto legati i controlli effettuati tramite il satellite controllato da Google. Possibile? Assolutamente sì e la risposta è scritta in una recente sentenza del Tar Calabria [1]. 

Controlli su segnalazione di privati di abusi edilizi

Di solito i controlli sugli abusi edilizi originano dalla segnalazione di un privato fatta al Comune o ai Carabinieri. Spesso si tratta del vicino di casa rivale o dell’amministratore di condominio il cui compito resta sempre quello di tutelare l’aspetto estetico e la stabilità dell’edificio. La segnalazione può anche essere anonima. L’abuso edilizio è, del resto, un reato perseguibile d’ufficio, il che significa che basta una semplice segnalazione all’amministrazione o alle forze dell’ordine affinché venga aperta un’indagine e, di conseguenza, un fascicolo alla Procura della Repubblica. Non c’è quindi bisogno di una formale denuncia. Peraltro, come più volte chiarito dalla giurisprudenza, esiste un vero e proprio diritto a prendere visione, presso lo sportello comunale, degli atti della concessione edilizia richiesta da un condomino dello stesso stabile. Vi è infatti un interesse meritevole di tutela che giustifica la compressione dell’altrui privacy. Il Comune è quindi tenuto a garantire il cosiddetto «accesso agli atti amministrativi». Di tanto abbiamo già parlato in Condominio e accesso atti amministrativi sulla concessione edilizia.

Nel caso in cui vengano constatati indizi di un abuso edilizio, saranno avviati due distinti e autonomi procedimenti: 

  1. l’accertamento del reato che culmina nel processo penale in tribunale e con la sentenza di condanna; 
  2. l’istruttoria amministrativa volta all’emissione dell’ordine di demolizione dell’opera (ordine che, tuttavia, potrebbe anche essere emesso dal magistrato). 

La differenza tra i due è che il primo procedimento può essere definitivamente “archiviato” se interviene la prescrizione del reato (pari a 4 anni o, se l’indiziato ha ricevuto un avviso di garanzia, pari a 5 anni); invece l’ordine di demolizione può essere emesso anche dopo numerosi anni non applicandosi, in questo caso, alcun termine di prescrizione.

Dinanzi alla segnalazione fatta da un vicino di casa, il dirigente/responsabile dell’ufficio del Comune (ma anche per gli altri uffici comunali competenti: tipicamente Polizia Municipale/Locale ed Uffici Tecnici) ha l’obbligo [2] di procedere d’ufficio, di routine, al controllo del territorio, indipendentemente da qualsivoglia segnalazione (che va comunque debitamente verificata, anche se anonima).

Controlli della polizia municipale su abusi edilizi

La polizia municipale è sicuramente l’organo più indicato per l’accertamento degli abusi edilizi. E ciò perché spetta al Comune far rispettare il proprio regolamento urbanistico e le norme edilizie locali. I vigili quindi potranno aprire una segnalazione che porterà all’avvio del procedimento amministrativo con l’ordine di demolizione. Poiché, come detto, il reato di abuso edilizio è procedibile d’ufficio, le autorità che, nell’esercizio delle proprie funzioni hanno rilevato tracce di reato, hanno l’obbligo di segnalarlo alla Procura della Repubblica affinché si avvii anche il processo penale.

La polizia non è che la mano del Comune. E difatti la vigilanza sull’attività edilizia viene esercitata dal dirigente/responsabile dell’ufficio comunale che, tramite la polizia municipale e gli uffici tecnici, controlla le costruzioni nel medesimo territorio. Il suo compito è quello di assicurare il rispetto delle leggi e dei regolamenti, degli strumenti urbanistici locali e dei titoli abitativi. 

Controlli di carabinieri e polizia su abusi edilizi

Anche le autorità di pubblica sicurezza, come carabinieri e polizia, hanno la possibilità di segnalare un abuso edilizio, ma questi solo per quanto attiene agli aspetti penali dell’illecito, non avendo competenza in materia di segnalazioni al Comune. Come detto però, anche il processo penale può risolversi nell’ordine di demolizione.

Fotografie dal satellite di Google Earth contro gli abusi edilizi

Con la sentenza citata in apertura, i giudici amministrativi hanno ritenuto le fotografie scattate da Google come sufficienti prove documentali dell’abuso edilizio, utilizzabili in sede penale. Possono essere utili anche in sede amministrativa per annullare una concessione edilizia rilasciata per un’opera modificata dopo la presentazione della domanda di sanatoria. Insomma, grazie a Google Earth è possibile smascherare l’abuso edilizio, sia per le costruzioni realizzate senza licenza edilizia (l’attuale permesso di costruire), sia per quelle eseguite in difformità dalla stessa concessione ottenuta. Secondo i giudici, le aerofotografie acquisite con il satellite di Google «costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale».

Nel caso di specie, il Comune aveva rilasciato una concessione edilizia, poi annullata a seguito di accertamenti conseguenti ad una denuncia penale presentata da un vicino. Il funzionario comunale aveva accertato, anche con l’aiuto delle immagini presenti sul programma Google Earth, che l’immobile era stato ingrandito rispetto all’iniziale permesso edilizio. 

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