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Mutuo: come risparmiare con l’assicurazione sulla casa

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La banca deve informare il cliente della possibilità di reperire una propria polizza assicurativa sul rischio scoppio e incendio. Possibile risparmiare anche 500 euro.

Quella che racconto è una vicenda personale che, tuttavia, mi ha insegnato come anche clienti affidabili e di lunga data come me possono essere presi in giro dal proprio istituto di credito quando chiedono un mutuo per la casa. Da questa esperienza ho imparato che è possibile risparmiare anche più di 500 euro con un minimo di accortezza e di attenzione ai propri diritti. 

Il mutuo è di certo un momento delicato per la vita di un correntista: dalle condizioni che riuscirà a ottenere dipenderanno i successivi 10 o 15 anni suoi e della sua famiglia. Il cliente viene però posto in una posizione di debolezza contrattuale: la banca determina unilateralmente le condizioni del mutuo e stabilisce il valore dell’immobile secondo la stima di un proprio perito. Il futuro mutuatario, in tutto questo iter, non può intervenire se non scegliendo un altro istituto di credito. C’è poi un’altra questione che accresce la soggezione del cliente: il fatto che, dall’accettazione della sua richiesta, dipende il buon esito dell’affare con il venditore dell’immobile con cui questi ha già trattato e, probabilmente, firmato anche il compromesso. Per quanto sia buona regola inserire, nel contratto preliminare, la clausola «salvo accettazione del mutuo», in modo da non risultare inadempienti in caso di ritardo o di diniego della banca, spesso ci si trova a dover accettare condizioni di finanziamento molto rigide per non subire un’azione legale del venditore. Proprio in questa fase della concessione mutuo è possibile risparmiare con l’assicurazione sulla casa. Vediamo come.

Nel momento in cui elargisce la somma per l’acquisto della casa, l’istituto di credito pretende la sottoscrizione di una polizza assicurativa sul rischio incendio e scoppio. La polizza deve avere un valore almeno pari all’importo del mutuo erogato e alla durata del piano di ammortamento. In questo modo, se l’immobile dovesse andare distrutto per causa di una stufa difettosa, di una caldaia non a norma, delle fiamme divampate dall’appartamento vicino o per altre cause generalmente legate al fuoco, la banca non perde la propria garanzia. E difatti sull’immobile insiste l’ipoteca che consente al creditore di recuperare le somme erogate, mettendo all’asta il bene, qualora il mutuatario non adempia ai propri impegni. Naturalmente, l’ipoteca nulla può dinanzi a un incendio o uno scoppio; in tali ipotesi, dunque, a rimborsare alla banca il capitale sarà la compagnia assicuratrice. 

Scegliendo una propria compagnia di assicurazione è possibile risparmiare fino a 500 euro

Nel momento in cui offre il mutuo al proprio cliente, la banca gli dà il “pacchetto completo”. Così, con una sola firma, quest’ultimo accetta tutti i servizi correlati: dalle spese di istruttoria all’incarico all’ingegnere per la perizia sull’immobile (la cui parcella ricade sempre sul cliente), dal tasso di mutuo applicato all’assicurazione sulla casa. Con riferimento a quest’ultimo punto, l’istituto di credito “propone” al mutuatario una propria polizza che, di solito, viene venduta a un prezzo di gran lunga superiore a quello di mercato, anche per il doppio del valore. Si tratta di un costo nascosto che non viene percepito subito dal cliente. Tanto è vero che, proprio al fine di rendere più chiaro e trasparente il peso economico del finanziamento, esiste il Taeg, un indice che sintetizza, in un unico numero, tutto il costo del mutuo: non solo il tasso di interesse, ma tutti gli altri costi che ricadono sul soggetto finanziato. Anche dinanzi a un interesse basso, un Taeg più elevato rispetto a quello praticato da un’altra banca rende il mutuo poco conveniente. 

Abbiamo detto che la banca “propone” al mutuatario la propria polizza. In realtà, a conti fatti, gliela impone. Pur dovendolo fare per legge, non lo informa che, volendo, potrebbe reperire sul mercato, da sé, un’assicurazione diversa. Ad esempio, se il privato ha un proprio assicuratore di fiducia, che magari gli gestisce già una serie di altri servizi (la rc-auto, l’assicurazione sulla salute e sulla vita, la polizza integrativa sulla pensione, ecc.), potrebbe ottenere da questi la polizza incendio e scoppio a un prezzo più vantaggioso rispetto a quello praticato dalla banca. Ho verificato che la differenza tra l’assicurazione offertami dalla banca (uno dei più importanti istituti di credito italiano) e quella di un’altra nota compagnia assicurativa era di ben 500 euro.

A questo punto ho chiesto al funzionario che gestiva il mutuo di escludere dal contratto la polizza, a cui avrei pensato io. E qui sono intervenute le prime resistenze. «Se lo farai, dovrai probabilmente aspettare più tempo per l’erogazione del mutuo» mi è stato detto in modo sibilante, quasi fosse una minaccia. In verità non è affatto così: la scelta di una propria compagnia non interferisce mai sui tempi di erogazione del mutuo. Difatti la pratica è andata a buon fine e senza ulteriori intoppi. Ecco allora come procedere.

Se l’entità del finanziamento resta al di sotto del 50% del valore della casa, è possibile ottenere tassi di interesse più bassi

Dopo aver reperito sul mercato una polizza più conveniente ed aver conferito il mandato al proprio assicuratore, bisognerà fornirgli i dati catastali dell’immobile. Quest’ultimo poi invierà alla banca una attestazione ove dichiara l’avvenuta stipula del contratto di assicurazione. Il tutto avviene nel giro di non più di tre giorni. 

Un ultimo avvertimento. C’è polizza e polizza. Alcune di queste coprono solo il valore del mutuo, altre invece l’intero valore della casa. Per comprendere la differenza facciamo un esempio. Immaginiamo che l’immobile appena acquistato perisca dopo tre anni a causa di un incendio. Se la polizza garantisce solo il mutuo, l’assicurazione pagherà alla banca il valore del prestito erogato; il cliente resterà però senza soldi e senza l’immobile. Se invece la polizza garantisce il valore dell’immobile, l’assicurazione pagherà alla banca il valore del prestito mentre la parte residua del risarcimento andrà al proprietario del bene che ha perso la casa.

Per quanto riguarda invece gli interessi del mutuo, se il finanziamento richiesto non supera il 50% del valore della casa stimato dalla perizia, è spesso possibile ottenere dei tassi più bassi. Anche questo contribuirà a ridurre il Taeg e quindi il peso economico del prestito. 


Come difendersi da un decreto ingiuntivo del condominio

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Impossibile compensare i propri crediti per risarcimento danni o per anticipazioni; anche le contestazioni contro la delibera dell’assemblea sono tardive.

Quando si riceve un decreto ingiuntivo per le spese di condominio non versate si tenta sempre di allungare i tempi del pagamento proponendo un’opposizione in tribunale. In molti però, proprio in questa sede, commettono più di un errore che li porta a perdere la causa. È, ad esempio, il caso di chi, solo alla notifica del decreto ingiuntivo, decide di contestare la delibera dell’assemblea di approvazione del rendiconto e del relativo riparto; oppure di chi giustifica l’omesso versamento delle quote con la compensazione di crediti vantati nei confronti dell’amministrazione condominiale (ad esempio per risarcimento di danni causati da infiltrazioni o per spese anticipate nell’interesse comune). Come avremo modo di vedere qui di seguito, però, si tratta di scelte sbagliate che portano inevitabilmente al rigetto dell’opposizione. Ecco perché, chi si chiede come difendersi da un decreto ingiuntivo del condominio deve conoscere attentamente cosa dispone la legge e quali sono gli orientamenti della giurisprudenza in merito; solo in questo modo eviterà di proporre un giudizio inutile e pagare per di più, oltre all’avvocato, anche le spese processuali della controparte.

In questo articolo forniremo alcuni chiarimenti alla luce di alcune pronunce giurisprudenziali. In tal modo, la difesa dal decreto ingiuntivo risulterà, se non più agevole, quantomeno non insidiosa. Ma procediamo con ordine.

Il decreto ingiuntivo del condominio: cos’è e come agire

Il decreto ingiuntivo è un ordine di pagamento che proviene direttamente dal giudice (il tribunale o il giudice di pace a seconda dell’entità dell’importo) e viene notificato al debitore mediante ufficiale giudiziario. A rivolgersi al magistrato per chiedere l’emissione di tale provvedimento è il creditore al quale basta dimostrare il proprio diritto con un documento scritto. Nel caso del condominio, l’amministratore può incaricare un avvocato (senza bisogno di farsi prima autorizzare dall’assemblea) solo dopo che è stato approvato il bilancio consuntivo. Con questo atto (che appunto costituisce la «prova scritta» richiesta dalla legge), il legale chiede al giudice di emettere un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. Con questa espressione si intende un ordine di pagamento immediato: al debitore non viene cioè dato il normale termine di 40 giorni (previsto invece nella generalità dei casi) per sanare gli arretrati. 

Questo significa che, a conti fatti, una volta ricevuto il decreto ingiuntivo, al moroso non resta  che pagare subito per evitare il pignoramento dei propri beni. Resta salva la possibilità di presentare un’opposizione entro i 40 giorni successivi alla notifica. L’opposizione comporta l’avvio di una causa ordinaria, nella quale si scontreranno da un lato il creditore – che dovrà dimostrare la fondatezza del proprio diritto di credito – e dall’altro il debitore – che invece dovrà contestare le affermazioni della controparte -.

Nonostante l’opposizione, resta fermo l’obbligo di pagamento immediato a meno che il tribunale ritenga di sospendere l’esecutività del decreto fino alla fine del giudizio per poi decidere, una volta per tutte, con la sentenza.

Decreto ingiuntivo del condominio: quando può arrivare?

Dal momento in cui un condomino non paga le spese condominiali quanto tempo può decorrere prima che arrivi il decreto ingiuntivo? In realtà la legge non impone un termine massimo se non i cinque anni di prescrizione. Esiste però un termine minimo: non è possibile emettere il decreto ingiuntivo se prima non è stato approvato il bilancio preventivo o quello consuntivo con il piano di riparto delle spese.

Per l’amministratore esiste un vero e proprio obbligo ad agire contro i morosi, a pena di responsabilità personale. Egli deve attivarsi non oltre sei mesi dalla chiusura dell’esercizio; quindi se il bilancio si chiude il 31 dicembre, entro la fine di giugno dell’anno successivo l’amministratore deve iniziare l’azione legale.

La norma usa il termine generico “agire per la riscossione forzosa” ed è da intendersi come il primo atto da compiere per dare corso alla successiva fase esecutiva per il recupero del credito. 

Se l’amministratore lascia spirare tale termine, il condomino non si libera dal proprio debito ma il professionista può essere revocato dal proprio incarico per giusta causa.

Decreto ingiuntivo del condominio: come difendersi

Un errore che viene spesso commesso è quello di contestare il decreto ingiuntivo per asseriti vizi alla delibera dell’assemblea sulla cui base l’amministratore ha riscosso gli oneri. Ad esempio, succede quando viene messa in discussione l’esistenza di una valida maggioranza o la possibilità per il condomìnio di incidere su uno dei diritti individuali dei proprietari degli appartamenti. 

Senonché, come ha spiegato più volte la giurisprudenza [1], il codice civile assegna massimo 30 giorni per contestare le votazioni dell’assemblea [2]; essi decorrono dalla approvazione della delibera o, per gli assenti, dalla comunicazione del verbale da parte dell’amministratore). Oltre tale termine di 30 giorni non è quindi più possibile agire e contestare la delibera. Risultato: l’eventuale errore si sana. 

In tema di contestazione delle spese condominiali, il condomino non può, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, sostenere che i calcoli sono errati se non ha impugnato le delibere assembleari con cui sono stati approvati il bilancio preventivo o quello consuntivo.

Opporsi al decreto ingiuntivo contestando la delibera è quindi del tutto controproducente se prima non si è proposto opposizione alla delibera stessa. Difatti, il giudice rigetterà l’opposizione non potendo più incidere su una votazione che si è ormai “stabilizzata” ed è divenuta definitiva per omessa impugnazione. 

In sintesi, per difendersi da un decreto ingiuntivo del condominio non bisogna ridursi all’ultimo minuto: se la contestazione attiene a una delibera assembleare, bisognerà agire contro di questa entro 30 giorni. Con il risultato, peraltro, che se il giudice accoglie l’opposizione, annullerà anche la decisione assembleare e non ci potrà mai essere alcun decreto ingiuntivo.

Così ad esempio se un condomino non viene convocato in assemblea e perciò non partecipa alla votazione sull’approvazione del bilancio è ugualmente tenuto a pagare il decreto ingiuntivo se prima non impugna l’assemblea per nullità [2].

Un secondo errore che viene spesso posto dal condomino che si oppone al decreto ingiuntivo è far valere, in compensazione, un proprio credito. Senonché, per giurisprudenza, il condomino che vanta delle somme dal condominio non può sospendere il pagamento delle quote condominiali.

Facciamo un esempio. Dal tetto dell’edificio si infiltra acqua che è andata a macchiare di umidità le pareti dell’appartamento dell’ultimo piano. Constatata la responsabilità del condominio, il danneggiato però non riesce a ottenere i soldi del risarcimento per indisponibilità di denaro nelle casse. Attende qualche mese finché decide di “farsi giustizia da sé”. E così smette di pagare le quote condominiali fino a quando non avrà recuperato il denaro che gli è dovuto. Si tratta però di un comportamento illegittimo. Non si può scalare un proprio credito dagli oneri condominiali, non almeno prima che intervenga una sentenza del giudice a quantificare l’esatto importo dei danni. Il credito, per poter essere oggetto di compensazione, deve essere infatti “certo” nel suo ammontare.

Vediamo allora come può tutelare le proprie ragioni un condomino il cui alloggio ha subito notevoli danni a causa delle infiltrazioni di acqua. Egli dovrà prima far causa al condominio e ottenere una sentenza che quantifichi l’entità esatta del risarcimento del danno. Solo allora potrà iniziare a scalare il proprio credito dalle quote mensili condominiali.  

Decreto ingiuntivo sulla base del bilancio preventivo

Non c’è bisogno del bilancio definitivo per avviare il recupero crediti nei confronti del condomino moroso. Secondo la Cassazione infatti basta quello preventivo. La Suprema Corte [4], infatti, ha stabilito che non si può notificare un decreto ingiuntivo confronti di condomini inadempienti alle bollette del condominio per spese indicate nel bilancio preventivo se quest’ultimo non è stato mai approvato espressamente dall’assemblea.

Per il recupero della morosità condominiale l’amministratore può chiedere l’emissione del decreto ingiuntivo anche sulla base del bilancio preventivo.

«Il ricorso da parte dell’amministratore del condominio al procedimento monitorio nei confronti del condomino moroso, in base al preventivo delle spese approvato dall’assemblea postula – avuto riguardo alla natura eccezionale della norma e del fatto che il decreto ingiuntivo presuppone l’esistenza di una prova scritta del credito proveniente dal debitore – la ricorrenza dell’approvazione del bilancio (preventivo o consuntivo) da parte dell’assemblea [5]»

Decreto ingiuntivo del condominio col bilancio preventivo: è valido?

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Recupero crediti morosi: l’emissione dell’ingiunzione di pagamento è subordinata all’approvazione dello stato di ripartizione ma non al bilancio consuntivo.

L’amministratore di condominio ti ha notificato un decreto ingiuntivo perché, da qualche mese, non stai più pagando gli oneri relativi al tuo appartamento. Dopo alcuni rimproveri verbali, gli sms, gli avvisi in bacheca e i solleciti scritti, ti ha fatto inviare la lettera dell’avvocato. Infine è arrivata l’ingiunzione di pagamento del tribunale. Ora hai 40 giorni di tempo per decidere se incaricare un avvocato e fare opposizione. Nel frattempo ti tocca pagare subito le somme intimate per evitare il pignoramento; si tratta infatti – così come la legge prevede in questi casi – di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. Senonché, nel meditare se presentare ricorso o meno, hai appreso che l’unica prova in possesso dell’amministratore è una delibera dell’assemblea di approvazione del bilancio preventivo. Non c’è mai stata però la presentazione – e quindi l’approvazione – del bilancio consuntivo. Sicché ti chiedi se, stando così le cose, il provvedimento del giudice possa essere considerato valido o meno. Non c’è, a tuo avviso, alcuna certezza in merito all’entità del credito  prima di una definitiva approvazione da parte dell’assemblea. Insomma, è valido il decreto ingiuntivo del condominio col bilancio preventivo oppure è necessario che sia intervenuto anche quello definitivo?

La questione è stata trattata più volte dalla Cassazione. Ecco cosa hanno detto i giudici supremi in svariate occasioni.

Decreto ingiuntivo del condominio sulla base del bilancio preventivo

In linea generale l’amministratore può attivarsi per recuperare i crediti dai morosi già a partire dall’approvazione del bilancio preventivo. Il suo però diventa un vero e proprio obbligo solo dopo l’approvazione di quello consuntivo. Entro 6 mesi da tale data, infatti, egli deve aver avviato le pratiche legali contro chi non è in regola coi pagamenti.

Tali principi si traggono dal codice civile in base al quale [1] l’amministratore può chiedere ed ottenere decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo sulla base dello stato di ripartizione approvato dall’assemblea; la norma non fa però alcun riferimento al bilancio preventivo oppure al rendiconto consuntivo.

A riprova di ciò, una sentenza del 2008 della Cassazione [2] ha stabilito che, per il recupero della morosità condominiale, l’amministratore può chiedere l’emissione del decreto ingiuntivo anche sulla base del bilancio preventivo.

La richiesta di un decreto ingiuntivo contro i morosi, da parte dell’amministratore del condominio, richiede quindi almeno un preventivo delle spese approvato dall’assemblea e l’approvazione del bilancio (preventivo o consuntivo) [3].

Il bilancio preventivo contiene una stima delle spese condominiali previste per l’anno in corso. Esso, per produrre effetti, deve essere approvato con delibera assembleare. Il voto dei condomini deve essere espresso: non è infatti possibile parlare di approvazione “implicita” del bilancio preventivo.

Il bilancio preventivo contiene una stima delle spese condominiali previste per l’anno in corso. Esso, per produrre effetti, deve essere approvato con delibera assembleare. Il voto dei condomini deve essere espresso: non è infatti possibile parlare di approvazione “implicita” del bilancio preventivo.

L’amministratore non deve quindi per forza aspettare l’approvazione del bilancio consuntivo per dare il mandato all’avvocato affinché depositi una richiesta di decreto ingiuntivo;  può già farlo basandosi sulle spese indicate nel bilancio preventivo, ma solo se esso è stato espressamente approvato dall’assemblea condominiale.

C’è però da dire che il bilancio preventivo è una semplice eventualità, non è cioè obbligatorio. In altri termini l’amministratore potrebbe decidere di sottoporre all’assemblea direttamente il bilancio consuntivo e poi agire solo con questo. Secondo la giurisprudenza [4], , non esiste una norma di legge che imponga all’amministratore di condominio e all’assemblea di approvare il bilancio preventivo; sicché ben è possibile un bilancio consuntivo senza che sia preceduto da quello preventivo. Solo un regolamento di condominio approvato all’unanimità potrebbe disporre diversamente stabilendo una specifica cadenza temporale degli adempimenti contabili dell’amministratore.

Che succede se il bilancio consuntivo non viene approvato?

Potrebbe succedere che, approvato il bilancio preventivo, quello consuntivo non passi mail il vaglio dell’assemblea magari perché l’amministratore non convoca le riunioni o perché i condomini non si presentano o non si mettono d’accordo. Che succede in tali ipotesi?

Fintanto che il bilancio preventivo non sia stato sostituito dal consuntivo, il decreto ingiuntivo può fondarsi sul preventivo di spesa e sul relativo piano di riparto purché approvati dall’assemblea condominiale. A tale conclusione è giunta la Cassazione con una sentenza del 2012 [5]. Via libera quindi all’azione di recupero dei crediti nei confronti dei morosi finché il rendiconto preventivo non viene sostituito da quello consuntivo.

Se poi il debitore dovesse fare opposizione al decreto ingiuntivo del condominio e, in corso di causa, dovesse venire approvato il bilancio consuntivo, il decreto resterebbe ugualmente valido. Resta fermo il diritto del debitore di chiedere la rettifica degli importi qualora vi sia una variazione delle voci di spesa da lui dovute.

Presunto abuso edilizio: come difendersi

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Esposto di abuso edilizio: se il confinante, il vicino o un condomino dello steso edificio sta realizzando una costruzione senza la licenza edilizia lo si può denunciare al Comune o ai vigili?

Il tuo vicino di casa sta realizzando una piccola costruzione che, ad occhio e croce, ti sembra abusiva. Prima di presentare un esposto contro di lui e rischiare magari una querela per calunnia, vuoi vederci chiaro e prendere tutte le informazioni dal Comune. Il tuo obiettivo è quello di verificare se il vicino ha richiesto le autorizzazioni amministrative e se tutte le concessioni sono in regola. A questo punto ti sorgono una serie di dubbi: è possibile chiedere l’accesso agli atti per verificare la licenza edilizia concessa a un’altra persona? Entro quanto tempo dall’avvio dei lavori bisogna attivarsi? Queste e altre domande ti frullano per la testa, così decidi di passare all’azione e verificare fin dove la legge ti consente di spingerti. Senza voler anticipare ciò che diremo più avanti, posso già dirti che, se non sei mosso da semplice curiosità ma dall’obiettivo di tutelare il tuo diritto di proprietario confinante, la privacy si mette da parte e ti consente di “ficcanasare” negli affari altrui purché tu lo faccia entro termini prestabiliti e perentori. Ma procediamo con ordine e vediamo come difendersi da un presunto abuso edilizio. Lo faremo tenendo conto delle ultime sentenze emesse dalla giurisprudenza amministrativa su questo delicato tema.

Abuso edilizio del vicino: concesso l’accesso agli atti amministrativi?

Non tutti possono accedere agli atti della pubblica amministrazione relativi a una concessione edilizia. Lo possono fare solo coloro che sono mossi da un interesse meritevole di tutela come ad esempio i confinanti, coloro che potrebbero essere pregiudicati da un “mostro” urbanistico o da una costruzione troppo ravvicinata.

Il Comune deve quindi consentire la visione dei documenti e dei certificati presentati dal titolare dell’immobile e delle relative concessioni o sanatorie riconosciutegli dall’ente locale.

La risposta deve intervenire entro 30 giorni dalla domanda. In caso di silenzio, il cittadino può ricorrere al Tar non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.

Entro quanto tempo si può denunciare un abuso edilizio?

I soggetti che si ritengono lesi da un’attività edilizia di un vicino possono sollecitare la Pubblica amministrazione a verificare l’esistenza dei presupposti di legittimità del permesso di costruire o della Scia (segnalazione certificata di inizio attività), ma non possono chiedere un controllo generalizzato che tocchi anche i profili “civilistici”: non possono cioè contestare violazioni, di norme che garantiscono diritti soggettivi.

Bisogna attivarsi subito per denunciare l’eventuale abuso edilizio del vicino, altrimenti si rischia di dover tacere per sempre. L’istanza affinché il Comune verifichi la regolarità delle opere, infatti, deve essere presentata entro sessanta giorni da quando si ha conoscenza dell’inizio attività del confinante: dopo scatta la decadenza (ciò al fine di garantire la certezza degli effetti prodotti dalla Scia o da qualsiasi altro titolo edilizio). A tale conclusione è arrivata una recente sentenza del Tar Abruzzo [1].

Quale controllo sull’abuso edilizio del vicino?

Una volta definito il fatto che si può accedere agli atti e che, entro 30 giorni, si può sollecitare una verifica all’amministrazione, è bene chiarire più nel dettaglio Ma cosa può chiedere il terzo? Quale può essere l’oggetto della diffida?

Secondo una recente sentenza del Consiglio di Stato [2], ribadisce che i terzi possono richiedere unicamente la verifica della «legittimità» della Scia in relazione alle norme di diritto pubblico e non già a norme civilistiche o di regolamenti tra le parti.

Il potere del terzo di richiedere l’attivazione dei poteri di controllo sussiste solo in relazione a violazioni di norme che comportano la lesione di norme di carattere amministrativo. Non possono essere chieste verifiche su violazioni di norme “civilistiche” o relative a regolamentazione di rapporti tra privati (ad esempio il rispetto delle distanze dal confine, del diritto di veduta e di passaggio, ecc.).

Per esempio: il terzo potrà richiedere alla Pa di verificare se chi ha presentato la richiesta di permesso di costruire sia l’effettivo titolare di un diritto (di proprietà, locazione, superficie ecc.) e se la costruzione è conforme al piano regolatore urbano, ma non potrà chiedere l’abbattimento di un’opera che danneggia altri condomini dello stesso palazzo. Per violazione di questa natura, il terzo dovrà rivolgersi – in presenza dei presupposti – al giudice ordinario, attivando i meccanismi contrattuali o, ad esempio, quelli predisposti dal Codice civile. Pertanto, come chiarito dal Consiglio di Stato, il privato può richiedere, nei limiti del suo interesse ad agire, solo la verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia applicabile al caso di specie.

Si può mettere una tettoia sul balcone?

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Normativa edilizia e condominiale sull’installazione della tettoia e della tenda ancorata al frontalino del balcone del piano di sopra. C’è bisogno dell’autorizzazione?

Hai intenzione di rendere più vivibile il balcone di casa tua sul quale di solito cade sempre polvere, sporcizia e, nelle giornate di cattivo tempo, molta pioggia. L’acqua finisce per bagnare i divanetti da esterni rendendoli inutilizzabili. Così ti è stato consigliato di realizzare una tettoia leggera, ancorandola al frontalino del balcone aggettante del piano di sopra. Prima però di incaricare la ditta dei lavori, ti poni giustamente il problema se un’intervento del genere possa essere legale o violare la legge. Cosa potrà dire il condominio del fatto che hai alterato l’estetica del palazzo e, soprattutto, quali contestazioni potrà sollevare il condomino del piano di sopra? Potranno costringerti a rimuovere l’opera? Tutte queste domande hanno trovato una risposta, proprio di recente, in una sentenza del Tribunale di Roma [1]. I giudici della capitale hanno infatti deciso un caso del tutto simile al tuo. Vediamo dunque cosa è stato detto in questa occasione e cerchiamo di capire se si può mettere una tettoia sul balcone.

Tettoia: ci vuole il permesso edilizio

Innanzitutto vediamo l’aspetto urbanistico ed edilizio. La normativa è di tipo amministrativo per cui riguarda i rapporti tra te e il Comune. Il condominio non ha voce in capitolo, anche se, qualora ritenga che tu abbia violato la legge, potrebbe presentare un esposto per il presunto abuso edilizio e farti sottoporre a un controllo.

L’ordinamento stabilisce che solo le tettoie di piccole dimensioni non necessitano del permesso di costruire ossia dell’autorizzazione comunale. Quindi tutto dipende da quanto ampia sarà la struttura che andrai a realizzare. Potrebbe essere importante verificare l’eventuale presenza di regolamenti comunali che potrebbero richiedere la Scia, tenendo conto che le tettoie, se non correttamente realizzate, potrebbero essere un pericolo per i passanti.

Tettoia: ci vuole il permesso del condominio?

In generale tutte le opere costruite sulla proprietà privata non richiedono il permesso preventivo del condominio. Ciò vale anche per quelle che vanno a incidere sulla facciata del palazzo. Resta però il divieto per l’esecutore di non rovinare l’estetica dell’edificio, ciò che va sotto il nome di decoro architettonico. E non c’è che dire: una tettoia potrebbe sicuramente alterare l’insieme delle linee dello stabile a meno che altri condomini non abbiano già fatto altrettanto negli anni passati. 

La cosa migliore da fare è sottoporre preventivamente il progetto all’assemblea e farsi autorizzare: una volta concesso il nulla osta, nessun condomino potrà “rimangiarsi la parola” e chiedere la demolizione (salvo che l’opera sia sostanzialmente diversa da come prospettata in partenza).

Tettoia: cosa può fare il vicino del piano superiore?

Veniamo ora all’aspetto più delicato: quello del rapporto con il vicino del piano di sopra. Numerose possono essere le sue contestazioni. Innanzitutto una tettoia estesa può precludergli la vista alla strada o al giardino sottostante, togliendogli peraltro anche l’aria e il diritto di affaccio. La tettoia, inoltre, oltre ad essere ricettacolo di polvere, sporcizia, nonché strumento di appoggio per volatili, è anche un mezzo per l’accesso di eventuali malintenzionati all’appartamento sovrastante.

A questo punto interviene una norma del codice civile [2] a regolare le distanze delle costruzioni dalle vedute. L’articolo in questione stabilisce quanto segue:

«Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri […].

Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.

Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia».

Il mancato rispetto della distanza minima comporta quindi l’obbligo di rimuovere la tettoia sul balcone.

Nel caso in oggetto, il condomino aveva accusato il proprietario dell’appartamento del piano di sotto di avere realizzato opere «tali da turbare il pacifico possesso e godimento di porzioni di proprietà esclusiva e comune, integrando molestia e fonte di pericolo». Nello specifico, una tettoia e una sirena dell’impianto di allarme, entrambe posizionate sul frontalino del balcone aggettante. Il tribunale ha osservato come i balconi aggettanti, ossia quelli che sporgono dalla facciata dell’edificio, costituiscano solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono e, non svolgendo alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell’edificio, non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani. Di conseguenza, rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono. 

I frontalini rientrano nella proprietà esclusiva del condomino titolare del balcone. Pertanto «…è palese che la tettoia, sia quella installata sulla parete condominiale, sia quella installata direttamente sul frontalino del balcone sono fonte di pregiudizio per il vicino, e non solo per la netta limitazione della veduta. Le tettoie, per la loro stessa conformazione, costituiscono potenziale ricettacolo di polvere, sporcizia ed appoggio per volatili». 

Nel caso di specie, il consulente tecnico nominato dal giudice ha appurato come la tettoia costituisca «…un pericolo per la sicurezza» in quanto offre ai malintenzionati «una più agevole via di accesso all’appartamento» per i malintenzionati.  

Si può installare una tenda sul balcone

Completamente diverso è il discorso della tenda, specie se retrattile. La sua consistenza in materiale leggero e non rigido impedisce di considerarla una costruzione. Inoltre, non si può vietare di installare «una tenda di tela scorrevole con comando a manovella, pure se situata a distanza inferiore a tre metri dal balcone o dalla finestra del piano sovrastante, ancorché siano necessari per farla funzionare dei sostegni fissi, atteso che tale tenda, non pregiudica permanentemente l’affaccio né diminuisce l’aria e la luce al condomino del piano sovrastante (…). Sotto altro profilo, l’esistenza della tenda, anche quando aperta, non determina pericolo alcuno per la sicurezza, essendo visibilmente inidonea a sostenere il peso di una persona». 

Donazione casa: possibile rivendere a terzi

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Un recente emendamento alla legge di bilancio rende più facile rivendere gli immobili ricevuti in donazione: non si rischia la restituzione nella successione.

Vendere una casa ricevuta in donazione sarà più semplice: grazie a un recente emendamento alla legge di Bilancio 2019, infatti, chi acquisterà un immobile donato non rischierà più di dover restituire l’immobile agli eredi danneggiati dalla donazione, per la cosiddetta lesione della quota di legittima.

La nuova previsione, nel dettaglio, è contenuta sia in un emendamento al disegno di legge di Bilancio 2019, approvato dalla quinta commissione della Camera, che nel testo del decreto legge in materia di semplificazione e sostegno allo sviluppo, attualmente all’esame del consiglio dei ministri.

Ad oggi, chi riceve un immobile e lo rivende rischia la revoca dell’atto, nel caso in cui il  donante, nel regalare il bene, abbia ridotto eccessivamente il suo patrimonio fino a sottrarre, agli eredi legittimi, o meglio legittimari, le quote spettanti per legge. Gli eredi possono riavere indietro l’immobile donato attraverso l’azione di riduzione.

Con la disciplina proposta, invece, la riduzione della donazione non pregiudicherà i diritti dei terzi che hanno acquistato un immobile donato: il venditore dovrà però compensare in denaro gli eredi legittimari per reintegrare la quota di patrimonio ereditario a loro riservata dalla legge. In caso d’insolvenza del venditore- donatario, dovrà però effettuare la compensazione in denaro a favore degli eredi il terzo acquirente.

Ma procediamo per ordine, e facciamo il punto sulla donazione casa: possibile rivendere a terzi, come funziona l’attuale disciplina e che cosa potrebbe cambiare con le nuove disposizioni.

La vendita di una casa ricevuta in donazione è valida?

In base all’attuale disciplina normativa, vendere una casa ricevuta in donazione è consentito: la vendita di un immobile donato è dunque valida. In alcuni casi, però, l’atto può essere revocato: questo succede quando il donante, nel regalare la casa a una persona, ha ridotto eccessivamente il suo patrimonio, sottraendo agli eredi legittimari le quote di eredità spettanti loro per legge, ossia quando la donazione riduce la cosiddetta legittima.

In base al codice civile, infatti, quando una persona muore, alcuni eredi, cosiddetti legittimari, hanno sempre diritto a una parte minima del suo patrimonio, la legittima.

Gli eredi legittimari sono il coniuge (e, a seguito dell’entrata in vigore della legge Cirinnà, la parte dell’unione civile), i figli, i nipoti e gli ascendenti.

La quota di legittima corrisponde a una determinata percentuale del patrimonio che il defunto aveva in vita: non si tiene conto, quindi, solo del patrimonio esistente al momento della morte. Di conseguenza, se risultano effettuate delle donazioni, da parte del defunto, che riducono le quote di legittima, i parenti più stretti possono agire per reintegrare il patrimonio, con la cosiddetta azione di riduzione: quest’azione è consentita anche se il donatario (chi ha ricevuto i beni in donazione) ha, a sua volta, venduto i beni.

Come funziona l’azione di riduzione?

Facciamo un esempio per capire meglio come funziona l’azione di riduzione che possono esperire gli eredi danneggiati. Immaginiamo che una persona anziana, il cui unico avere è la casa di abitazione, decida di donare l’immobile alla badante. Al suo decesso, la badante vende l’immobile e torna nel paese d’origine. All’apertura della successione, i figli restano senza quota di legittima: attraverso l’azione di riduzione possono però far causa all’acquirente della casa, ricevuta dalla badante, perché restituisca loro l’immobile, in quanto eredi legittimi.

In buona sostanza, tutte le donazioni effettuate in vita da una persona possono essere contestate, attraverso l’azione di riduzione, dagli eredi legittimi. C’è però un termine per esercitare l’azione:

  • entro 20 anni dalla trascrizione della donazione nei pubblici registri immobiliari;
  • oppure entro 10 anni dall’apertura della successione.

Superati questi termini, sia la donazione che la successiva vendita non possono più essere attaccate.

Come difendersi dalla revoca della donazione?

L’azione di riduzione è un rischio molto grave per chi acquista un immobile donato: per questo motivo, le banche difficilmente finanziano l’acquisto di un immobile da da una persona che lo ha ricevuto in donazione. L’unico modo per cautelarsi è ottenere, dal venditore, una dichiarazione firmata dagli altri eredi con cui questi si impegnano a non impugnare la donazione fatta dal defunto.

Come funziona la nuova disciplina sull’acquisto della casa ricevuta in donazione?

In base alle nuove proposte, chi acquista una casa ricevuta dal venditore attraverso una donazione non rischierà più di subire l’azione di riduzione da parte degli eredi legittimari, nel caso in cui la donazione riduca la quota di legittima.

Questo non significa che gli eredi legittimi non saranno tutelati dalla diminuzione del patrimonio: il donatario, cioè colui che ha ricevuto l’immobile in donazione e lo ha rivenduto a terzi, dovrà infatti compensare in denaro gli eredi legittimi per reintegrare la quota di patrimonio riservata. Se il donatario non pagherà, sarà il terzo acquirente a dover effettuare la compensazione in denaro a favore degli eredi, nei limiti del vantaggio conseguito. Se il terzo ha ricevuto l’immobile a titolo gratuito (ad esempio, con una seconda donazione), dovrà rimborsare gli eredi legittimari nei limiti del suo arricchimento.

In sintesi, con la nuova disciplina il danno alla quota di legittima è compensato in denaro, e non con la reintegra del patrimonio: perché il patrimonio possa essere reintegrato con l’azione di riduzione, la domanda di riduzione deve essere trascritta prima dell’atto di acquisto del terzo. In caso contrario, il terzo manterrà l’immobile.
Le nuove proposte riguardo alla vendita di immobili donati prevedono anche che:
  • l’azione di restituzione di beni immobili donati non potrà essere proposta decorsi 20 anni dalla donazione;
  • eventuali pesi o ipoteche di cui il donatario ha gravato gli immobili, restituiti a seguito della riduzione della donazione, saranno efficaci;
  • se il bene donato perisce per causa imputabile al donatario o ai suoi acquirenti, e il donatario è in tutto o in parte insolvente, il valore della donazione, che non si potrà recuperare dal donatario, si detrarrà dal patrimonio ereditario, pur lasciando impregiudicato il credito degli eredi legittimi e dei donatari antecedenti contro il donatario insolvente.
La nuova disciplina, una volta approvata, si applicherà alle successioni aperte dopo l’entrata in vigore della legge di Bilancio 2019; alle successioni aperte anteriormente si applicherà, invece, la normativa precedente. Al verificarsi di specifiche condizioni, potrà essere proposta azione di restituzione degli immobili anche nei confronti degli acquirenti dei donatari.

Pignoramento casa 2019

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Quando la banca o l’Agenzia delle Entrate possono iscrivere ipoteca e mettere all’asta la casa del debitore; come difendersi e fare ricorso.

Le regole sul pignoramento della casa, almeno per quanto riguarda le esecuzioni forzate azionate da Agenzia Entrate Riscossione, sono cambiate da poco: con un recente correttivo, il Governo ha allargato le maglie delle condizioni per mettere all’asta le case di chi non paga le cartelle di pagamento. Questo significa che, negli anni a venire, si potrebbe assistere a un più largo uso della leva dei pignoramenti immobiliari da parte del fisco. Nulla cambia, invece, per quanto riguarda i privati i quali, peraltro, non hanno mai sofferto limiti alle esecuzioni forzate dei beni del debitore. Le regole non sono cambiate rispetto alle ultime riforme in materia tributaria. Neanche l’ultima legge di bilancio ha toccato i limiti di pignorabilità della casa. Ma procediamo

Ma procediamo con ordine e vediamo cosa cambia per il pignoramento casa 2019. L’analisi dovrà tenere distinti i due casi, i debiti con l’agente della riscossione – e, in questo caso, differenziando il pignoramento della prima casa da tutte le altre ipotesi – e quelli invece con i soggetti privati come – uno su tutti – la banca.

Pignoramento casa 2019 Agenzia Entrate Riscossione

Chi non paga le cartelle di pagamento entro 60 giorni dal loro ricevimento può subire l’ipoteca sulla casa e il successivo pignoramento. Questa procedura però è tutt’altro che automatica poiché sottoposta a una serie di condizioni. Vediamole qui di seguito.

Ipoteca casa

Agenzia Entrate Riscossione può iscrivere l’ipoteca sugli immobili del debitore, anche sulla cosiddetta «prima casa». Perché possa essere iscritta ipoteca è necessario che:

  • siano decorsi 60 giorni dalla notifica della cartella senza pagamento o opposizione;
  • sia stato inviato un preavviso di ipoteca 30 giorni prima dell’iscrizione dell’ipoteca;
  • il debito complessivo per cartelle esattoriali notificate e non pagate sia almeno di 20mila euro.

Da quanto visto, le regole non sono cambiate rispetto a quando l’Agente della riscossione era Equitalia Spa.

Come cancellare l’ipoteca sulla casa?

Per cancellare l’ipoteca bisogna far ricorso al giudice, il che richiede di verificare se vi siano stati errori nel procedimento di iscrizione da parte di Agenzia Entrate Riscossione. Ad esempio, è possibile opporsi all’ipoteca se:

  • il contribuente non ha ricevuto il preavviso di ipoteca o lo ha ricevuto prima di 30 giorni dall’iscrizione dell’ipoteca stessa;
  • il contribuente, pur avendo ricevuto il preavviso di ipoteca, non ha mai ricevuto la notifica della cartella di pagamento;
  • prima della notifica del preavviso di ipoteca la cartella esattoriale si è prescritta;
  • prima del preavviso di ipoteca il contribuente ha fatto ricorso contro la cartella e lo ha vinto;

Si può sempre cancellare l’ipoteca se il debito del contribuente scende sotto 20mila euro. Quindi il contribuente potrebbe pagare spontaneamente, anche al di fuori di un eventuale piano di rateazione, una parte del debito per far scendere il tetto.

La richiesta di rateazione non determina la cancellazione dell’ipoteca, che sarà cancellata solo al pagamento dell’ultima rata.

Pignoramento prima casa 2019

Veniamo ora al pignoramento casa 2019 da parte dell’agente della riscossione. Come anticipato, le regole sono diverse a seconda che si tratti di «prima casa» o meno.

Come funziona il pignoramento della prima casa 2019? Innanzitutto è errato parlare di divieto di pignoramento della «prima casa». Ciò che non si può pignorare non è la «prima» casa in senso temporale (ciò farebbe pensare che a una persona titolare di 5 immobili non si possa pignorare solo il primo acquisto), ma «l’unica» casa, quando cioè il debitore non è proprietario di altri immobili.

L’Agenzia Entrate Riscossione non può infatti pignorare la casa del contribuente quando:

  • la casa in questione è l’unica di sua proprietà;
  • è stata adibita a civile abitazione;
  • in essa è fissata la residenza del debitore;
  • non è accatastata in A/8 e A/9, categorie relative agli immobili di lusso.

Se viene meno uno soltanto di questi presupposti, la «prima casa» è pignorabile. Ad esempio lo è se il debitore eredita una quota minima di un altro appartamento, con ciò divenendo la normale abitazione non più l’unica. Per evitare il pignoramento dovrebbe allora rinunciare all’eredità oppure cedere la quota pervenutagli.

Pignoramento casa 2019

Fuori dai casi del divieto appena citato, l’Agenzia delle Entrate può pignorare la casa, il terreno o qualsiasi altro immobile alle seguenti condizioni:

  • il debito deve essere superiore a 120mila euro;
  • la somma del valore di tutti gli immobili posseduti dal debitore deve raggiungere 120mila euro (è questa la modifica recente di cui si parlava in apertura);
  • deve essere stata iscritta ipoteca (e quindi già inviato il preavviso di ipoteca);
  • dall’iscrizione dell’ipoteca devono essere decorsi 6 mesi senza che sia avvenuto il pagamento;
  • non è stata chiesta la rateazione del debito. Chiedendo infatti di pagare a rate, tutti i pignoramenti in corso si sospendono. Non deve però essere avvenuta già l’aggiudicazione del bene.
  • Così, ad esempio, una persona che si proprietaria di due piccoli magazzini, del valore ciascuno di 50mila euro, non può subire alcun pignoramento immobiliare poiché il valore degli stessi non supera 120mila euro.

Le regole non sono quindi cambiate con l’ultima legge di bilancio.

Come bloccare il pignoramento casa?

Valgono le stesse regole viste per l’ipoteca salvo per quanto riguarda la rateazione. La richiesta di pagare a rate il debito se non cancella l’ipoteca blocca il pignoramento già in corso oppure impedisce l’avvio di quelli non ancora intrapresi.

In più il debitore può sempre pagare una parte del debito spontaneamente per far scendere il tetto sotto i 120mila euro e così far venire meno una delle condizioni per il pignoramento.

Pignoramento casa banca e altri creditori

Le regole per il pignoramento da parte degli altri creditori privati non subiscono limiti. Per cui la banca può pignorare la «prima casa» e non ha limiti di importi per poter iniziare l’esecuzione forzata come invece l’agente della riscossione.

Al pagamento del mutuo l’ipoteca non si cancella automaticamente ma se non vi provvede la banca lo può fare il debitore facendosi rilasciare una quietanza di pagamento dallo sportello e presentandola all’Agenzia Entrate, ufficio del Territorio. In ogni caso tutte le ipoteche si estinguono in automatico dopo 20 anni se non vengono rinnovate dal creditore. Leggi Come cancellare l’ipoteca dopo il mutuo.

Come faccio a sapere se sulla mia casa c’è un’ipoteca?

Basta andare all’Ufficio del Territorio dell’Agenzia delle Entrate e chiedere una visura ipocatastale fornendo gli estremi catastali dell’immobile.

Posso sapere se sulla casa di un’altra persona c’è un’ipoteca?

Si. Anche in questo caso è possibile recarsi all’Ufficio del Territorio presso l’Agenzia delle Entrate e chiedere la visura ipocatastale. Non ci sono limiti di privacy e il titolare dell’immobile non viene informato dell’altrui indagine. Bisogna fornire i dati catastali dell’immobile. Se non se ne è in possesso, basta dare le generalità del proprietario (nome e data di nascita oppure codice fiscale); in tal caso l’ufficio rilascia un certificato in cui sono indicati gli immobili di proprietà del soggetto e, sulla base di questi dati, è possibile ricavare la visura.

Posso vedere la casa se c’è l’ipoteca?

Si può vendere una casa ipotecata ma bisogna dirlo all’acquirente altrimenti il contratto può essere sciolto. L’acquirente infatti acquista il bene immobile con tutta l’ipoteca e gli potrà essere pignorato se il debitore non paga il proprio debito. Il debitore però potrebbe accordarsi con l’acquirente e, con il prezzo da questi versato, estinguere subito il debito con l’agente della riscossione.

Che succede se dò in donazione la casa per evitare il pignoramento?

Se il creditore è l’Agente della Riscossione e il debito è superiore a 50mila euro e si riferisce a Iva o Irpef si può essere incriminati per «sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte». Deve però risultare che il debitore non ha altri beni su cui il creditore si può soddisfare (altri immobili).

In ogni caso, sia il creditore privato che l’esattore può, entro 5 anni dalla donazione, agire con l’azione revocatoria, dimostrando semplicemente che il debitore non ha altri beni su cui soddisfarsi. Se invece lo stesso è titolare di altri beni che garantirebbero un fruttuoso pagamento, la revocatoria non è possibile.

La revocatoria rende inefficace la donazione e l’immobile può essere pignorato.

Inoltre, nel primo anno successivo alla donazione, l’immobile può essere pignorato anche senza revocatoria: basta che il pignoramento venga iscritto nei pubblici registri entro 12 mesi dalla data di trascrizione della donazione.

Leggi Come difendere la casa.

Che succede se vendo la casa per evitare il pignoramento?

Valgono le regole appena dette per la donazione, ma con la differenza che la revocatoria è più difficile perché il creditore deve anche dimostrare la malafede dell’acquirente o quantomeno la consapevolezza di sottrarre un bene ai creditori.

Che succede se metto la casa in un fondo patrimoniale per evitare il pignoramento?

Valgono le stesse regole della donazione: revocatoria nei primi cinque anni e pignoramento diretto nel primo anno se interviene l’iscrizione dell’esecuzione forzata.

Posso acquistare la mia casa all’asta?

Il debitore non può presentare offerte, ma lo possono fare i suoi familiari, anche i parenti più stretti a condizione che non risulti che la partecipazione del parente sia solo il frutto di un accordo preventivo con il debitore, volto a reintestare poi a quest’ultimo il bene così acquistato.

Che succede se non si vende l’immobile all’asta?

Nel caso di pignoramento da parte dell’Agenzia Entrate Riscossione, se la casa non si vende alla terza asta, il creditore può chiedere che questo venga assegnato allo Stato. Una mannaia particolarmente pericolosa per il debitore che, invece, nel caso del creditore privato può contare in una lunga serie di aste e, in caso di mancata vendita, nella chiusura della procedura. Leggi sul punto Pignoramento Equitalia: dopo la terza asta la casa passa allo Stato e Aste, dopo 4 tentativi il pignoramento si chiude.

Quando si può pignorare la prima casa?

Il fisco può pignorare la prima casa del debitore nelle seguenti ipotesi:

  • la prima casa del debitore se, a seguito di tale acquisto, siano stati acquistati altri immobili oppure ottenuti in eredità. Esempio n. 1: un contribuente ha solo una casa e nient’altro; un giorno però riceve, in eredità dal padre appena defunto, un quinto di un immobile da dividere coi propri fratelli: in tal caso, il fisco potrà pignorargli entrambi i beni a meno che egli non rinunci a uno dei due. Esempio n. 2: un contribuente ha solo una casa e un terreno agricolo; il fisco può pignorargli entrambi i beni perché si tratta, comunque, di due immobili. Esempio n. 3: un contribuente è proprietario di una casa; un giorno ne acquista un’altra dove, però, vi fa vivere il figlio appena sposato: il fisco può pignorare entrambi i beni;
  • la prima e unica casa del debitore se questi non vi risiede. Anche in questo caso facciamo qualche esempio. Esempio n. 1: il contribuente è proprietario di un unico immobile, ma lo dà in affitto mentre lui risiede in un altro, anche questo preso in affitto: in tal caso il fisco può pignorargli la casa. Esempio n. 2: il contribuente è proprietario di due case dove in una risiede lui stesso e nell’altra la moglie: il fisco può pignorare entrambi gli immobili;
  • la prima e unica casa del debitore se questa è a uso diverso da civile abitazione. Ecco due esempi anche su questo punto. Esempio n. 1: un contribuente possiede un unico immobile che ha accatastato a uso studio: il fisco può sottoporlo ad esecuzione forzata. Esempio n. 2: un contribuente possiede un immobile adibito a uso promiscuo: in assenza ancora di pronunce sul punto, sembra potersi ritenere pignorabile solo la parte dell’immobile adibita ad attività lavorativa.

Locazione: come farsi risarcire dall’inquilino per danni alla casa

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Dopo 12 mesi di affitto non pagato, sono riuscito ad allontanare dall’immobile gli inquilini tramite ufficiale giudiziario. Hanno consegnato le chiavi al mio avvocato, ma lo stato dell’immobile è indecente: sporco, WC e rubinetteria rimossi, stipiti e porte divelti, piastrelle estirpate, cucina da riparare e disinfettare. L’inquilino che ha firmato il contratto è uscito oltre un anno fa ed ha lasciato a moglie e suoceri (abusivi in quanto non previsti dal contratto) l’uso dell’appartamento. Posso citare entrambi (inquilino e suoceri) in giudizio per i danni causati, oltre che per l’impossibilità di riutilizzare gli spazi fino al restauro totale? Quali passi devo intraprendere? Quale altra possibilità avrei in caso?

Alla luce del quesito posto, è opportuno esporre sinteticamente quanto segue: 

La responsabilità dell’inquilino per danni alla cosa locata

In base alla legge [1], l’inquilino deve restituire la cosa locata nello stato in cui si trovava al momento del sorgere della locazione, fatto salvo il normale deterioramento dell’appartamento in affitto, dovuto al decorso del tempo.

Rispetto a quest’obbligo predetto, la descrizione dell’immobile contenuta nel contratto firmato e alla data del medesimo, rappresenta senz’altro un punto di riferimento. Se dovesse mancare questa descrizione, si presume comunque che la cosa locata era in buono stato.

Ebbene, alla luce di quanto premesso, appare conseguenziale, l’altro articolo di legge [2], secondo il quale il conduttore/inquilino, al momento della restituzione, deve risarcire i danni riscontrati nell’appartamento affittato e:

– non corrispondenti al normale deterioramento della cosa locata;

– in contrasto con il buono stato dell’appartamento al momento della consegna, avvenuta all’inizio del contratto.

Pertanto, nel malaugurato quanto non infrequente caso, che il conduttore consegni o lasci l’immobile in pessime condizioni, cioè con danni evidenti alla cosa locata, egli è tenuto al risarcimento dei danni, a meno che non provi che i medesimi siano stati provocati per caso fortuito o comunque non siano imputabili a sua responsabilità (cosiddetta prova liberatoria, molto improbabile e difficile da dimostrare).

Molteplici sono le pronunce giurisprudenziali a sostegno di questa interpretazione/applicazione delle norme appena richiamate in nota [3].

Pertanto, appare evidente che il primo responsabile da citare in giudizio per i danni ricevuti alla cosa locata e di proprietà del locatore, è l’inquilino/titolare/intestatario del contratto.

CASO CONCRETO

Appare evidente la responsabilità dell’ inquilino del lettore per i danni riscontrati e da questi descritti in quesito. La presenza di un regolare contratto di locazione ha consentito al lettore lo sfratto per morosità e gli consentirà di agire in giudizio nei confronti dell’inquilino, per i danni ricevuti.

Appare, inoltre, legittimo citare in giudizio anche i cosiddetti occupanti successivi l’immobile: i danni in esame, infatti, per caratteristiche e tipologie sembrerebbero inequivocabilmente imputabili ad un’azione dolosa/intenzionale, eseguita in prossimità del rilascio (non è verosimile che i suoceri e la moglie occupassero un immobile senza pavimenti, con gli stipiti divelti, senza rubinetti, ecc) e pertanto attribuibile anche, se non solo, ai detti occupanti.

Quindi, la prima iniziativa per il lettore da assumere, potrebbe essere quella di richiedere formalmente ai predetti soggetti (titolare del contratto e occupanti successivi) il predetto risarcimento.

In mancanza di ogni riscontro, le alternative sono:

– la tipica azione legale civile nei riguardi dei medesimi responsabili, basata sulle norme già citate e dove, alla luce del contratto di locazione e dei danni maturati a seguito dello stesso, l’obiettivo sarà quello di ottenere una sentenza di condanna al risarcimento;

– l’azione legale fondata sulla recente normativa [4] che ha depenalizzato il reato di danneggiamento in un caso come quello esaminato, ma che consente al danneggiato di fare causa ai responsabili per ottenere una condanna al risarcimento e per sanzionare i danneggianti con una sanzione pecuniaria che andrebbe da un minimo di 100,00 euro ad un massimo di 8000,00 [5].

Si noti che, la causa avrà dei costi, rappresentati da quelli dovuti allo stato (contributo unificato, bolli, spese di notifica) e dall’onorario del legale, a cui il lettore dovrà conferire mandato.

Ebbene, i predetti esborsi, anche al buon esito dell’azione legale, potrebbero risultare vanamente affrontati se, come spesso avviene in questi casi, i soggetti responsabili non avranno molto da perdere (ad esempio, se si tratta di soggetti disoccupati o percettori di redditi esigui o persino di fatto impignorabili, quali ad esempio le cosiddette pensioni minime).

Pertanto, prima di avviare ogni iniziativa successiva a quella di una formale richiesta di risarcimento (ad esempio a mezzo raccomandata a.r.), il lettore è bene che valuti attentamente costi e benefici della medesima.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Marco Borriello


Locazione: danni e mancata restituzione della cauzione

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Con riguardo alla restituzione della cauzione di locazione, a luglio 2018 ho terminato il contratto (durata prevista da ottobre 17 a luglio 18), ma ad oggi 16/10/18, dopo solleciti fatti per la restituzione della cauzione, non mi è stata restituita. Tra l’altro nel sollecito fatto a fine settembre in risposta mi venivano “notificati” alcuni danni, uno il danneggiamento della laccatura del tavolo (tra l’altro era già rotto al momento del nostro arrivo), l’altro un danneggiamento di un marmo ma del quale proprio non ho assoluta idea. Cosa posso fare?

Alla luce del quesito posto, è opportuno esporle sinteticamente quanto segue: 

La responsabilità dell’inquilino per danni alla cosa locata 

In base alla legge [1], l’inquilino deve restituire la cosa locata nello stato in cui si trovava al momento del sorgere della locazione, fatto salvo il normale deterioramento dell’appartamento in affitto, dovuto al decorso del tempo.

Rispetto a quest’obbligo predetto, la descrizione dell’immobile contenuta nel contratto firmato e alla data del medesimo, rappresenta senz’altro un punto di riferimento. Se dovesse mancare questa descrizione, si presume comunque che la cosa locata era in buono stato.

Ebbene, alla luce di quanto premesso, appare conseguenziale, l’altro articolo di legge [2], secondo il quale il conduttore/inquilino, al momento della restituzione, deve risarcire i danni riscontrati nell’appartamento affittato e:

– non corrispondenti al normale deterioramento della cosa locata;

– in contrasto con il buono stato dell’appartamento al momento della consegna, avvenuta all’inizio del contratto.

Pertanto, nel malaugurato quanto non infrequente caso, che il conduttore consegni o lasci l’immobile in pessime condizioni, cioè con danni evidenti alla cosa locata, egli è tenuto al risarcimento dei danni, a meno che non provi che i medesimi siano stati provocati per caso fortuito o comunque non siano imputabili a sua responsabilità (cosiddetta prova liberatoria, molto improbabile e difficile da dimostrare).

Molteplici sono le pronunce giurisprudenziali a sostegno di questa interpretazione/applicazione delle norme appena richiamate in nota [3].

CASO CONCRETO

Se è vero che, come possessore della cosa locata, il lettore doveva rispettare gli obblighi descritti in premessa, è altrettanto pacifico che non dovrebbe essere chiamato a risarcire danni presunti e non meglio descritti e/o specificati (quale ad esempio il marmo) o riconducibili al normale deterioramento della cosa (ad esempio, la laccatura del tavolo). Nel caso concreto, inoltre, si tratterebbe anche di danni preesistenti e/o non corrispondenti al vero.

Ebbene, rispetto a quest’ultima circostanza, sarebbe tornato molto utile al lettore un verbale di consegna della cosa locata, sottoscritto dal proprietario e dal locatore, in cui si attestava che la medesima veniva riconsegnata nel medesimo stato d’uso iniziale.

Poiché, dal tenore del quesito, sembrerebbe mancare questo verbale, appare evidente l’intento speculativo del proprietario, diretto a trattenere indebitamente la cauzione ricevuta, basato proprio su questa mancanza.

Detto questo, se il lettore dovesse essere in grado di dimostrare, con la testimonianza di un parente, amico, conoscente, ecc, che i predetti danni erano preesistenti all’inizio della locazione (danno al tavolo) o inesistenti (danno al marmo), con l’assistenza di un legale (se lo desidera sono a sua disposizione), lo stesso dovrebbe quanto meno rispondere all’indebita richiesta di controparte e nel contempo diffidarla all’immediata restituzione della cauzione.

È ovvio, però, che in mancanza di ogni riscontro positivo (e non sarebbe improbabile), l’azione legale (ad esempio, un ricorso per decreto ingiuntivo) sarebbe inevitabile e non saprei se, valutati i costi della medesima, sarebbe conveniente imbarcarsi nella relativa azione di recupero.

In sostanza, è bene che il lettore valuti il rapporto costi/benefici della sua iniziativa, se l’ammontare della cauzione non dovesse essere troppo elevato.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Marco Borriello

Mutuo ordinario: stipula delle polizze e diritto di recesso

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Ho acquistato un nuovo appartamento sottoscrivendo un mutuo, che a causa delle spese impreviste della nuova costruzione e le diverse spese extra appartamento, che ho dovuto sostenere tra il 2017 e il 2018, è stato pari al 100% del valore dell’immobile. Lo scorso mese ho effettuato il rogito notarile. La società di intermediazione creditizia , alla quale ho dovuto affidarmi, mi ha chiesto un compenso di 3500 euro per la consulenza e dopo due mesi circa di perizie sull’immobile (tutte a mio carico) e difficoltà varie mi ha proposto il mutuo con una banca (previo pagamento di un’ulteriore perizia beneviso di 640 euro). Si è poi fatta da parte e il rapporto di vendita del mutuo è avvenuto esclusivamente con l’istituto bancario. Per accedere al mutuo ordinario e non fondiario, visto che ho chiesto 290.000 euro e il 100%, ho dovuto sottoscrivere due polizze vita caso morte, una a premio unico, intestata a me, dell’importo di 11.237,50 euro e l’altra a premio ricorrente annuale, intestata a mia moglie, pari a 832,65 euro. Non trovando istituti di credito disposti a effettuare tale operazione e subendo l’incalzare del costruttore che mi chiedeva di effettuare il rogito, ho dovuto accettare. Ora però, la situazione è per me pesante dal punto di vista del credito residuo. Posso esercitare il diritto di recesso dalle due polizze per avere più liquidità? Lavoro per un’azienda di assicurazioni e ho una polizza vita associata alla mia posizione lavorativa, nel senso che fino a quando lavorerò per questa azienda avrò questa copertura. Non posso estinguere il mutuo, quindi ogni azione che riterrete opportuna dovrà preservare il  mutuo. Ho anche la registrazione vocale nella quale il funzionario di banca mi dice che sono obbligato a sottoscrivere le polizze, perchè altrimenti non sarebbe stato certo l’esito della concessione del mutuo e inoltre avrei peggiorato, qualora accolto il mutuo, di 1 punto percentuale lo spread.

Si riporta quanto scritto nel contratto di mutuo Repertorio n. 2216 Raccolta n. 1908 :

“Articolo 2 Obblighi e dichiarazioni della Parte Finanziata

  • La Parte Finanziata si obbliga a fornire alla Banca, entro il termine di sessanta giorni da oggi la prova:
  • a) che sono state eseguite le formalità di costituzione delle garanzie reali; b) che la situazione di proprietà, di libertà e di disponibilità, relativa ai beni oggetto della garanzia corrisponde a quella dichiarata nel presente contratto; c) che la Parte Finanziata e Parte datrice d’ipoteca è regolarmente

intervenuta in contratto ed è nel pieno e libero godimento dei propri diritti sino a data successiva di dieci giorni a quella di pubblicazione delle formalità ipotecarie di cui alla precedente lettera a); d) che sono state prestate, secondo le modalità richieste dalla Banca, tutte le garanzie ed avverate tutte le condizioni a suo tempo indicate dalla Banca nella lettera di comunicazione di concedibilità del mutuo o anche con lettere successive; .

  • La parte finanziata, qualora non abbia esattamente provveduto nei termini indicati, agli adempimenti previ- sti dal presente articolo, e/o abbia fornito dichiarazioni non corrispondenti al vero, autorizza la Banca ad avvalersi della facoltà di risolvere il contratto ai sensi dell’art. 1456 cod. civ. “

Si riporta inoltre quanto descritto nell’allegato A all’art.4 del contratto di mutuo Repertorio n. 2216 Raccolta n. 1908:

Il tasso annuo effetivo globale (TAEG) rappresenta il costo totale del contratto di credito espresso in percentuale annua. Il TAEG consente al consumatore di confrontare le varie offerte.
Il TAEG applicabile a questo contratto di credito è 3,410%
Comprende:
Tasso di interesse 2,750%

Spese una tantum:
Commissioni istruttoria 4.550,00 €
Spese di perizia tecnica 640,50 €
Assicurazioni 12.139,15 €
Imposta sostitutiva 725,00 €

Dove si evince che gli importi citati dal lettore sono stati inseriti all’interno del calcolo del Taeg.

Si riporta inoltre qui di seguito quanto descritto nell’allegato B all’art 10 del contratto di mutuo Repertorio n. 2216 Raccolta n. 1908:

  1. La parte finanziata è tenuta ad assicurare e mantenere assicurati presso primarie compagnie assicurative per tutta la durata del finanziamento e per i successivi due anni, a sue spese e con vincolo a favore della Banca, contro i danni causati da incendio, scoppio e fulmine e per i valori reali, i fabbricati, nonché gli evenutali impianti, attrezzature, macchinari e arredamenti aziendali oggetto di garanzia, e comunque le entità di qualsiasi genere, anche se terzi, restando inteso che tale vincolo, qualora conforme alle modalità richieste, è da intendersi sin da ora accettato dalla Banca per quanto possa occorrere nei confronti di chiunque. La Parte Finanziata autorizza la Banca a sostituirsi nel pagamento dei premi relativi alle pozze vincolate che non fossero stati adempiuti dagli assicurati, impegnandosi in tal caso a rimborsarla immediatamente delle spese sostenute e dei relativi interessi. La Banca resta autorizzata, qualora la Parte Finanziata non vi provveda, a contrarre come a rinnovare le polizze e a pagare i premi, con diritto di rivalsa, per le spese sostenute.
  2. La copertura assicurativa sarà vincolata a favore della Banca.
  3. La Parte Finanziata si obbliga ad informare del sinistro verificatosi la Banca mediante lettera raccomandata nel termine di 15 giorni, la Banca avrà diritto di intervenire negli atti di accertamento del danno o di promuoverli a spese della Parte Finanziata.
  4. Per i danni non coperti da assicurazione, la Parte Finanziata si obbliga a restituire nel primitivo stato l’immobile e/o il/i bene/i danneggiato/i.

Dove si parla dell’assicurazione contro i danni all’immobile e che quindi non riguarda le coperture assicurative con Helvetia e Itas.

Alla luce di quanto suesposto si ritiene indispensabile verificare il contenuto della comunicazione così come descritta al punto 2 (obblighi della parte finanziata) da parte della Banca.

Qualora detta comunicazione non dovesse contenere obblighi di mantenimento della garanzia assicurativa è verosimilmente legittimo l’esercizio del recesso.

 

Articolo tratto dalla consulenza resa dal dott. Guido Politi

Videosorveglianza e privacy se il vicino fa dispetti

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Abito in un quartiere residenziale e il mio vicino ha una casa più simile ad una baracca, con un sistema fognario al collasso. Abbiamo fatto già lo scorso anno una segnalazione all’Ufficio di Igiene con parere favorevole, ma le guardie comunali non riescono a farsi rispettare da questo vicino. Per non avergli voluto vendere casa alla morte di mio padre, ha iniziato a farci dei dispetti (macchie sulle basculanti del garage, sui pavimenti della veranda, dei balconi, del cancello di ingresso, dei muri di casa, del muro del garage e del magazzino). I carabinieri ci hanno suggerito di mettere un impianto di sicurezza esterno, ma i dispetti sono continuati e in più non siamo riusciti a scovarlo. Per il forte stress mi sono anche ammalato. Abbiamo installato in vari punti faretti a led con sensori di movimento e microtelecamere e dal momento cherientrando di sera spesso venivamo schizzati d’acqua dal vicino, nascosto dietro la rete di confine da lui peraltro rovinata, ho deciso di regolare i sensori in modo tale che accendano i faretti anche quando si trova in una parte della sua proprietà.Oggi un altro vicino mi ha detto di averlo visto firmare una lettera ad un avvocato, al quale mostrava a dito tutti i miei faretti. Cosa posso fare? Ho violato la privacy del mio vicino?

Ovviamente, non è possibile sapere con certezza cosa ilvicino del lettore confabulasse con il suo avvocato. È possibile che abbia segnalato il sistema di sicurezza del lettore e che, pertanto, possa a quest’ultimo giungere una diffida ove gli si richiederà di non puntare i faretti e le telecamere nella proprietà del predetto.

Ora, i principi guida dettati dal Garante (Provvedimento in materia di videosorveglianza dell’8 Aprile 2010) in tema di videosorveglianza sono i seguenti:

– le riprese possono essere effettuatesolo all’interno della proprietà;

-le riprese non possono essere divulgate(per esempio, su social network o altre piattaforme): possono essere acquisite solamente dalle Forze dell’Ordine e dall’autorità giudiziaria in presenza di ipotesi di reato;

– non è necessario segnalare l’impianto di videosorveglianza al Garante della Privacy qualora, come nel caso di specie, le riprese vengano effettuate per la tutela della sicurezza e la prevenzione dei reati.

In pratica, contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi, ecc., si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma se le telecamere riprendono luoghi di passaggio comuni a diversi proprietari (es. viale di entrata condominiale) oppure di proprietà esclusiva di altri, bisogna avere il consenso di costoro, pena violazione della privacy. Eccezionalmente, quando non si possa fare a meno di far cadere, nell’occhio della telecamera, eventuali altri soggetti al di fuori della proprietà, bisognerà fare in modo di impedire il loro riconoscimento, limitando il raggio della ripresa alle sole scarpe.

Da quanto è parso di comprendere, i sensori, una volta rilevato il movimento, azionano dei faretti che gettano una luce sul punto incriminato. Ora, di per sé ciò non costituisce violazione della privacy, a meno che i faretti non facciano luce direttamente nella casa del vicino (ad esempio, consentendo di vedere cosa fa all’interno di essa).

Ad avviso dello scrivente, questo sistema di sicurezza non lede la privacy, a meno che, si ripete, la videoripresa non sconfini nella proprietà altrui. Per quanto riguarda le luci, se fastidiose, non costituiscono violazione della privacy ma, al più, legittimano il vicino a chiederne la rimozione, oltre al risarcimento dell’eventuale danno patito.

Non vedo come il lettore abbia potuto violare le norme poste a tutela dell’ambiente.

Attenda il lettore di ricevere la diffida per verificarne il contenuto; eventualmente, se gliè contestato qualche addebito concreto, potrà adeguarsi. Comunque, si ribadisce che le telecamere non possono essere puntate in direzione di luogo di pubblico transito oppure, peggio ancora, nella proprietà altrui.

Si consiglia al lettore, attesa la condotta molesta reiterata dal suo vicino, di sporgere denuncia per stalking (art. 612-bis c.p.): sussistono tutti gli elementi tipici della fattispecie (atti persecutori, stato d’ansia cagionato nella vittima) perché quest’uomo risponda di tale reato.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Mariano Acquaviva

Cos’è la servitù apparente?

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Per usucapire un diritto di servitù è necessario che questa sia apparente: ma cosa intende la legge con questa espressione? Lo spiega la Cassazione.

Nell’ambito dei rapporti di vicinato, sentiamo spesso parlare di servitù. Il nostro codice civile non dà una definizione di tale diritto, ma ne regola comunque dettagliatamente la disciplina.
In questo articolo cercheremo, quindi, innanzitutto di fornire una definizione del diritto di servitù, aiutandoci con qualche esempio per meglio comprendere le dinamiche nelle quali questo istituto si inserisce.
Procederemo evidenziando la distinzione più importante che caratterizza la servitù, ovvero l’essere apparente o non apparente, ed illustreremo poi quali fonti possono dar vita al diritto, soffermandoci su quello relativo all’usucapione.
Attraverso questo percorso, saremo in grado di comprendere le motivazioni sottese alla pronuncia della Cassazione, la quale ha statuito che il diritto di servitù può essere oggetto di usucapione solo se rientra nella categoria delle servitù apparenti.

Il diritto di servitù: cos’è

Cosa si intende per servitù? Quando parliamo di servitù, ci riferiamo al diritto di un soggetto di esercitare azioni di varia natura (ovvero di porre i cosiddetti pesi o oneri) su un fondo altrui (cosiddetto fondo servente), per l’utilità del proprio fondo (cosiddetto dominante).

Immaginiamo due terreni confinanti: quello di nostra proprietà è più interno, mentre quello del vicino si affaccia direttamente sulla strada pubblica. Per arrivare al nostro fondo, quindi, dovremo necessariamente attraversare quello confinante. In questo modo, verrà a costituirsi una servitù di passaggio a nostro vantaggio: in pratica, il proprietario del fondo che si affaccia sulla via pubblica dovrà sopportare il nostro transito sul proprio terreno (ad esempio, se ha apposto un cancello all’ingresso, dovrà consegnarci le chiavi). La servitù consiste proprio in questo: essa è un peso gravante su un immobile (fondo servente) a vantaggio di un altro (fondo dominante) [1]. Per approfondire, si veda l’articolo Servitù: cos’è.

Ciò che caratterizza la servitù, quindi, è la relazione che viene a crearsi tra due fondi di proprietà di diversi soggetti, ed infatti non è esatto affermare che a ricevere il beneficio dall’onere posto sul fondo servente sia il proprietario del fondo dominante, poiché l’utilità deve essere riferita direttamente al fondo, quindi ad una res e non ad una persona fisica.

Ci sono diversi modi per costituire una servitù:

  • un contratto o un testamento;
  • l’usucapione (possesso continuato e ininterrotto per vent’anni);
  • la destinazione del padre di famiglia. Si pensi ad un unico fondo appartenente ad un solo proprietario. Successivamente egli vende una parte del terreno, che quindi viene diviso. La parte venduta, però, non si affaccia sulla pubblica via: per raggiungerla, quindi, verrà costituita una servitù di passaggio sull’altra porzione di terreno (quella rimasta al vecchio proprietario) che invece dà direttamente sulla strada pubblica.

Alcune servitù poi, come quella di acquedotto o di elettrodotto (diritto di far passare sull’immobile tubature d’acqua o cavi elettrici), sono imposte direttamente dalla legge.

Servitù: facciamo qualche esempio

Dopo aver delineato nei suoi tratti essenziali il diritto di servitù, facciamo quale esempio che ci aiuti a comprendere meglio in cosa può consistere il peso posto sul fondo servente per l’utilità di quello dominante.
Partiamo, dunque, dalla classica ipotesi di servitù, cosiddetta prediale. Immaginiamo di avere due fondi, appartenenti a soggetti diversi, di cui uno prospiciente una strada pubblica e l’altro non accessibile direttamente da questa, ma raggiungibile esclusivamente attraversando il primo fondo.
Nel caso delineato, è possibile obbligare il proprietario del fondo che dà sulla strada a consentire il transito sul suo fondo? La risposta è affermativa: la mancanza di un’alternativa all’attraversamento del primo fondo, comporta la necessità di imporre al suo proprietario l’onere del transito sul suo fondo a coloro che vogliono raggiungere il secondo fondo.
La servitùsul fondo servente consiste proprio in questo onere: consentire il passaggio, pedonale o veicolare che sia, sino al fondo dominante.
Facciamo un altro esempio. Immaginiamo due fondi confinanti ed ipotizziamo che il proprietario di uno di essi non possa far arrivare le tubature dell’acqua fino al suo fondo, se non facendole passare materialmente attraverso il fondo del suo vicino.
Anche in questo caso, è la legge ad imporre al proprietario del fondo servente l’obbligo di dare passaggio alle acque; tale fattispecie in gergo è chiamato servitù di acquedotto [2].

Servitù atipiche

Abbiamo illustrato i caratteri essenziali del diritto di servitù, facendo alcuni esempi tratti dal nostro codice civile. Ci chiediamo, sono ammissibili ipotesi di servitù diverse da quelle previste dal nostro codice? La risposta è sì. Vediamo perché.
Il nostro ordinamento giuridico consente alle parti di un contratto di scegliere liberamente il contenuto del loro accordo. Ciò rientra nel più generale principio dell’autonomia contrattuale [3].
Tale libertà, però, non è senza limiti: è il legislatore a fissare le regole ed i parametri entro i quali è possibile costruire il contenuto del nostro accordo.
Può capitare che i contraenti, nell’esercitare la loro autonomia contrattuale, si allontanino molto dai “tipi” di servitù espressamente previsti dal codice.
Si parla in tal caso di contratto atipico di servitù.
Avremo, quindi, un accordo che ha tutti gli elementi essenziali previsti dal codice per tale tipologia di contratto, ma l’onere sul fondo servente è diverso da quelli espressamente codificati. Facciamo anche qui un esempio.
Poniamo che un soggetto abbia l’esigenza di porre in essere determinate attività sul proprio fondo, ma per esercitarle più comodamente ha bisogno di utilizzare parte del fondo di proprietà del suo vicino. Ebbene, in questo caso, le parti possono accordarsi per concedere a tale soggetto di utilizzare esclusivamente per le suddette attività una parte definita del fondo del sul vicino.
Se l’attività in questione non è tra quelle previste dal codice e non è altresì contraria a norme giuridiche, verremo a trovarci in una ipotesi di servitù atipica.
Tali osservazioni risultano di grande importanza se pensiamo al fatto che un’ipotesi di servitù atipica, se anche apparente, potrebbe rientrare nel novero di quei diritti acquistabili per usucapione.

Servitù: modalità di costituzione del diritto

In che modo il diritto di servitù può essere acquisito?
Ebbene, in alcuni casi è la legge stessa ad imporre al proprietario del fondo servente l’onere della servitù (come nel caso della servitù di passaggio), in presenza di codificate condizioni.
In altri casi, i proprietari dei fondi possono accordarsi per costituire la servitù, regolandone le modalità di esercizio dello stesso (come nell’ipotesi della servitù di non sopraelevazione).
Esistono, poi, altre modalità di acquisto del diritto, ad esempio attraverso un atto mortis causa(testamento) o per destinazione del padre di famiglia, disciplinata dal codice civile [4].
In ultimo, essendo la servitù un diritto reale, non è dubbio che questo possa acquistarsi anche mediante usucapione.
Le condizioni perché ciò possa accadere sono da ricercarsi in parte nelle norme (generali) dettate in tema di usucapione [5], ed in parte, seppur indirettamente, nell’unica norma del codice civile relativa alle servitù non apparenti [6].
Soffermiamoci su quest’ultima.
Il legislatore, mediante la “secca” affermazione dell’impossibilità di acquisto della servitùper usucapione nell’ipotesi in cui questa non sia apparente, sembra aver fatto una scelta di campo.
Perché escludere dall’usucapibilità le servitù non apparenti? Possiamo affermare che alla base di questa disposizione vi sia l’imprescindibilità del fatto che, ai fini dell’usucapione, l’esercizio del diritto di servitù debba essere riconoscibile all’esterno, non equivoco, univocamente strumentale allo scopo. Tutto ciò è strettamente legato alle condizioni previste dal legislatore per l’acquisto per usucapione.
Come potrebbe essere possibile verificare l’esistenza di queste condizioni se l’esercizio del diritto non sia visibile e manifesto?

Servitù apparenti e non apparenti

Siamo arrivati al cuore della questione.
Abbiamo visto qual è la ratiosottesa alla disposizione normativa volta ad escludere la servitù non apparente dal novero dei diritti acquisibili per usucapione. Come va intesa l’apparenza riferita alla servitù?
Il codice civile ci dice espressamente quali servitù sono considerate non apparenti [7], riferendosi alla mancanza di opere visibili e permanenti, strumentali all’esercizio della servitù.
Ma è sufficiente la mancanza delle opere visibili per escluderne l’apparenza? Se prendiamo l’esempio della servitù di veduta, la mancanza di opere visibili dal fondo servente porterebbe automaticamente a qualificare la stessa come servitù non apparente.
Ma è davvero possibile tale automatismo? Una recente pronuncia della Cassazione ha dato un’interpretazione meno restrittiva del concetto di apparenza e quindi di “visibilità”, riferendola non esclusivamente al fondo servente, bensì anche a quello dominante o ad altro punto prospettico, come la strada pubblica [8]; in tal modo è stato possibile far rientrare la servitù di veduta tra quelle apparenti.
Considerazioni, queste, non di poco momento se pensiamo al fatto che la giurisprudenza unanime oggi concorda nel ritenere oggetto di acquisto per usucapione solo le servitù apparenti.
Nel novero di quelle non apparenti, invece, rientrano certamente le cosiddette servitù negative.
Tali sono quelle che impongono al proprietario di un fondo, per l’utilità di altro fondo vicino, un comportamento negativo, stabiliscono quindi il divieto di compiere una determinata azione.
L’esempio di scuola è la servitù di non sopraelevazione, normalmente frutto di un accordo tra i proprietari dei fondi in questione; essa consistente nell’onere di non costruire ulteriori piani in un fabbricato, per non privare l’altro, ad esempio, della vista di un panorama o per altri particolari motivi legati ad una maggiore comodità del fondo.
Il requisito della visibilità, come visto indispensabile per qualificare una servitù come apparente, può ritenersi soddisfatto non solo in presenza di opere materiali sul fondo servente, bensì anche alla stregua di comportamenti (attivi o passivi) posti in essere da un soggetto chiaramente ed univocamente interpretabili come volontà di porre un peso sul fondo finitimo.
Quello che rileva, in sostanza, è l’inequivoco direzionamento di questi comportamenti da parte di un soggetto e la loro non neutralità, come al contrario accade per le servitù negative, allorché il non facerenon può univocamente essere interpretato come onere imposto.

Requisito dell’apparenza: recente pronuncia

Sull’indispensabilità del requisito dell’apparenza in relazione all’usucapibilità del diritto, si è espressa ancora e di recente la Cassazione [9].
Questa pronuncia torna ad affrontare il tema delle caratteristiche dell’apparenza, confermando una linea di indirizzo che potremmo ormai definire unanime.
Anche qui infatti viene affermato che non può dirsi sufficiente la mera esistenza di opere per qualificarle come “visibili” ai fini dell’usucapione.
Occorre, infatti, oltre alla mera visibilità, anche la specifica destinazione delle stesse all’esercizio del diritto di servitù.
In conclusione, dalle pronunce analizzate, possiamo dire che l’apparenza è costituita da due elementi: uno materiale, costituito dalle opere visibili ed un altro non materiale, costituito dalla volontà ed univocità di esercitare il diritto di servitù.

Quando la servitù è apparente

Abbiamo detto che la servitù può essere apparente o non apparente. La distinzione assume una grande rilevanza pratica: secondo la legge, solo le servitù apparenti possono acquistarsi per usucapione e per destinazione del padre di famiglia [10]. Per quelle non apparenti, quindi, sarà necessario un contratto o un testamento (a meno che non si tratti di servitù imposte direttamente dalla legge).

La Cassazione [11] è unanime nell’affermare quando una servitù può dirsi apparente. In particolare occorre:

  • la presenza di opere (naturali o artificiali) visibili e permanenti;
  • che tali opere rivelino in modo inequivocabile l’esistenza della servitù.

Rimanendo sull’esempio della servitù di passaggio, essa è apparente quando esiste sul fondo del nostro vicino una strada, un percorso, un tracciato, un cancello o qualunque altro segno che renda evidente l’esistenza della servitù stessa, ossia che noi utilizziamo quel percorso per giungere al nostro fondo (si pensi appunto ad una strada che, dalla via pubblica, attraversi tutto il terreno confinante e termini sul nostro). Sul tema è disponibile l’articolo Servitù di passaggio e usucapione.

La Cassazione ha poi stabilito che anche un sentiero naturale creatosi con il semplice calpestio è idoneo ad attestare la presenza di una servitù di passaggio [12]. Ancora, non è necessario che l’opera sia presente sul fondo servente: ad esempio, è idoneo a rivelare la servitù apparente anche un cancello collocato sul fondo dominante, purché sia evidente che serva a transitare sul terreno del vicino [13].

Dunque, la visibilità delle opere non è l’unico requisito necessario a costituire una servitù apparente. Occorre innanzitutto che si tratti di opere stabili e non temporanee; inoltre, esse devono manifestare a chiunque la loro funzione. È evidente il perché di tutto ciò: mettiamo il caso che non esista un contratto che abbia costituito la servitù. Il nostro obiettivo, quindi, è acquisirla, dopo vent’anni, per usucapione [14]. Per far ciò dobbiamo dimostrare di aver esercitato il diritto in modo continuo e ininterrotto, senza alcuna opposizione da parte del proprietario del fondo servente. È chiaro quindi che il proprietario stesso deve avere coscienza della presenza della servitù: ciò può avvenire solo se le opere presenti su terreno siano visibili, permanenti e idonee ad attestare oggettivamente l’esistenza del diritto. Solo così si può presumere che il titolare del fondo sia stato per vent’anni a conoscenza della servitù e non si sia mai opposto.

Altri esempi di servitù apparente

Come ulteriori esempi di servitù apparente possiamo citare:

  • la servitù di scolo: diritto di far defluire l’acqua sul fondo del vicino, tramite canali appositamente predisposti;
  • la servitù di elettrodotto: diritto di far passare cavi elettrici, tramite canaline, tubi, pali e così via, sull’altrui proprietà;
  • la servitù di veduta: diritto di affacciarsi sul fondo vicino o di godere della vista di un determinato panorama (ad esempio nelle zone costiere o di montagna). Il proprietario del fondo servente non potrà quindi apporre muri, costruzioni varie o chiudere finestre che ostacolino il diritto di veduta.

Non possono considerarsi apparenti, invece, le cosiddette servitù negative, ossia quelle che si concretizzano in un obbligo di «non fare» per il proprietario del fondo o dell’immobile servente (ad esempio la servitù di non costruire o di non sopraelevare). Esse non possono essere apparenti perché, in questi casi, non ci sono opere visibili che rendano manifesta l’esistenza del diritto.

Agevolazione prima casa: si perde il bonus con la separazione?

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Bonus prima casa: gli accordi di separazione consensuale possono prevedere il trasferimento dell’immobile all’ex moglie prima dei cinque anni?

Ti stai per separare da tua moglie. Nel tentativo di non arrivare a una causa, siete riusciti a trovare un accordo sul mantenimento che dovrai versarle per badare a se e al vostro figlio. Quest’ultimo andrà infatti a vivere, principalmente, dalla madre per poi passare qualche ora della settimana e una parte del weekend con te. In tutto ciò, c’è da prendere una decisione sulla casa. Sai già che anche il giudice assegnerebbe l’immobile alla donna, cosa che succede sempre quando ci sono bambini o maggiorenni non ancora autosufficienti. In ragione peraltro del fatto che, prima o poi, dovrai provvedere al futuro di tuo figlio, hai pensato di cedere a tua moglie la nuda proprietà dell’immobile per lasciare l’usufrutto al bambino. In questo modo, quest’ultimo avrà la certezza di un tetto sotto cui vivere per tutta la vita. Il tuo unico problema però è di natura fiscale. Hai comprato l’appartamento con il cosiddetto bonus prima casa, meno di cinque anni fa, e la normativa ti vieta di venderlo così presto. In caso contrario subiresti una sanzione da parte dell’Agenzia delle Entrate. Come puoi fare per aggirare l’ostacolo? Si perde l’agevolazione fiscale sulla prima casa con la separazione? La questione è stata analizzata da una recente ordinanza della Cassazione [1].

In questo articolo ti spiegheremo cosa puoi fare con il bonus sull’acquisto della prima casa, ma soprattutto cosa non puoi fare e quando puoi vendere l’immobile. In ultimo chiariremo se, con l’accordo di separazione consensuale, si può cedere l’immobile acquistato con il bonus nonostante non siano ancora decorsi i cinque anni che la legge pone invece come limite minimo di tempo per potersi disfare del bene. Ma procediamo con ordine.

Bonus prima casa: in cosa consiste

Senza voler tornare su un argomento che abbiamo trattato numerose volte su questo giornale, ricorderemo gli aspetti principali del bonus prima casa.

Il fisco ti dà una grossa opportunità di risparmiare sulle tasse in caso di acquisto di immobile. Tasse che, se si acquista da privato, sono principalmente costituite dall’imposta di registro al 9% o, se si acquista da una ditta, consistono nell’Iva al 10% (se l’immobile è di lusso, l’Iva è al 22%). Con il bonus invece l’imposta di registro passa dal 9 al 2% e l’Iva dal 10 al 4%. In più le imposte ipotecarie e catastali passano in misura fissa a 50 euro ciascuna per gli acquisti tra privati e 200 euro ciascuna per gli acquisti da aziende.

In termini pratici tutto ciò significa un notevole risparmio di imposta.

Senza contare che, chi rientra in tale agevolazione, può vantare le detrazioni sugli interessi del mutuo bancario.

Ci sono però delle condizioni per ottenere il bonus.

Innanzitutto non bisogna essere proprietari di altre dimore nello stesso Comune ove si acquista. Va bene pertanto avere un ufficio, un negozio, uno studio o un terreno, ma non va bene se si tratta di una casa adibita a civile abitazione. Se si possiede, lo si deve cedere (vendere o donare) prima del nuovo rogito).

In secondo luogo non bisogna essere proprietari di altre case acquistate con lo stesso bonus, a prescindere dal Comune in cui si trovino. In questo caso, si ha tempo pari a un anno per cedere l’immobile (vendere o donare) dal nuovo rogito.

Chiude la rassegna delle condizioni il requisito della residenza: questa deve essere nel Comune ove si acquista. Si ha tempo fino a 18 mesi dal rogito per presentare l’istanza all’ufficio anagrafe.

Bonus prima casa: si può vendere?

Per evitare manovre speculative, la legge impone di non vendere prima di cinque anni la casa acquistata con l’agevolazione fiscale in commento. Chi la cede prima di questo termine sarà costretto a corrispondere all’erario tutte le imposte che aveva risparmiato all’atto dell’acquisto, oltre ovviamente alle relative sanzioni. Se si “autodenuncia” può usufruire del ravvedimento operoso e di un risparmio sulle sanzioni.

Prima casa: si può cedere in caso di separazione?

Veniamo ora all’ipotesi in cui marito e moglie, di cui uno dei due sia proprietario di una casa acquistata con l’agevolazione fiscale, decidano di separarsi. Se la separazione avviene prima di cinque anni dall’acquisto agevolato dell’immobile ci si chiede se, nelle condizioni di separazione, si possa disporre il trasferimento dell’immobile all’ex coniuge o magari al figlio, così contravvenendo alla norma che impone invece di attendere almeno cinque anni. La risposta che ha dato la Cassazione è stata favorevole al contribuente: non si perde l’agevolazione fiscale sulla prima casa anche se l’immobile è trasferito in virtù degli accordi di separazione consensuale.

La vicenda prende le mosse dal trasferimento della nuda proprietà di un immobile, in virtù di accordi propedeutici alla separazione, alla quale in sede di rogito erano state applicate le imposte di registro, ipotecarie e catastali agevolate. L’ufficio aveva emesso una cartella di pagamento con il recupero a tassazione. I contribuenti lo avevano impugnato con successo di fronte alla Ctr che, verificato successivo divorzio, aveva annullato l’atto impositivo.

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso in Cassazione e ha perso anche in ultimo grado.

Non è la prima volta che la Suprema Corte sposa questo principio. Già l’anno scorso [2] aveva sposato la medesima tesi, bacchettando il fisco per aver chiesto imposte non dovute al proprietario di un immobile che, in ragione della separazione, aveva trasferito il bene all’ex moglie. È vero – hanno scritto i giudici supremi – che le agevolazioni relative alle imposte di registro, ipotecaria e catastale sull’immobile adibito a prima casa decadono qualora l’immobile stesso sia venduto entro il termine di 5 anni dall’acquisto; ma è anche vero che il bonus prima casa non decade quando l’immobile è trasferito al coniuge sulla base di un accordo di separazione. La cessione dell’immobile da parte del coniuge nell’ambito della procedura di separazione non comporta la decadenza dalle agevolazioni “prima casa”.

Vicini di casa: gli insulti sono permessi, le minacce no

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Offese pronunciate al vicino: senza testimoni non ci può essere risarcimento per ingiuria. La minaccia di allagare la casa invece è reato.

Potrà sembrarti strano ciò che sto per dirti e non è, peraltro, il frutto di una interpretazione di un giudice isolato, ma il testo della stessa legge: se il tuo vicino di casa ti offende e pronuncia ogni tipo di insulto verbale nei tuoi confronti, difficilmente ti puoi difendere. Ma se tu, per tutta risposta, lo minacci commetti un reato. In buona sostanza la reazione a un’offesa, quando si concretizza in una minaccia concreta e grave, è punita dalla legge penale; l’offesa invece, per quanto grave possa essere, no. Ecco perché, possiamo sintetizzare questo principio con lo stesso titolo dell’articolo: tra vicini di casa, gli insulti sono permessi, le minacce no. E per spiegarci meglio facciamo un esempio.

Immagina un giorno di trovare, sul pianerottolo di casa, il tuo vicino che ti stava aspettando. Ha il volto visibilmente adirato, di quelli che non promettono nulla di buono. Siete solo tu e lui. Appena ti vede, attacca immediatamente uno sproloquio, insultandoti in tutti i modi per aver lasciato che alcune condutture del tuo impianto di condizionamento, da tempo guasto, creassero infiltrazioni di acqua nel suo appartamento. Inizia a dirtele di tutti i colori: le offese sono pesanti. Convinto di essere dalla parte della ragione per il torto subìto dall’altrui maleducazione e con l’intento di chiudere lì il discorso, giri i tacchi e lo minacci: «Io non riparo nulla finché non vedo la tua casa completamente allagata». Dopodiché tutti e due andate dai Carabinieri a denunciarvi a vicenda. Tu per la diffamazione, lui per le minacce. Chi dei due vincerà la causa? Tu che sei stato provocato o lui che teme per il suo appartamento?

La risposta è in una recente sentenza della Cassazione [1].

Diffamazione tra vicini: che fare?

La diffamazione non è più un reato. È solo un illecito civile. Per punirla e ottenere il risarcimento del danno, più l’applicazione di una multa, è necessario intentare una causa civile. Non è quindi più competenza della Polizia o dei Carabinieri, tantomeno della Procura della Repubblica.

Qui però viene la nota dolente. In tutti i processi civili bisogna raggiungere la prova del torto subito e, a tal fine, le dichiarazioni delle parti non fanno fede. C’è bisogno di testimoni che abbiano sentito le parole incriminate.

Questo significa che se nessun vicino del palazzo è disposto a testimoniare in tuo favore, dichiarando davanti al giudice di aver sentito il tuo rivale proferire le offese, tu perderai il giudizio.

Minaccia tra vicini: che fare?

La minaccia di procurare ad altri un danno grave e ingiusto è invece ancora reato. La minaccia pronunciata come reazione a una offesa non è perdonata (è perdonata solo la diffamazione o l’ingiuria a una offesa ricevuta). Questo significa che chi viene minacciato può denunciare il suo rivale.

A differenza di quanto abbiamo detto per il processo civile, in quello penale le dichiarazioni della vittima fanno fede, sono cioè una prova. Il giudice, in altri termini, può arrivare a una sentenza di colpevolezza basandosi solo su quelle che sono state le “confessioni” della parte offesa dal reato. Con la conseguenza che, se del vostro litigio non ci sono testimoni oculari, il tuo vicino minacciato ti potrà far condannare lo stesso grazie solo alle sue stesse dichiarazioni.

Minacciare di far allagare l’altrui appartamento è reato?

Nella lunga serie di frasi minacciose che si possono elencare, quelle tra vicini di casa sono le più originali. Non c’è infatti solo il classico «Tu non sai cosa ti farò», oppure «Stai attento a te perché ora mi vendico» che pur sono condotte vietate dal codice penale. Ma anche minacciare di far allagare l’altrui appartamento è, secondo la Cassazione, una minaccia.

Per la sussistenza del delitto di minaccia è del tutto irrilevante la reale intenzione dell’agente di realizzare il male ingiusto: il dolo consiste solo nella consapevolezza e volontà di realizzare l’intimidazione, non rilevando la effettiva possibilità del verificarsi del male prospettato.

Per parlare di «reato» è necessario che «la minaccia sia idonea a cagionare effetti intimidatori sul soggetto passivo, ancorché il turbamento psichico non si verifichi in concreto. Con la conseguenza che il dolo richiesto è quello generico, consistente nella cosciente volontà di minacciare un male ingiusto».

Applicando questa prospettiva, ed essendo «oggetto del dolo unicamente l’azione intimidatrice», «nella cosciente volontà di minacciare ad altri un male futuro e ingiusto e di provocarne la intimidazione non è compreso il proposito di tradurre in atto il male minacciato».

In questa vicenda, poi, è rilevante il contesto, ossia «i pessimi rapporti di vicinato esistenti tra le due donne e la loro perdurante litigiosità». Questi elementi «depongono per l’idoneità delle espressioni utilizzate dalla donna ad incutere timore nei confronti della vicina di casa».

Nuda proprietà: posso venderla?

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Quali sono le caratteristiche della nuda proprietà? Se fosse possibile vendere una nuda proprietà, per quali ragioni potresti avere difficoltà a farlo?

Le circostanze per le quali potresti essere diventato titolare di una nuda proprietà sono varie. Ad esempio, i tuoi genitori potrebbero averti donato il loro appartamento, riservandosi il cosiddetto usufrutto congiuntivo sino alla loro morte. Oppure potresti aver acquistato un immobile, uso investimento, per poi cederne l’usufrutto a vita ad una coppia di persone anziane senza figli. Ebbene, se ti identifichi in uno degli esempi precedenti oppure se, per qualsiasi altra ragione, sei diventato titolare di una nuda proprietà, potresti essere interessato a conoscerne alcuni aspetti. In particolare ti chiedi se, volendo, sia possibile cedere questa tua posizione. Sei consapevole che le facoltà che puoi esercitare sul bene immobile sono molto limitate per il proprietario, ma vorresti sapere se potresti almeno vendere la nuda proprietà o se l’usufrutto concesso sull’appartamento che ti è stato donato, potrebbe, di fatto ostacolare, se non addirittura impedire, questa tua intenzione. Ed allora, giustamente vuoi approfondire l’argomento e, per questo motivo, ti chiedi: che cos’è la nuda proprietà? Quali sono le facoltà che sono riservate all’usufruttuario e gli obblighi del medesimo? Se le mie facoltà sono limitate, come titolare di una nuda proprietà, posso venderla? Se la risposta dovesse essere positiva, quali potrebbero essere le difficoltà a cui andrei incontro e i motivi per i quali nessuno potrebbe essere interessato all’acquisto?

Nuda proprietà: cos’è?

Come hai potuto leggere in precedenza, sono varie le circostanze per le quali potresti essere diventato titolare di una nuda proprietà. Prendendo ad esempio, l’ipotesi della donazione dei tuoi genitori, con riserva di usufrutto congiuntivo, evidentemente sei diventato titolare di un bene, il cui diritto di utilizzo è, però, esclusivamente a favore di tuo padre e tua madre. Essi, ad esempio, potranno abitare la casa oppure, se previsto dal contratto, potranno eventualmente fittarla ad una terza persona e ricavarne una rendita. In sostanza, quando si parla di nuda proprietà, ci si deve riferire ad un diritto completamente svuotato delle principali facoltà del proprietario, per questa ragione definito nudo. Ma, allora, ti chiederai, se sono così limitato nelle mie possibilità, quali sono i miei obblighi sul bene e quelli dell’usufruttuario.

Nuda proprietà: diritti ed obblighi dell’usufruttuario

Con la costituzione di un usufrutto, che avviene con atto notarile debitamente trascritto nei registri immobiliari, l’usufruttuario diventa il titolare del diritto esclusivo di utilizzare l’immobile in questione. La nuda proprietà è un diritto che può nascere contestualmente ad una donazione (vedi il caso dei tuoi genitori) oppure dietro il versamento di un corrispettivo una tantum (vedi l’ipotesi della costituzione di un usufrutto a favore di una coppia di anziani senza figli). Solitamente, quindi, l’usufruttuario abiterà nel bene a lui concesso e, avendo questo pieno diritto sull’immobile, dovrà accollarsene gli oneri di manutenzione ordinaria, le spese condominiali ordinarie e tutte le tassazioni dovute e legate all’utilizzo del bene (imu, tari, tasi, ecc). Al nudo proprietario, pertanto, spetta soltanto l’onere delle spese straordinarie.

Nuda proprietà: posso cederla?

Se perdi ogni diritto di utilizzo sul bene oggetto dell’usufrutto, devi sapere che, nonostante tutto, puoi cedere una nuda proprietà. Ovviamente si tratta di un’operazione, fattibile sulla carta, ma che nella pratica potrebbe rivelarsi poco allettante per il potenziale compratore. Se ad esempio, i tuoi genitori non sono molto anziani, ed è stato costituito un usufrutto congiuntivo, cioè con il diritto di accrescimento a favore di entrambi gli usufruttuari, alla morte di uno dei due, l’usufrutto non si estinguerebbe e permarrebbe a favore del coniuge superstite. Ebbene, se questa è la situazione (caso peraltro più frequente), il compratore potrebbe vedere il proprio acquisto come una specie di chimera. Per questo motivo potrebbe non essere interessato alla nuda proprietà oppure proporre un prezzo di acquisto molto basso. Pertanto, sappi che se puoi cedere una nuda proprietà e anche vero che la cessione potrebbe rivelarsi di difficile attuazione o di scarso rendimento economico (in sostanza potresti ricevere un corrispettivo molto basso, rispetto al valore effettivo dell’immobile venduto).


Bollette energia elettrica: quando si prescrivono?

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Pagamento di fatture per la fornitura di energia elettrica inviate in ritardo: in quali casi si può chiedere la prescrizione?

Può capitare che un cliente riceva fatture per la fornitura di energia elettrica con un grande ritardo, vale a dire con consumi riferiti ad un periodo antecedente di più di due anni: questo può accadere per motivi legati all’operatività del venditore o del distributore (a cui compete la rilevazione, la validazione e la messa a disposizione dei venditori dei dati di misura rilevati dai contatori).

In questi casi il cliente è tenuto comunque a pagare l’importo fatturato? E se si tratta di una fattura di conguaglio? Le bollette energia elettrica quando si prescrivono?

Se la fattura per la fornitura dell’energia elettrica è inviata con oltre 2 anni di ritardo, il cliente ha facoltà di eccepire la prescrizione: la prescrizione degli importi relativi alle utenze dell’elettricità è difatti passata da 5 a 2 anni dal 1° marzo 2018, grazie alle previsioni della legge di Bilancio 2018 [1]. In pratica, mentre prima l’utente era tenuto a pagare tutte le bollette riferite all’ultimo quinquennio, ora è tenuto a pagare soltanto gli ultimi 24 mesi fatturati, mentre i precedenti risultano prescrivibili.

Attenzione, però: la prescrizione non è automatica, deve essere fatta valere dal cliente con apposite modalità.

Ma come si fa a sospendere il pagamento dei periodi prescritti, dato che le somme sono esposte dal venditore in fattura? In altre parole, come si chiede la prescrizione?

Chi ha diritto all’annullamento delle fatture prescritte?

Secondo quanto esposto nella legge di Bilancio 2018, la prescrizione “ridotta” si applica, per il settore elettrico, solo alle fatture la cui scadenza di pagamento è successiva al 1° marzo 2018.

L’Autorità per il servizio elettrico, in conformità a quanto indicato dalla legge di Bilancio 2018, ha individuato inizialmente tra i destinatari della nuova prescrizione, quindi del rafforzamento della tutela, la categoria dei clienti domestici e dei clienti non domestici connessi in bassa tensione.

Un secondo aspetto riguarda la fatturazione dei conguagli di periodi maggiori di due anni, nel caso in cui l’Autorità abbia aperto sul venditore interessato un procedimento per l’accertamento di violazioni del codice del consumo, per irregolarità nelle modalità di rilevazione dei consumi, di esecuzione dei conguagli e di fatturazione . In questi casi, se l’utente presenta un reclamo sul conguaglio, nelle forme previste, ha diritto alla sospensione del pagamento finché non sia stata verificata la legittimità della condotta del venditore. Il venditore ha l’obbligo di comunicare all’utente l’avvio del procedimento di accertamento ed i suoi diritti.

Fatture in ritardo: come individuare i periodi prescritti

Il venditore è tenuto a informare il cliente della possibilità che le somme evidenziate in fattura siano prescritte, in tutto o in parte.

L’indicazione deve essere riportata in fattura con questa dicitura: “fatturazione o conguaglio relativi a periodi precedenti di oltre due anni”.

Se manca l’indicazione in fattura, il venditore deve informare l’utente della possibilità di prescrizione almeno 10 giorni in anticipo rispetto alla scadenza dei termini di pagamento. Nello specifico, deve comunicare all’utente:

  • la presenza di importi relativi a consumi risalenti a più di due anni;
  • la possibilità di eccepirne la prescrizione e di non effettuare il relativo pagamento;
  • la modalità con cui comunicare la volontà di avvalersi della prescrizione.

Fatture in ritardo: come non pagare i periodi prescritti

In presenza di importi relativi a consumi risalenti a più di due anni, il venditore, oltre ad informare il cliente della possibilità di eccepirne la prescrizione e di non effettuare il relativo pagamento, deve dare  l’indicazione della modalità con cui comunicare tale volontà.

Per agevolare il cliente nell’esercizio della facoltà di prescrizione, nell’informativa il venditore  è tenuto ad integrare la fattura con gli importi riferiti a consumi risalenti a più di due anni prima con un pagina iniziale aggiuntiva. Questa pagina deve contenere:

  1. il seguente avviso testuale: “La presente fattura contiene importi per consumi risalenti a più di due anni, che possono non essere pagati, in applicazione della Legge di bilancio 2018 (Legge n. 205/17). Per non pagare tali importi, La invitiamo a comunicare tempestivamente la Sua volontà, ad esempio inoltrando il modulo compilato presente in questa pagina ai recapiti di seguito riportati [indicare i recapiti].”;
  2. l’ammontare degli importi oggetto di prescrizione;
  3. una sezione recante un format che il cliente finale può utilizzare per eccepire l’intervenuta prescrizione; questo format deve essere inoltre disponibile nel sito internet del venditore, in modalità anche stampabile e presso gli eventuali sportelli fisici;
  4. l’indicazione di un recapito postale o fax e una modalità telematica o indirizzo di posta elettronica del venditore, a cui sia possibile inviare i documenti o un eventuale testo redatto dal cliente finale, con cui quest’ultimo intenda eccepire la prescrizione.

Gli importi oggetto di prescrizione sono esclusi dall’applicazione di eventuali clausole contrattuali che prevedono metodi di pagamento particolari, come i servizi di incasso pre-autorizzati Sepa Direct Debit – Sdd (domiciliazione bancaria, postale o su carta di credito), anche nel caso in cui siano la modalità indicata dal cliente finale relativamente alle fatture periodiche e di chiusura.

Fatture in ritardo: quando non è possibile eccepire la prescrizione 

La prescrizione e l’annullamento delle fatture non si applicano se la mancata o erronea rilevazione dei dati di consumo deriva da responsabilità accertata dell’utente.

In questo caso, il venditore deve predisporre:

  • un avviso testuale, riportato direttamente sulla busta della fattura o nell’oggetto dell’e-mail, che informa il cliente finale della presenza di importi fatturati in ritardo;
  • un avviso testuale, stampato sulla fattura e in posizione ben visibile, oppure in un allegato alla fattura, che informa il cliente che dalle verifiche non è emersa una responsabilità degli operatori per il ritardo di fatturazione;
  • un testo informativo, contestuale ai precedenti avvisi, riguardante la motivazione della presunta responsabilità del cliente finale; il venditore è inoltre tenuto a informare il cliente finale della possibilità di richiedere ulteriori informazioni in merito e di inviare un reclamo.

Il venditore, in ogni caso, può rinunciare autonomamente ad esercitare il proprio diritto di credito sugli importi oggetto di prescrizione. In questo caso il venditore è tenuto a fornirne una puntuale informativa al cliente finale, specificando l’ammontare degli importi per consumi risalenti a più di due anni a cui rinuncia. Questa comunicazione sostituisce gli obblighi precedentemente esposti.

Sono esclusi i clienti multisito, nel caso in cui almeno un punto non sia servito in bassa tensione, e le forniture destinate alle amministrazione pubbliche.

 Fatture in ritardo: come pagare solo i periodi non prescritti 

Se sono fatturati importi riferiti a consumi risalenti a più di due anni, e la responsabilità del ritardo di fatturazione non è attribuibile all’utente, il venditore è tenuto a dare adeguata evidenza della presenza in fattura delle somme prescritte, differenziandole dagli importi relativi a consumi risalenti a meno di due anni. A tal fine il venditore può, in alternativa:

  • emettere una fattura contenente esclusivamente gli importi per consumi risalenti a più di due anni;
  • in alternativa, evidenziare separatamente gli importi per consumi risalenti a più di due anni all’interno di una fattura relativa anche a consumi risalenti a meno di due anni.

Il venditore, per determinare quali sono i consumi risalenti a più di due anni, se la stima avviene in assenza totale o parziale di dati di misura, deve adottare un criterio di attribuzione dei consumi su base giornaliera, considerando convenzionalmente costante il consumo nel periodo (si tratta del cosiddetto “criterio pro-die).

Domicilio sanitario: cos’è e come si richiede

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Che cosa significa, in quali casi è possibile richiederlo, chi può beneficiarne e quali documenti occorrono?

Sei uno studente fuori sede o svolgi un’attività lavorativa in una località diversa da quella in cui risiedi o, ancora, devi trasferirti temporaneamente lontano da casa? Hai bisogno di chiedere l’assegnazione transitoria di un nuovo medico di famiglia, per poter beneficiare dell’assistenza sanitaria nel domicilio provvisorio? In tali ipotesi, puoi richiedere ed ottenere il cosiddetto domicilio sanitario, ossia l’iscrizione temporanea, per un periodo di tempo non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno, eventualmente rinnovabile, presso un’Azienda sanitaria locale (ASL) diversa da quella di residenza. Cerchiamo di capire domicilio sanitario: cos’è e come si richiede? Analizziamo nel dettaglio questo valido strumento di assistenza ed il relativo procedimento.

Domicilio sanitario: di che si tratta, quali soggetti possono richiederlo e qual è la finalità?

Il domicilio sanitario è un istituto previsto e disciplinato da una Circolare del Ministero della Sanità [1], che consente a tutti coloro che si trasferiscono per un periodo di tempo determinato, ma senza cambiare la residenza anagrafica, di scegliere un medico curante nella città di destinazione.

Se, ad esempio, risiedi a Roma ma, per esigenze di lavoro o altro, devi trasferirti per qualche mese a Milano, puoi richiedere il domicilio sanitario per usufruire dell’assistenza medico-generale presso il distretto sanitario di destinazione, senza dover ritornare appositamente nella città in cui mantieni la residenza per farti curare.

Il domicilio sanitario rappresenta, quindi, un’opzione estremamente utile, della quale, più specificamente, possono avvalersi tutti i cittadini italiani che, per ragioni di lavoro, studio o salute, siano domiciliati o dimorino in un luogo differente dalla propria residenza anagrafica, per un periodo di tempo compreso tra tre e dodici mesi, ed intendano beneficiare dell’assistenza sanitaria della città ove si trasferiscono.

La Circolare del Ministero della Sanità enumera, tra i soggetti che possono usufruire dello strumento in questione, perché maggiormente esposti a trasferimenti provvisori di durata non inferiore a tre mesi, i lavoratori stagionali (specie quelli che operano nel settore turistico – alberghiero e cantieristico), gli insegnanti con incarichi superiori a tale periodo minimo, i lavoratori distaccati, i militari di carriera, i dipendenti pubblici e privati inviati in missione in una località diversa da quella di residenza, nonché coloro che soggiornano in località climatiche, per comprovati motivi di salute.

Si tratta evidentemente di uno strumento eccezionale rispetto alla regola generale [2], secondo la quale il presupposto essenziale per l’iscrizione dei cittadini assistibili da ciascuna Azienda sanitaria locale è rappresentato dal requisito della “residenza”, da intendersi, in base al codice civile [3] ed all’interpretazione uniforme della giurisprudenza di merito e di legittimità, quale dimora abituale e volontaria di un soggetto in un determinato luogo, caratterizzata dall’elemento oggettivo della permanenza e da quello soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente.

In deroga a tale regola, il domicilio sanitario risponde quindi all’esigenza pratica di garantire l’assistenza medico-generica in favore di tutti coloro che, in particolari situazioni puntualmente disciplinate, permangono in una località diversa da quella di residenza per almeno tre mesi e necessitano di essere provvisoriamente inseriti negli elenchi di un differente distretto sanitario.

Domicilio sanitario: a quali condizioni è possibile ottenerlo?

E’ sempre più frequente che un soggetto si trovi, per i motivi più disparati, nella condizione di dover condurre la propria esistenza in una località diversa da quella di residenza ed avverta l’esigenza di chiedere la cancellazione dell’attuale medico curante e conseguire, per tutta la durata del trasferimento, l’assegnazione temporanea di uno che operi nel distretto sanitario di destinazione.

Ai fini dell’ottenimento del domicilio sanitario, non deve però trattarsi di un semplice soggiorno o di un distacco dal luogo di residenza per una durata inferiore a tre mesi, poiché, in tal caso, non è possibile chiedere l’assegnazione provvisoria di un nuovo medico curante, essendo sufficiente, in caso di necessità, avvalersi del servizio di continuità assistenziale (cd. guardia medica) oppure rivolgersi al più vicino presidio ospedaliero.

E’ bene precisare che lo strumento assistenziale in esame non può essere richiesto ed ottenuto in presenza di qualsivoglia motivo di trasferimento, ma soltanto laddove ricorrano in concreto le ragioni, opportunamente documentate, espressamente previste dalla citata Circolare del Ministero della Sanità e che saranno successivamente specificate.

E’ inoltre necessario, quale pre-requisito indispensabile per poter instaurare la procedura volta al conseguimento del domicilio sanitario, essere già iscritti presso l’Azienda sanitaria locale (ASL) del luogo di residenza e, quindi, avere già un medico di famiglia.

E’ possibile formulare la richiesta di domicilio sanitario non soltanto per sé, ma anche per il proprio nucleo familiare, a condizione che tutti i suoi componenti permangano per oltre tre mesi nel luogo diverso da quello di residenza.

Così facendo, si può ottenere l’assegnazione temporanea sia del medico curante, sia del pediatra, qualora all’interno del nucleo familiare vi siano bambini di età inferiore a sei anni.

Qual è il procedimento da seguire? Come e dove fare domanda?

Il procedimento diretto al conseguimento del domicilio sanitario è estremamente semplice, non esige particolari formalità e, nonostante qualche piccola differenza tra i vari distretti sanitari, richiede solitamente gli stessi adempimenti.

Per attivarlo, è innanzitutto necessario recarsi presso l’Azienda sanitaria locale del luogo di residenza e richiedere la cancellazione del medico curante, in precedenza assegnato. Successivamente a tale disdetta, occorre rivolgersi all’Azienda sanitaria locale del luogo presso cui si è temporaneamente domiciliati o dimoranti, compilare e presentare la richiesta di domicilio sanitario all’ufficio competente, allegando la documentazione appresso specificata.

Qualora il soggetto che intende conseguire tale beneficio si trovi, per qualsivoglia ragione, nell’impossibilità di presentare personalmente l’istanza di domicilio sanitario, corredata dai documenti di seguito indicati, è consentito delegare un soggetto terzo, il quale è tenuto ad allegare anche un modello di delega, compilato e sottoscritto dal delegante, ed il documento di identità del delegato stesso, in corso di validità.

Domicilio sanitario: quali documenti vanno presentati?

Per poter ottenere il domicilio sanitario, occorre presentare una richiesta, il cui modulo è solitamente scaricabile dal sito internet dell’Azienda sanitaria locale o, in ogni caso, reperibile presso l’ufficio competente.

Alla richiesta, debitamente compilata in ogni sua parte, bisogna allegare la documentazione, di seguito indicata, che, a parte qualche trascurabile sfasatura tra i vari distretti sanitari, è tendenzialmente sempre la stessa:

  • la tessera sanitaria in corso di validità;
  • un documento di identità del richiedente in corso di validità (ad esempio, carta di identità, patente di guida, passaporto, etc.);
  • l’attestazione di avvenuta cancellazione dall’Azienda sanitaria locale del luogo di residenza anagrafica;
  • la certificazione attestante il motivo che è alla base dell’istanza medesima e viene usualmente esplicitato nel modulo di richiesta del domicilio sanitario.

Tale ultima certificazione varia, dunque, a seconda della ragione che spinge a trasferirsi, sia pure temporaneamente, in un luogo diverso dalla residenza anagrafica.

Se, ad esempio, il trasferimento è dovuto a ragioni di studio, è possibile presentare l’attestato di iscrizione all’istituto scolastico, al corso di studi o alla facoltà universitaria del luogo compreso nel distretto sanitario in cui si intende conseguire l’assistenza.

Se la richiesta di domicilio sanitario è connessa ad esigenze di lavoro o alla ricerca di un’occupazione, occorre produrre, rispettivamente, il contratto di lavoro o una dichiarazione del datore di lavoro che, ad esempio, attesti il distacco del lavoratore dalla sede principale per oltre tre mesi, oppure la ricevuta di avvenuta iscrizione al centro per l’impiego presente nel territorio.

Ove il domicilio sanitario venga richiesto da un militare in carriera, occorre presentare un certificato rilasciato dal corpo di appartenenza ovvero un’autocertificazione, da cui si evinca l’avvenuto trasferimento e la volontà di beneficiare, sia pure provvisoriamente, dell’assistenza sanitaria presso l’attuale domicilio.

Qualora il trasferimento sia legato a motivi di salute, bisogna allegare la certificazione attestante il ricovero presso un istituto o una casa di cura ovvero comprovante la necessità di farsi assistere o di assistere un familiare o un conoscente presso una struttura locale, eventualmente anche tramite autocertificazione.

Rientrano in quest’ultima categoria anche coloro che, a titolo esemplificativo, devono permanere in un luogo diverso da quello di residenza, al fine di sottoporsi a terapie termali per un periodo superiore a tre mesi, purché tale esigenza di salute risulti da adeguata certificazione, rilasciata da un medico specialista dell’Azienda sanitaria locale.

Domicilio sanitario: che succede dopo averlo ottenuto? E’ prorogabile?

Dopo aver completato l’iter esaminato ed ottenuto il domicilio sanitario, è possibile scegliere il nuovo medico di famiglia ed eventualmente il pediatra, consultando l’elenco disponibile presso gli uffici del distretto sanitario di nuova appartenenza o, sempre più spesso, scaricabile dal relativo sito internet.

Sebbene, come visto, il domicilio sanitario sia uno strumento funzionale ad garantire un’assistenza sanitaria provvisoria in caso di trasferimento non superiore ad un anno, è tuttavia possibile rinnovare la richiesta, al fine di ottenere una proroga del beneficio, ove la permanenza si protragga per un lasso di tempo ulteriore.

Quali spese sono a carico del locatore

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Affitto, spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’appartamento e spese condominiali: quali sono a carico dell’inquilino e quali a carico del padrone di casa.

Quando si inizia un rapporto di locazione si deve sapere che non tutte le spese condominiali e di manutenzione dell’immobile devono ricadere sull’inquilino. La legge stabilisce infatti una precisa ripartizione tra locatore e conduttore che solo un esplicito accordo, riportato sul contratto, potrebbe derogare. L’affittuario deve sì mantenere l’appartamento in buono stato, ma non ricadono su di lui le manutenzioni straordinarie o quelle, ad esempio, derivanti dall’usura degli oggetti. Allo stesso modo, per quanto riguarda il condominio, gli interventi di natura straordinaria ricadono sempre sul padrone di casa. 

Prima di firmare un contratto di affitto, è quindi necessario individuare quali spese sono a carico del locatore. Qui di seguito proveremo a fornire un quadro quanto più esaustivo possibile dimodoché eventuali contestazioni potranno trovare immediata soluzione.

Prima però di individuare le spese a carico del locatore è necessaria una precisazione. L’inquilino che ha dovuto effettuare degli interventi di manutenzione sull’immobile, stante l’inerzia del proprietario, non può solo per questo sospendere il pagamento del canone di affitto o autoridurlo. Le due obbligazioni viaggiano su binari autonomi. Per cui, se dovesse comportarsi in tal modo, egli potrebbe essere passibile di sfratto. Solo una sentenza di un giudice che gli riconosce l’entità certa del proprio credito gli consente di effettuare una compensazione tra le somme di cui è creditore con quelle di cui è debitore. 

Nel trattare questo delicato argomento e la ripartizione tra locatore e conduttore, distingueremo le spese relative alla manutenzione dell’immobile da quelle relative invece agli oneri condominiali.

In generale: obblighi a carico del locatore

Le principali obbligazioni del locatore sono:

  • consegnare al conduttore la cosa, in buono stato di manutenzione. Se la cosa presenta vizi occulti che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’uso pattuito, il codice offre al conduttore dei rimedi, essenzialmente la risoluzione del contratto o una riduzione del canone, oltre al risarcimento del danno; nel caso di vizi tali da rendere la cosa pericolosa per la salute, il conduttore può attivare i rimedi anche se i vizi gli erano noti;
  • mantenere la cosa in buono stato locativo: eseguire, quindi, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie, eccettuate quelle di piccola manutenzione che spettano al conduttore; tuttavia, se si tratta di cose mobili, le spese di conservazione ed ordinaria manutenzione sono, salvo patto contrario, a carico del conduttore;
  • garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa: ciò significa in primo luogo che il locatore deve evitare di impedire o disturbare il godimento del conduttore; inoltre, deve fare in modo che impedimenti o disturbi non gli provengano da terzi. 

In generale: obblighi a carico del conduttore

In generale le principali obbligazioni del conduttore sono:

  • prendere in consegna la cosa;
  • pagare il corrispettivo nei termini pattuiti;
  • utilizzare la cosa per l’uso stabilito dal contratto, osservando la normale diligenza: se, durante la locazione, la cosa è distrutta o è danneggiata, il conduttore ne risponde, salvo provare che ciò è dipeso da causa a lui non imputabile; parimenti, ne risponde se il danno è imputabile a persone da lui ammesse al godimento della cosa;
  • restituire la cosa al termine della locazione, nello stato in cui l’ha ricevuta, salvo il deterioramento dovuto a vetustà; il conduttore in mora per inadempimento di tale obbligo, deve continuare a pagare il canone fino alla riconsegna, oltre al maggior danno. 

Spese relative alla manutenzione dell’appartamento 

Per stabilire a chi competono le spese relative all’appartamento (riparazioni piccole e grandi, ristrutturazioni, interventi estetici, manutenzione di elettrodomestici e caldaie, sostituzione di pezzi rotti o deteriorati per via del tempo, ecc.) è necessario innanzitutto leggere il contratto di affitto. Questo infatti può stabilire qualsiasi ripartizione tra le parti, finanche addossarle solo a uno dei due contraenti. Questi sono ad esempio liberi di prevedere un rimborso al locatore di un importo forfetario oppure un rimborso delle somme effettivamente spese dal locatore attraverso anticipi mensili e salvo conguagli.

Se però il contratto non stabilisce nulla o si limita a riportare gli articoli del codice civile (come spesso succede), si applica la disciplina prevista dalla legge. Vediamo dunque qual è.

Spese relative all’appartamento a carico del locatore

Il codice civile [1] stabilisce che il locatore deve eseguire, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie, eccettuate quelle di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore.

Se si tratta di cose mobili, le spese di conservazione e di ordinaria manutenzione sono, salvo patto contrario, a carico del conduttore.

Fermo restando che le parti possono inserire nel contratto una clausola che ponga a carico del conduttore anche le spese di straordinaria manutenzione, sono di norma a carico del padrone di casa i guasti che interessano l’immobile o parte di esso. Si tratta delle riparazioni non di piccola manutenzione. Ad esempio, si tratta delle spese inerenti agli infissi esterni dell’immobile, agli impianti interni alla struttura del fabbricato, il rifacimento del manto di asfalto del lastrico solare. L’obbligo a carico del locatore, tuttavia, non sussiste se si tratta di riparazioni causate dal conduttore per dolo o colpa o da un familiare o da un dipendente del conduttore.

Se c’è da fare un intervento urgente, il conduttore può provvedere e poi chiedere il rimborso purché ne dia immediata notizia al locatore. La mancanza dei requisiti d’urgenza non preclude il rimborso al conduttore, se la riparazione è poi considerata necessaria, a meno che il locatore non dimostri che, se fosse stato tempestivamente avvisato e avesse quindi potuto provvedere direttamente, avrebbe contenuto l’ammontare della spesa.

Per quanto invece riguarda i miglioramenti dell’immobile, come l’installazione di un impianto di aria condizionata, il conduttore è libero di provvedere ma se non concorda la spesa con il proprietario non ha diritto al rimborso. 

In caso di mancata riparazione dell’immobile locato, Il conduttore ha diritto al risarcimento del danno stante l’obbligo del locatore di provvedere alle riparazioni eccedenti la normale manutenzione.

Spese relative all’appartamento a carico del conduttore

Il conduttore deve curare la manutenzione dell’immobile e la sua conservazione, facendo fronte alle relative spese. Su di lui ricade l’ordinaria amministrazione ossia le riparazioni che derivino dai deterioramenti dovuti all’uso quotidiano dell’immobile. Si tratta però solo delle piccole riparazioni. Quindi, se per deterioramento si rompe la caldaia o l’autoclave, la sostituzione è a carico del locatore. Se invece si rompe la maniglia della porta, questa è carico del conduttore. 

Le riparazioni di piccola manutenzione, che devono essere eseguite dall’inquilino a sue spese, sono quelle dipendenti da deterioramenti prodotti dall’uso, e non quelle dipendenti da vetustà o da caso fortuito. Le suddette riparazioni, in mancanza di patto, sono determinate dagli usi locali.

Nella categoria delle riparazioni di piccola manutenzione, a carico del conduttore non rientrano quelle relative agli impianti interni alla struttura dell’immobile (elettrico, idrico, termico) per l’erogazione dei servizi indispensabili al suo godimento. Il locatore che agisce contro l’inquilino per il rimborso delle spese di riparazione dell’immobile che assume dipendenti dalla omessa manutenzione dovuta da quest’ultimo ha l’onere di dimostrare, in conformità con le regole generali sull’onere della prova, i presupposti del relativo diritto, e, quindi, che si tratti di danni conseguenti alla assenza di riparazioni di piccola manutenzione rese necessarie dal deterioramento prodotto dall’uso.

Restano a carico del locatore le spese per i lavori di restauro delle facciate condominiali, trattandosi di intervento di manutenzione straordinaria, senza che assuma rilievo la qualificazione di intervento di manutenzione ordinaria operata dalla legislazione urbanistica.

Diritti del conduttore in caso di riparazioni

Se l’esecuzione delle riparazioni si protrae per oltre un sesto della locazione e, in ogni caso, per oltre venti giorni, il conduttore ha diritto a una riduzione del corrispettivo, proporzionata all’intera durata delle riparazioni stesse e dell’entità del mancato godimento.

Indipendentemente dalla sua durata, se l’esecuzione delle riparazioni rende inabitabile quella parte della cosa che è necessaria per l’alloggio del conduttore e della sua famiglia, il conduttore può ottenere, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto.

Il conduttore che perda il godimento dell’immobile durante il periodo in cui il proprietario debba eseguire delle riparazioni, non perde anche la detenzione dell’immobile stesso sino a quando non sia stata pronunciata la risoluzione del contratto di locazione e può pertanto proporre azione di spoglio contro il proprietario che, a lavori eseguiti, rifiuti la restituzione dell’immobile.

Spese condominiali dell’appartamento 

I cosiddetti oneri accessori dell’affitto consistono nel pagamento del condominio. Fermo restando che anche in questo caso il contratto può imporre le (sole) spese ordinarie a completo carico dell’inquilino o del padrone di casa, in assenza di regolamentazione valgono le seguenti regole previste dalla legge.

Spese condominiali a carico del locatore

Il locatore (ossia il proprietario dell’appartamento) deve provvedere alle spese di gestione straordinaria. Si tratta delle spese relative ad opere necessarie per rinnovare, modificare o sostituire parti, anche strutturali, dell’edificio nonché opere e modifiche necessarie per realizzare e/o integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici dell’immobile.

Vi rientrano ad esempio:

  • sostituzione e manutenzione straordinaria dell’impianto di riscaldamento;
  • sostituzione dell’impianto sanitario;
  • sostituzione integrale di infissi e serrande;
  • sostituzione serrature;
  • installazione doppi vetri o ringhiere;
  • installazione o rifacimento dell’impianto di allarme;
  • installazione, sostituzione o rifacimento citofono;
  • per quanto riguarda le spese relative all’acqua e all’aria condizionata: installazione e sostituzione; adeguamento a leggi e regolamenti;
  • installazione e sostituzione integrale dell’impianto dell’autoclave o di componenti primari (per esempio: pompa, serbatoio);
  • per quanto riguarda l’ascensore: installazione; manutenzione straordinaria; adeguamento a nuove disposizioni di legge;
  • installazione, sostituzione, potenziamento dell’antenna tv;
  • manutenzione straordinaria dello spurgo;
  • installazione e sostituzione dell’illuminazione;
  • manutenzione straordinaria del tetto o del lastrico solare (ad esempio rifacimento per perdite e necessità di coibentazione);
  • compenso all’amministratore di condominio, spese postali, cancelleria;
  • 10% delle spese si portineria.

Spese condominiali a carico del conduttore

Sono a carico del conduttore (ossia l’inquilino) le spese di gestione ordinaria. Si tratta delle spese necessarie a mantenere in efficienza l’immobile e per rimuovere il deterioramento prodotto dall’utilizzo del bene locato.

Vi rientrano ad esempio

  • manutenzione ordinaria dell’impianto di riscaldamento;
  • manutenzione ordinaria degli impianti sanitari;
  • manutenzione ordinaria di infissi e serrande;
  • rifacimento chiavi;
  • sostituzione vetri rotti;
  • manutenzione ordinaria dell’allarme;
  • manutenzione citofono;
  • per quanto riguarda le spese relative all’acqua e all’aria condizionata: manutenzione ordinaria; pulizia annuale, impianto e filtri, messa a riposo stagionale; lettura contatori; forza motrice, combustibile; consumo combustibile, acqua, energia elettrica;
  • manutenzione ordinaria dell’autoclave, forza motrice, ricarica pressione serbatoio, ispezioni, collaudi, lettura contatore;
  • manutenzione ordinaria dell’ascensore;
  • manutenzione ordinaria dell’antenna;
  • manutenzione ordinaria dello spurgo, disotturazione dei pozzetti e condotti;
  • per quanto riguarda l’illuminazione, consumi e manutenzione ordinaria;
  • pulizia scale, aree verdi, giardini, lastrico solare, ascensore;
  • manutenzione ordinaria cassette postali;
  • sostituzione lampadine;
  • riparazione ordinaria cancello elettrico;
  • consumi energia;
  • 90% delle spese di portineria;
  • acquisto bidoni di pulizia;
  • disinfestazione e derattizzazione.

Pagamento spese condominiali

Il locatore deve anticipare il pagamento delle spese condominiali e poi deve fare richiesta di rimborso al conduttore della quota relativa all’immobile locato. Il conduttore a sua volta deve effettuare il pagamento entro due mesi dalla richiesta. Il mancato pagamento degli oneri condominiali pari ad almeno due mensilità può comportare lo sfratto. 

Gres porcellanato: tutte le detrazioni fiscali e le agevolazioni IVA per installarlo in casa

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Il gres porcellanato è un materiale dalle proprietà fisico-chimiche uniche che lo rendono resistente all’usura, è impermeabile e duraturo.

Considerato come una ceramica, la sua struttura vetrosa rende la piastrella in gres porcellanato più dura e compatta della ceramica ed ha un assorbimento dell’acqua inferiore allo 0,5%, caratteristica che lo rende perfetto sia per uso interno che per uso esterno.

Oggigiorno sempre più persone decidono di installare il gres porcellanato in casa, proprio per le sue caratteristiche che lo rendono unico ed adatto ad ogni ambiente. Ma il rifacimento dei pavimenti di un’abitazione esistente può essere soggetto a detrazione fiscale? Dipende.

Infatti, come per altri interventi edilizi, la detraibilità dipende dal contesto dei lavori: può non esserlo, come può in alcuni casi beneficiare di una detrazione sulle ristrutturazioni edilizie o, in altri, di una detrazione sul risparmio energetico.

La legge sulla detrazione fiscale introdotta dal 1998 e resa permanente dal Decreto legge n. 201/2011, nel corso del 2013 è stata elevata dal 36% su un importo massimo di 48.000 euro al 50% su un importo massimo di 96.000 euro (anche se al momento c’è la possibilità che a partire dal 1° gennaio 2019 possa tornare ad essere della misura ordinaria del 36% su 48.000 euro).

Secondo la legge sulla detrazione fiscale, se non accompagnata da altri interventi, la sola sostituzione di una pavimentazione interna risulta come un’opera di manutenzione ordinaria quindi, a meno che non si tratti del rifacimento della pavimentazione di uno spazio comune condominiale, non rientra tra le spese detraibili.

Nel caso in cui, invece, si stanno effettuando dei lavori su spazi comuni, rientrano tra le spese detraibili la rimozione del pavimento esistente, la realizzazione del nuovo sottofondo e la fornitura e la posa del nuovo pavimento. Rientrano in questo caso anche le riparazioni di pavimenti interni e gli interventi di riparazione o sostituzione dei gradini delle scale comuni.

Se si parla invece di abitazioni private, le manutenzioni ordinarie non sono ammesse nella detrazione sulle ristrutturazioni a meno che non rientrino in un intervento edilizio più vasto, edificabile come manutenzione straordinaria o ristrutturazione.

Il rifacimento di un pavimento in un’abitazione privata, può essere detratto anche nel caso in cui si configuri come un’opera conseguente ad un’altra opera che da sola può già beneficiare della detrazione sulle ristrutturazioni edilizie.

L’agevolazione fiscale può essere usufruita anche nel caso in cui si effettuano dei lavori per il risparmio energetico, a prescindere se avvengono in un’abitazione privata o condominiale.

Nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n.36 del 31 maggio 2007 è possibile trovare un elenco delle spese detraibili nell’eventualità che si realizzino interventi finalizzati alla riduzione della trasmittanza termica come: la fornitura e messa in opera di materiale coibente per il miglioramento delle caratteristiche termiche delle strutture esistenti o di materiali ordinari per il miglioramento delle caratteristiche termiche delle strutture esistenti o, ancora, come la demolizione e ricostruzione di un elemento costruttivo.

Nel caso quindi che il rinnovamento delle superfici sia collegato ad un’operazione di miglioramento dell’efficienza energetica, la normativa di riferimento è quella dell’Ecobonus al 65%, che ha importi massimi diversi in base al tipo di intervento.

Ma chi può fruire dell’agevolazione fiscale e per quali tipologie di intervento? Ad usufruire delle agevolazioni possono essere i proprietari degli immobili, i titolari di diritti reali di godimento (come ad es. uso e usufrutto), i locatari/affittuari degli immobili oggetto degli interventi ed i loro familiari e coniugi.

Gli interventi interessati ad agevolazione fiscale sono, come già detto in precedenza, tutti i lavori di manutenzione straordinaria per opere di restauro e risanamento conservativo o per lavori di ristrutturazione edilizia effettuati sulle singole unità immobiliari residenziali.

Gli interventi di manutenzione ordinaria, invece, sono ammessi solo se riguardano parti di edifici residenziali. Oppure per interventi necessari al ripristino degli immobili danneggiati da eventi calamitosi ma solo se sia stato dichiarato lo stato d’emergenza.

Per quanto riguarda l’Imposta sul Valore Aggiunto, alcuni tipi di pavimentazione sono considerati come materie prime e semilavorati, come ceramiche, piastrelle, parquet e laminati e sono quindi soggetti ad aliquota ordinaria senza alcuna agevolazione.

Altri tipi di pavimentazione, invece, sono considerati beni finiti, questo significa che, in presenza di determinati requisiti, il loro acquisto è assoggettato all’aliquota agevolata del 4% o del 10%.

I requisiti per l’IVA agevolata sono: costruzioni di prima casa non di lusso (4%), costruzioni rurali destinate ad uso abitativo (4%), interventi di restauro e risanamento (10%), ristrutturazioni urbanistiche (10%) e opere di urbanizzazione primaria e secondaria (10%).

Molto importante per quanto riguarda i pagamenti è che questi vengano effettuati in modo tale che rimangano tracciati, quindi tramite bonifico parlante, postale o bancario, sul quale devono risultare la causale del versamento, il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il codice fiscale o numero di partita IVA del beneficiario del pagamento.

Condominio con debiti: cosa rischia chi ha pagato le quote?

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Il creditore del condominio può chiedere il saldo delle fatture al condomino che ha già pagato la sua quota?

Come in tutti i condomìni, anche nel tuo c’è chi non paga le quote all’amministratore. Quest’ultimo ha già avviato le procedure per il recupero degli insoluti, dando incarico ad un avvocato di sua fiducia. Nello stesso tempo però alcuni dei creditori non sono stati onorati e ora minacciano azioni legali. A bussare alla porta è innanzitutto la ditta di pulizie, che ha già notificato un decreto ingiuntivo; c’è poi quella addetta alla manutenzione dell’ascensore. A breve scatterà anche la sospensione della fornitura della luce nelle scale. C’è bisogno di trovare in fretta una soluzione e, per questo, l’amministratore ha indetto una riunione. In quella sede si è proposto di stabilire un contributo straordinario a carico dei condomini presenti, contributo che servirà a coprire i buchi di bilancio. Tu però ti opponi: non ne vuoi sapere di versare di nuovo somme che hai già corrisposto con puntualità e precisione, tanto più se è per venire incontro a chi si disinteressa del proprio palazzo. L’amministratore però ti fa presente che, in caso di persistente morosità nei confronti dei fornitori, anche tu ne potresti subire le conseguenze. Potresti cioè essere oggetto di un pignoramento. L’affermazione ti suona strana e nuova. È davvero così? In caso di condominio con debiti, cosa rischia chi ha pagato le quote? È quanto scopriremo qui di seguito.

I creditori del condominio cosa possono fare?

Quando il condominio matura dei debiti, i creditori possono procedere alla notifica di un decreto ingiuntivo nei confronti del condominio stesso. Il decreto, che contiene un ordine di pagamento da parte del giudice, se non viene opposto nei successivi 40 giorni, diventa definitivo e autorizza il creditore a effettuare un pignoramento.

Il primo bene che di solito viene aggredito è il conto corrente condominiale. Se il conto dovesse essere capiente (ossia vi dovesse essere sufficiente denaro per coprire il credito), la procedura si fermerebbe lì e nessuno dei condomini rischierebbe nulla. Viceversa, in caso di insufficienza delle somme sul conto o qualora lo stesso risulti già pignorato da un altro creditore, il fornitore può decidere di procedere contro i singoli condomini. Ma, in particolare, contro chi? In prima battuta non contro tutti, ma solo contro quelli che non hanno pagato le quote condominiali relative alla fattura rimasta insoluta.

A tal fine, su richiesta del creditore, l’amministratore consegna a quest’ultimo un elenco con nomi e millesimi dei morosi. Tale comunicazione, in quanto prevista dalla legge, non è lesiva della privacy.

La successiva mossa la farà il creditore che, dopo aver verificato eventuali beni intestati ai morosi, procederà a un pignoramento nei loro confronti.

Ma ben potrebbe essere che i debitori del condominio non siano solvibili o che i beni a questi intestati (ad esempio lo stesso appartamento) siano stati già pignorati da altri creditori (magari lo stesso condominio per via della morosità).

Quando la riscossione contro i morosi è infruttuosa o impossibile, il creditore può agire contro tutti gli altri condomini, non importa se questi hanno già versato le proprie quote. In tal caso, quindi, il pignoramento verrà avviato contro i proprietari degli appartamenti che hanno già puntualmente versato le proprie quote mensili.

A ciascuno di questi non può essere chiesto più della propria quota millesimale. Quindi, ad esempio, per un debito di 10mila euro, chi ha 100 millesimi può subire un pignoramento di massimo mille euro.

Cosa rischia chi ha già pagato le proprie quote condominiali?

Quindi, in caso di debiti del condominio, chi ha già pagato le quote rischia un pignoramento solo nella misura in cui i creditori non siano riusciti a recuperare le proprie somme dai morosi. Ipotesi quest’ultima tutt’altro che improbabile atteso che, di solito, chi non paga le quote è già vittima del pignoramento avviato da parte dell’amministratore.

C’è poi un altro aspetto da considerare. Se l’amministratore volesse proporre la creazione di un fondo apposito per coprire i buchi dei morosi, questo può “passare” solo con il consenso dell’unanimità di tutti i condomini. Per cui basterebbe anche un solo diniego per impedire la riscossione delle quote. Se l’assemblea però dovesse ugualmente votare la costituzione del fondo morosi a maggioranza, la delibera va impugnata entro 30 giorni; diversamente si sana e allora bisognerà pagare.

Chiaramente l’ultimo e più banale aspetto di questa vicenda – che potrebbe apparire paradossale per chi rispetta i debiti – è che chi ha già pagato le quote, in presenza di debiti del condominio potrebbe subire i disservizi che da ciò possono derivare come l’interruzione della luce condominiale, la mancata riparazione dell’ascensore, le scale sporche, la sospensione dell’acqua comune.

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