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Il comproprietario di un immobile abusivo è responsabile?

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La responsabilità penale per il reato di abusivismo può essere di tipo oggettivo? Chi non ha partecipato ai lavori e non ne era a conoscenza può essere condannato?

Immagina di aver ottenuto, in eredità da tua madre, metà della casa ove questa viveva e che l’altra quota sia andata a tuo fratello. Poiché questi ha sempre convissuto con i genitori, decidete di comune accordo che sia lui ad abitare l’immobile, preoccupandosi delle tasse e di tutte le spese ad esso inerenti. Nel tempo, tuo fratello effettua alcune modifiche all’interno e all’esterno dell’immobile, ma per alcune di queste non richiede la necessaria licenza edilizia al Comune. Insomma, commette un abuso edilizio. Abuso che non passa inosservato alla polizia municipale la quale, dopo una segnalazione, avvia il procedimento di contestazione dell’illecito e ne informa le autorità preposte. Ora ti trovi invischiato in una vicenda per la quale non hai colpa. Difatti la Procura della Repubblica ti ha inviato, in qualità di comproprietario, un rinvio a giudizio per l’illecito commesso da tuo fratello e su cui – a dire del pubblico ministero – avevi l’obbligo di vigilare. Come puoi essere assolto per una condotta che non hai commesso? Il comproprietario di un immobile abusivo è responsabile? 

La stessa questione, da un punto di vista giuridico, si può porre anche in un altro tipico caso dei nostri giorni. Immagina che il proprietario di una casa, su cui ha realizzato delle opere abusive, deceda e lasci, come unica erede, la moglie. Quest’ultima, che non ha mai badato alle questioni burocratiche dell’immobile, si trova sul più bello a dover affrontare un processo penale per l’abusivismo commesso a suo tempo dal marito e di cui non era partecipe né consapevole. Anche in questa situazione il quesito è il medesimo: il comproprietario di un immobile abusivo è responsabile?

La questione è stata decisa dalla Cassazione [1] con una recente e interessante sentenza. Vediamo cosa hanno detto i giudici supremi in questa occasione.

Le sanzioni per l’abuso edilizio

Chi commette un abuso edilizio è tre volte responsabile.

Da un punto di vista penale, chi ha eseguito l’opera senza richiedere le autorizzazioni amministrative (laddove necessarie) commette un reato per il quale può essere processato non oltre quattro anni da quando ha ultimato la costruzione. Se riceve un rinvio a giudizio il termine diventa di cinque anni. Il procedimento culmina con la condanna, l’applicazione delle sanzioni penali e l’ordine di demolizione. 

Da un punto di vista amministrativo, il titolare dell’immobile (che quindi potrebbe essere anche un soggetto diverso da chi ha eseguito l’opera abusiva, come nel caso di successiva vendita) subisce l’ordine di demolizione. A differenza della condanna penale, quest’ordine non va mai in prescrizione e può essere impartito in qualsiasi momento. La presentazione di una domanda di concessione in sanatoria non blocca l’ordine di demolizione a meno che non vi siano valide ragioni per ritenere che l’istanza presentata dal proprietario venga tempestivamente accolta dal Comune (di tanto abbiamo già parlato nell’articolo Ordine di demolizione di abuso edilizio con sanatoria in corso).

Infine ci sono le conseguenze civili. Queste possono essere di vario tipo. Ad esempio, se l’abuso arreca un danno al vicino di casa, questi può chiedere – in un processo civile – non solo la demolizione della costruzione ma anche il risarcimento del danno. Se invece la casa con l’abuso viene venduta e il compratore non viene reso edotto dell’irregolarità il contratto può essere “sciolto” con obbligo a risarcire anche i danni (di tanto abbiamo parlato nell’articolo Si può vendere un immobile con abuso edilizio?)

La responsabilità del comproprietario per l’abuso edilizio

La responsabilità civile e amministrativa per l’abuso edilizio spettano al proprietario della costruzione, a prescindere dal fatto che questi sia o meno l’artefice dell’illecito. Per cui se Romolo, iniziale proprietario di un appartamento, realizza una veranda senza la licenza edilizia e poi vende l’immobile a Ginevra, quest’ultima potrà ricevere l’ordine di demolizione, né potrà vendere se non ha prima informato dell’irregolarità il futuro acquirente.

Al contrario, la responsabilità penale è sempre personale: significa che nessuno può essere chiamato a rispondere per un illecito che hanno commesso altre persone. Ci sono delle eccezioni: è il caso di chi ha una posizione di garante o ha l’obbligo di impedire che un dato fatto venga commesso. Ad esempio, il genitore è responsabile dei reati commessi dal bambino piccolo su cui ha il dovere di vigilare.

Ritornando al problema della possibile corresponsabilità del comproprietario di un immobile con un abuso edilizio, bisogna comprendere se a questi possa essere attribuita una funzione di supervisore degli illeciti commessi dall’altro comproprietario per estendere su di lui le conseguenze penali del reato. 

Ecco a riguardo cosa ha detto la Cassazione. La Corte coglie l’occasione per ripercorrere l’attuale posizione della giurisprudenza in tema di responsabilità del proprietario e/o comproprietario non committente delle opere abusive. 

Il comproprietario che non ha commissionato le opere abusive non ne è responsabile penalmente solo perché vanta una quota in comproprietà sul bene oggetto dei lavori, né va punito per non avere vigilato sul rispetto della normativa edilizia. La sua responsabilità dovrà semmai essere dedotta da ulteriori indizi, da prove certe che dimostrino la sua compartecipazione – materiale o anche solo morale – nel reato. In altre parole bisogna dimostrare che il comproprietario era consapevole degli abusi e li ha consentiti. Nell’esempio dei due fratelli si potrebbe verificare tale situazione se chi ha eseguito i lavori ha prima chiesto l’autorizzazione all’altro o se quest’ultimo era presente nel momento in cui sono state realizzate le opere o ha utilizzato l’immobile.

Le ragioni che hanno spinto la Cassazione a pervenire a tale soluzione sono semplici: la nostra legge mal tollera le ipotesi di responsabilità penale oggettiva; di conseguenza la colpevolezza deve necessariamente essere preceduta dalla presenza di indizi sintomatici di un contributo penalmente rimproverabile, quantomeno a titolo di colpa.


Denunciare affitto in nero senza prove

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Contratto di locazione non registrato: l’inquilino può denunciare alla guardia di finanza il padrone di casa?

Immagina di aver vissuto in un appartamento in affitto per diversi anni. Il proprietario di casa non ha mai voluto registrare il contratto; sostiene di aver agito in tal modo anche nel tuo interesse, per applicarti un canone più basso. Hai accettato questa situazione irregolare e hai pagato il mese sempre in contanti.  A qualche settimana dalla scadenza dell’affitto, il locatore ha fatto una ricognizione dell’immobile e ha trovato alcuni danni per i quali ti ha chiesto di essere risarcito. Ne è nata una lite. Come reazione, hai intenzione di denunciarlo alla finanza per l’evasione fiscale commessa durante tutti questi anni. Tuttavia, avendo già riconsegnato le chiavi dell’immobile, non hai modo di dimostrare la tua affermazione. Ti chiedi pertanto come denunciare un affitto in nero senza prove. A occuparsi di questa, tutt’altro che isolata, situazione è stata la giurisprudenza.

Un sentenza della Commissione Tributaria del Lazio [1], pubblicata proprio in questi giorni, si preoccupa di tracciare le linee guida per gli accertamenti fiscali su contatti di locazione non registrati. La pronuncia stabilisce quando il fisco può ritenere dimostrata l’evasione e quando, invece, non ci sono elementi sufficienti per procedere nei confronti del padrone di casa. Di tanto ci occuperemo nell’articolo che segue.

Affitto in nero: chi rischia?

L’affitto in nero, ossia quello (scritto o verbale che sia) non registrato all’Agenzia delle Entrate costituisce una duplice evasione fiscale: la prima è relativa all’imposta di registro che bisogna versare all’atto della registrazione; la seconda è relativa all’Irpef che viene calcolata sui canoni di affitto.

Per quanto riguarda l’omessa registrazione del contratto, ad essere responsabili per l’evasione dell’imposta di registro sono sia il proprietario che l’inquilino. Benché la legge ponga solo in capo al primo l’obbligo di effettuare la registrazione entro 30 giorni dalla stipula della scrittura privata, il secondo è coobbligato in solido. Ciò significa che se il locatore non versa l’imposta, l’Agenzia delle Entrare può chiederne il pagamento anche al conduttore. E ad entrambi arriverà la cartella esattoriale in caso di ulteriore inadempimento. Questo fa sì che l’affittuario può, in qualsiasi momento, sostituirsi al padrone di casa e registrare per conto proprio il contratto, salvo poi chiedere la restituzione degli importi versati all’erario.

Per quanto invece riguarda l’omessa indicazione dei canoni di locazione nella dichiarazione dei redditi e quindi l’evasione dell’Irpef, la responsabilità è solo del proprietario dell’immobile; né potrebbe essere altrimenti visto che il canone è per lui un utile.

Si può denunciare un affitto in anonimo?

Abbiamo spesso trattato il problema delle denunce anonime alla Guardia di Finanza o all’Agenzia delle Entrate. La legge non consente alle autorità di accettare denunce prive di sottoscrizione (tanto è vero che tutti i moduli da compilare presentano l’apposito spazio per la sottoscrizione), ma nulla toglie che una lettera spedita all’indirizzo dell’amministrazione finanziaria possa generare sospetti in chi la apre e determinare l’avvio di un procedimento. In quest’ottica è possibile denunciare un affitto in nero in forma anonima, ma con una serie di preclusioni. Il grosso limite delle verifiche avviate da segnalazione anonima è costituito da una limitazione nei poteri di indagine. Ad esempio non è possibile svolgere perquisizioni o accessi nell’abitazione del contribuente visto che, per essi, è necessario ottenere la previa autorizzazione del Magistrato il quale però, in assenza di gravi prove (e tale non è una lettera anonima), non può mai concederla. Inoltre una segnalazione anonima non garantisce alcun avvio delle indagini.

L’inquilino può denunciare l’affitto in nero senza prove?

La sentenza che abbiamo citato in apertura sostiene un principio tanto chiaro quanto giusto: non si può avviare un accertamento fiscale per un affitto in nero sulla base di una semplice dichiarazione verbale. Ad esempio, se l’affittuario si reca al comando della Guardia di Finanza o all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate a denunciare l’omessa registrazione del contratto e l’evasione fiscale commessa dal proprietario, quest’ultimo non rischia un atto impositivo se non ci sono altre prove a confermare l’illecito. Di quali prove si tratta? Devono essere per forza prove documentali. Solo con queste l’inquilino può denunciare l’affitto in nero. Ecco alcuni esempi:

  • l’estratto conto da cui si evince il passaggio di denaro mensile dal conduttore al locatore;
  • le copie degli assegni eventualmente versati al posto del bonifico bancario;
  • le quietanze di pagamento sottoscritte dal locatore al ricevimento dei soldi in contanti del canone mensile;
  • le bollette delle utenze intestate all’inquilino come quelle della luce e del gas.

Come denunciare un affitto in nero

Per denunciare un affitto in nero si può inviare una segnalazione all’Agenzia delle Entrate.

In alternativa è possibile rivolgersi alla Guardia di Finanza, compilando e consegnando il modulo di esposto scaricabile dal sito della Guardia di Finanza (per scaricare il modulo clicca qui: Esposto affitti in nero). In tal caso, per denunciare l’affitto in nero bisognerà fornire le proprie generalità.

Ipoteca fiscale: cos’è e come funziona

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Come e quando l’Agenzia delle Entrate e l’agente della riscossione possono pignorare l’immobile o la prima casa del contribuente che non ha pagato avvisi di accertamento o cartelle esattoriali.

Chi ha debiti con l’Agenzia delle Entrate teme spesso di subire un’ipoteca fiscale, situazione questa che, se anche non implica necessariamente l’espropriazione e la vendita all’asta del bene, costituisce comunque un peso. Difatti chi vuol vendere una casa con l’ipoteca, cede anche l’ipoteca e il creditore – in questo caso il fisco – potrà, in qualsiasi momento, rivalersi sull’immobile anche se il proprietario è cambiato. Chi, dunque, acquisterebbe mai un appartamento con il rischio di vederselo pignorare a causa di un debito altrui? Ecco perché, in situazioni come queste, si eseguono contestualmente due operazioni diverse: da un lato il compratore versa il prezzo al venditore e contestualmente quest’ultimo utilizza una parte di tale prezzo per estinguere l’ipoteca, saldando il conto in sospeso con l’Agenzia delle Entrate. Al di là di ciò, per capire cos’è e come funziona l’ipoteca fiscale, quando può essere iscritta sugli immobili dei contribuenti e soprattutto quali vincoli comporta, abbiamo stilato questa guida.

Ipoteca fiscale: cos’è e a cosa serve?

Come dice la parola stessa, l’ipoteca fiscale è quella che iscrive il fisco sui beni del debitore che, evidentemente, non ha pagato le tasse e ha un “conto arretrato”. Di solito, si ricorre all’ipoteca come ultima spiaggia, quando le altre misure – meno penetranti – sono impossibili (il pignoramento del conto, il fermo auto, il pignoramento del quinto dello stipendio, ecc.).

Contrariamente a quanto spesso si crede, l’ipoteca – e dunque anche l’ipoteca fiscale – non è un atto del pignoramento e non serve per espropriare la casa per metterla all’asta. Non è, insomma, una fase dell’esecuzione forzata. Essa è invece solo uno strumento utilizzato per garantire il creditore da eventuali atti fraudolenti del debitore. Quest’ultimo, ad esempio, sapendo di avere un debito e di non poterlo pagare, potrebbe intestare i propri beni ad altri soggetti (ad esempio un figlio, il coniuge, un parente o un amico) al fine di sottrarre ai creditori la loro principale garanzia: quella immobiliare. Così l’ipoteca serve proprio a mettere una sorta di “prenotazione” sul bene: con questa semplice operazione – che consiste in una trascrizione dell’ipoteca nei pubblici registri immobiliari – chiunque acquisterà la casa, il terreno, ecc. gravato dall’ipoteca lo riceverà con l’ipoteca stessa. Risultato: nonostante il passaggio di proprietà, il creditore (nel nostro caso, l’Agenzia delle Entrate o l’agente della riscossione) potrà pignorare il bene. Non solo: il creditore con l’ipoteca si soddisfa per primo, rispetto a tutti gli altri creditori, sul ricavato della vendita. Ad esempio: se una persona ha debiti con tre soggetti e uno di questi è l’agente della riscossione esattoriale che ha iscritto un’ipoteca fiscale di «primo grado», una volta messo all’asta e aggiudicato l’immobile, il ricavato andrà innanzitutto a coprire tutto il credito dell’esattore e poi il residuo servirà per estinguere, in proporzione, gli altri due creditori senza ipoteca.

Sinteticamente possiamo descrivere l’ipoteca come quello strumento che garantisce al fisco il diritto di espropriare, anche nei confronti del terzo acquirente, i beni immobili vincolati a garanzia del credito e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dall’espropriazione.

Quando si parla di ipoteca fiscale ci si riferisce, propriamente, all’ipoteca posta dall’Agenzia delle Entrate (vedremo a breve le condizioni). Da essa dobbiamo quindi tenere distinta la più nota ipoteca esattoriale che è invece quella iscritta dall’Agenzia Entrate Riscossione (ossia dall’agente della riscossione esattoriale).

In realtà, non c’è alcuna differenza in merito alle funzioni, finalità e conseguenze delle due misure: cambiano solo i soggetti. Ne parleremo qui di seguito.

Ipoteca fiscale dell’Agenzia delle Entrate: le fasi

L’ipoteca fiscale è quella che può iscrivere l’Agenzia delle Entrate su qualsiasi immobile del contribuente.

A differenza dell’ipoteca esattoriale – quella cioè iscritta dall’agente della riscossione – non presuppone necessariamente la notifica di una cartella di pagamento bensì può avvenire anche in caso di notifica di un avviso di accertamento o in presenza del ruolo (anche se non definitivo perché impugnato).

Per poter iscrivere l’ipoteca fiscale sono necessari cinque passaggi:

  • notifica del titolo esecutivo (avviso di accertamento, cartella di pagamento, sentenza di condanna della commissione tributaria) a prescindere se impugnato davanti al giudice;
  • decorso del termine per il pagamento: 30 giorni per l’avviso di accertamento esecutivo; 60 giorni per le cartelle di pagamento;
  • notifica del preavviso di ipoteca;
  • decorso di altri 30 giorni
  • iscrizione dell’ipoteca.

L’Agenzia delle Entrate può iscrivere ipoteca per un importo pari al doppio dell’importo complessivo del credito per cui procede.

Inoltre, in base all’articolo 22 del Dlgs 472/1997, dopo la notifica di un atto di contestazione, di un provvedimento di irrogazione della sanzione o di un Pvc, l’Agenzia delle Entrate, se ha il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può chiedere, con istanza motivata, al presidente della Commissione Tributaria Provinciale, l’iscrizione di ipoteca sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido, e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda.

Queste misure cautelari possono essere adottate anche prima dell’emissione dell’atto impositivo per impedire che il trasgressore disperda il patrimonio sottraendo in tal modo garanzie reali allo Stato.

Ipoteca fiscale: presupposti

Decorso, dunque, il termine di pagamento per l’atto impositivo, l’Agenzia Entrate ha facoltà (non è quindi un obbligo e non scatta pertanto in automatico) di iscrivere l’ipoteca sugli immobili del contribuente. Ma solo a condizione che il debito sia pari o superiore a 20mila euro. Per i debiti inferiori, il fisco dovrà adottare altre forme di pignoramento, salvo il caso di recupero di rate per l’adesione ai condoni in cui il limite per l’iscrizione dell’ipoteca è di 5mila euro.

Se il debito è pari o superiore a 20mila euro ma inferiore a 120mila euro, l’Agenzia delle Entrate può iscrivere l’ipoteca, ma non può procedere al pignoramento. L’ipoteca resta quindi una misura di coercizione più psicologica se il debitore non ha intenzione di vendere l’immobile. Certo è che, se qualche altro creditore dovesse pignorare e mettere all’asta lo stesso bene ove vi è già l’ipoteca fiscale, l’Agenzia delle Entrate parteciperebbe alla divisione del ricavato con prelazione rispetto agli altri creditori.

Se il debito è pari o superiore a 120mila euro, l’Agenzia delle Entrate può iscrivere l’ipoteca e dopo procedere al pignoramento.

Quindi a rischiare è solo chi ha debiti pari o superiori a 120mila euro. Ma siccome il fisco non può rifiutare pagamenti parziali dal contribuente, chi ha un debito ad esempio di 130mila euro, versandone solo 11mila, evita anche il rischio del pignoramento.

Non si può procedere a pignoramento se prima non si iscrive l’ipoteca, nel rispetto della procedura appena elencata.

Ipoteca fiscale sulla prima casa

L’Agenzia delle Entrate può iscrivere l’ipoteca fiscale anche sulla prima casa. Difatti, il divieto volto a tutelare l’unico immobile di residenza, adibito a civile abitazione e non di lusso riguarda solo il pignoramento. Ad esempio, se un contribuente ha solo una casa, vi vive dentro e vi ha la residenza, non è accatastata in A/8 e A/9, e ha un debito superiore a 20mila euro, può subire l’ipoteca, ma non può mai subire il pignoramento (neanche se il debito fosse superiore a 120mila euro).

Su quali beni si può iscrivere l’ipoteca fiscale

L’AdR può iscrivere ipoteca sui beni del debitore e dei coobbligati.

In generale, l’ipoteca è legittima su:

  • i beni immobili che sono in commercio con le loro pertinenze (in proprietà piena o nuda);
  • l’usufrutto dei beni stessi;
  • il diritto di superficie;
  • il diritto dell’enfiteuta e quello del concedente sul fondo enfiteutico;
  • le navi, gli aeromobili e gli autoveicoli, secondo le leggi che li riguardano.

Come avviene l’iscrizione dell’ipoteca fiscale

L’ipoteca fiscale richiede innanzitutto la notifica di un preavviso di ipoteca. Il preavviso deve dare 30 giorni di tempo per pagare. In caso di omesso versamento del dovuto può quindi scattare l’ipoteca fiscale.

Di recente, la Cassazione ha confermato che [1], in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’amministrazione finanziaria prima di iscrivere l’ipoteca sui beni immobili deve comunicare al contribuente che procederà all’iscrizione concedendogli un termine di 30 giorni per presentare osservazioni o procedere con il pagamento. In caso contrario l’ipoteca è nulla.

Come abbiamo anticipato, prima della iscrizione dell’ipoteca è necessario aver notificato al contribuente l’atto impositivo con gli importi da corrispondere. Non è necessario che l’atto sia divenuto definitivo e dunque l’Agenzia Entrate vi può procedere anche se il contribuente l’ha impugnato ma non ha chiesto o non ha ottenuto la sospensione dell’atto. Se invece la Commissione Tributaria adita con l’impugnazione dell’atto o l’ente impositore in sede di autotutela hanno concesso la sospensione dell’esecuzione dell’atto impositivo, l’Agenzia non può iscrivere ipoteca.

Decorso un anno dalla notifica del titolo esecutivo (cartella di pagamento o accertamento esecutivo), se l’espropriazione non è iniziata, l’Agenzia delle Entrate prima di iniziare l’espropriazione, deve notificare al debitore un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro 5 giorni. In verità, secondo numerose sentenze, questo avviso è necessario solo prima di procedere al pignoramento e non anche all’ipoteca che non è – come abbiamo detto – un atto dell’esecuzione forzata.

Come evitare l’ipoteca fiscale con l’istanza di rateazione

Se il contribuente presenta istanza di rateazione del debito, l’Agenzia Entrate non può iscrivere ipoteca se non in caso di rigetto dell’istanza o di decadenza dal beneficio della rateazione. Per questi motivi, è importante che il contribuente presenti istanza di dilazione prima del decorso del termine di pagamento, posto che, in detto lasso temporale, l’ipoteca non può essere iscritta. Il contribuente potrebbe presentare l’istanza anche dopo la notifica del preavviso di ipoteca. L’eventuale ipoteca già iscritta prima della concessione della rateazione rimane valida.

Quando decade l’ipoteca fiscale

L’ipoteca perde efficacia nei seguenti casi:

  • adempimento del contribuente;
  • annullamento dell’iscrizione da parte del giudice tributario;
  • annullamento (in autotutela o ad opera del giudice) della cartella o dell’avviso di accertamento.

Inoltre, occorre considerare che in base alle disposizioni ordinarie, l’ipoteca si estingue:

  • con la cancellazione dell’iscrizione;
  • con la mancata rinnovazione dell’iscrizione entro il termine dell’art. 2847 c.c.;
  • con l’estinguersi dell’obbligazione;
  • con il perimento del bene ipotecato;
  • con la rinunzia del creditore;
  • con lo spirare del termine a cui l’ipoteca è stata limitata o col verificarsi della condizione risolutiva;
  • con la pronunzia del provvedimento che trasferisce all’acquirente il diritto espropriato e ordina la cancellazione delle ipoteche.

L’ipoteca della Guardia di Finanza

Oltre all’Agenzia delle Entrate, può iscrivere l’ipoteca fiscale anche la Guardia di Finanza. La legge prevede [2] che il comandante provinciale della Guardia di Finanza, in relazione ai processi verbali di constatazione rilasciati dai reparti dipendenti, possa presentare istanza motivata, al presidente della Commissione Tributaria per l’iscrizione di ipoteca sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido, e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda.

La GdF dovrà dare tempestiva comunicazione alla direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate, la quale esaminerà l’istanza e comunicherà le proprie eventuali osservazioni al presidente della commissione tributaria, nonché al comandante provinciale richiedente.

Decorso il termine di 20 giorni dal ricevimento dell’istanza, si intenderà acquisito il parere dell’Agenzia.

In presenza di tali istanze, le Fiamme Gialle dovranno fornire all’Agenzia, ogni elemento utile ai fini dell’istruttoria e della partecipazione alla procedura.

L’istanza di sequestro e/o ipoteca è subordinata sostanzialmente alla sussistenza di due requisiti:

  • il fumus boni iuris ossia l’esistenza di un debito tributario a carico del contribuente derivante da un provvedimento dell’amministrazione (atto di contestazione, irrogazione sanzione, Pvc);
  • il periculum in mora, ossia il fondato timore, da parte dell’amministrazione, di perdere la garanzia del credito. Deve trattarsi di un timore attuale e non potenziale desumibile sia da dati oggettivi, come la consistenza e le caratteristiche del patrimonio del contribuente, sia da dati soggettivi valutando cioè la condotta del debitore.

L’ipoteca esattoriale dell’Agenzia delle Entrate Riscossione

L’ipoteca iscritta dall’agente della riscossione è identica nei presupposti a quella fiscale dell’Agenzia Entrate. Ripetiamo qui di seguito quindi gli elementi essenziali:

  • può essere iscritta solo se prima viene notificata la cartella di pagamento;
  • dalla notifica della cartella di pagamento devono decorrere 60 giorni;
  • se in questi 60 giorni il contribuente presenta istanza di rateazione o anche dopo la loro scadenza ma prima dell’effettiva iscrizione dell’ipoteca, l’ipoteca non può più avvenire;
  • dopo il decorso dei 60 giorni, ed almeno 30 giorni prima di iscrivere l’ipoteca, l’agente della riscossione deve notificare un preavviso di ipoteca;
  • dopo 30 giorni dal preavviso di ipoteca si può iscrivere l’ipoteca anche se la cartella è stata impugnata (e sempre che il giudice non l’abbia sospesa);
  • l’ipoteca si può iscrivere a condizione che il debito sia pari o superiore a 20mila euro; se poi è superiore a 120mila euro, oltre all’ipoteca è possibile anche il pignoramento dell’immobile (altrimenti resta ferma solo l’ipoteca);
  • l’ipoteca si può iscrivere anche sulla cosiddetta “prima casa” (ossia l’unico immobile di proprietà del debitore, adibito a civile abitazione di residenza, non accatastato A/8 e A/9), ma su di essa non è mai possibile il pignoramento, anche se il debito supera 120mila euro;
  • non si può procedere a pignoramento se prima non si iscrive l’ipoteca, nel rispetto della procedura appena elencata;
  • si può iscrivere ipoteca anche sui beni inseriti nel fondo patrimoniale se si tratta di debiti fiscali collegati alla famiglia (ad esempio imposte sulla casa) o sul lavoro (ad esempio imposte sui redditi);
  • si può iscrivere l’ipoteca per un importo non superiore al doppio del valore del credito per il quale si procede; di conseguenza, è illegittima l’iscrizione ipotecaria quando il valore del bene sottoposto al provvedimento è sproporzionata rispetto al credito vantato, ed in particolare superiore rispetto al doppio del credito.

Se un condomino si fa male l’amministratore è responsabile?

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L’amministratore che non mantiene le parti comuni in buono stato di manutenzione risponde penalmente della caduta del condomino.

Alla fine qualcuno c’è caduto! È da diverse settimane, anzi mesi, che tu e gli altri condomini state segnalando all’amministratore un problema alla grata di aerazione posta in prossimità del portone: in buona sostanza, traballa. Anche se tutti ne sono al corrente, la collocazione dell’ostacolo lo rende particolarmente insidioso. Prova ne è il fatto che una vecchietta del primo piano vi ha inciampato ed è caduta a terra. Il palazzo non è assicurato e ora la donna vuole giustamente essere risarcita. Ma, a suo avviso, è necessario agire anche contro l’amministratore che, pur sapendo del pericolo, non si è mai attivato per farla riparare. Alcuni proprietari lo proteggono e non vogliono revocarlo. Ma l’infortunata è ferma nel suo proposito (come darle torto! Dovrà stare almeno un mese ferma e un altro in terapia riabilitativa). Di qui il quesito legale: se un condomino si fa male, l’amministratore è responsabile?

Per ogni dubbio o questione giuridica c’è quasi sempre un precedente della giurisprudenza. E quando si tratta di una sentenza della Cassazione, come in questo caso, la decisione assume più importanza. Non è certo “forte” come una legge, ma serve quantomeno ad orientare i successivi giudici nella corretta direzione nonché a chiarire ai cittadini qual è l’interpretazione da dare alle norme di legge.

In una vicenda recente la Suprema Corte si è occupata proprio di un caso identico a quello appena narrato. Ma, a sorpresa, la questione non ha invaso solo gli aspetti civilistici e risarcitori, ma anche quelli penali. In pratica, ai giudici è stato chiesto se commette reato l’amministratore che non provvede alla manutenzione delle parti comuni dell’edificio, consentendo così che qualcuno si faccia male. Ecco qual è la sintesi della decisione.

Leggi anche Caduta scale condominio: risarcimento, assicurazione, responsabilità

Esistono due norme del codice civile che danno un’idea di come affrontare il problema. Con una prima disposizione [2] il codice attribuisce all’amministratore l’obbligo di provvedere alla manutenzione delle parti comuni (come scale, pianerottoli, androne, giardino). Egli ne è pertanto il custode. Con una seconda norma [3], la legge attribuisce al custode una “responsabilità oggettiva” (che prescinde cioè da una colpa o dalla malafede) per tutti i danni causati a terzi dalla cosa (in questa ipotesi si tratta degli spazi comuni dell’edificio).

L’amministratore, per evitare l’addebito di responsabilità, deve provare che il danno è scaturito da un caso fortuito, ossia un evento imprevedibile e inevitabile (non solo il classico terremoto o il fulmine, ma anche la distrazione dell’infortunato che, pur potendosi accorgere del pericolo, non lo ha evitato).

Per ottenere il risarcimento del danno, il danneggiato deve avviare una causa civile e dimostrare che l’insidia non era nota né facilmente individuabile con l’ordinaria diligenza. Deve poi provare di essere caduto a causa dell’insidia stessa (e non per altre ragioni come, ad esempio, una buccia di banana o un laccio della scarpa slacciato). Deve infine dimostrare l’entità dei danni subiti (certificati medici e scontrini di medicinali, in questa fase, sono essenziali).

Ma oltre all’azione civile, il danneggiato può anche intraprendere un’azione penale contro l’amministratore, responsabile in tal caso del reato di lesioni colpose. In tale ipotesi, l’iniziativa processuale non è della parte, ma del pubblico ministero che sostiene l’intero onere dell’accusa. La vittima, costituendosi parte civile, può esercitare, gratuitamente, la sua azione di responsabilità nei confronti dell’accusato. In buona sostanza, con una denuncia, l’infortunato può avviare un giudizio nell’ambito del quale quantomeno ottenere una provvisionale per il risarcimento.

La Cassazione non ha fatto altro che confermare le predette circostanze: l’amministratore che non cura la manutenzione delle parti comuni dello stabile è responsabile penalmente per gli infortuni subìti da terzi. Il reato, come anticipato, è quello di lesioni colpose.

Il giudice dichiarerà la negligenza, imprudenza e imperizia dell’amministratore che ha omesso di provvedere alla manutenzione della parte comune che presentava l’insidia. Il giudizio di responsabilità sarà tanto più scontato quanto più si riesce a dimostrare che il pericolo sussisteva già da diverso tempo e che l’amministratore era stato informato di ciò.

Nessuna speranza, quindi, per l’amministratore, di evitare la condanna definitiva per il reato e il pagamento del risarcimento alla parte lesa che si è costituita parte civile.

Se il cortile copre i garage dei condomini chi paga le spese?

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Rifacimento della pavimentazione del cortile condominiale che funge da copertura dei box auto privati: quale criterio di ripartizione delle spese?

Nel tuo condominio c’è un’ampio cortile che funge, nello stesso tempo, da copertura ai box auto privati. Questi ultimi infatti sono ricavati sotto il suolo e da questo sono protetti. Il cortile chiaramente è del condominio mentre i locali sotterranei appartengono ad alcuni condomini. Ora però la pioggia ha creato delle infiltrazioni tra le mattonelle e l’acqua sta scendendo fin sotto i garage. È necessario incaricare una ditta dei lavori e procedere alla ripartizione delle spese. Ma come sempre, quando c’è da pagare, i condomini iniziano a litigare su come il costo debba essere ripartito tra di loro. C’è chi ritiene che tutti debbano contribuire e chi, invece, sostiene che i proprietari dei box, in quanto doppiamente avvantaggiati dalla copertura, debbano partecipare in misura superiore. Quale delle contrapposte schiere ha ragione? Se il cortile copre i garage dei condomini chi paga le spese?

La questione, che riguarda numerosi condomini, è stata decisa questa mattina dalla Cassazione. La crisi dei posti auto costringe infatti sempre più spesso i costruttori a ricavare spazi tra le fondamenta dell’edificio, al di sotto del piano di calpestio del giardino condominiale. Così, con una ordinanza di poche ore fa [1], la Corte – ribadendo un principio già espresso in passato – ha stabilito a carico di chi debbano essere poste le spese di manutenzione della copertura ai locali interrati di proprietà esclusiva.

Quando il cortile condominiale, di proprietà quindi di tutti i condomini, fa da copertura ai garage sotterranei di proprietà esclusiva, le spese relative alla manutenzione del piano di calpestio (che nello stesso tempo è anche copertura ai locali interrati) sono interamente a carico del condominio. L’amministratore pertanto dovrà dividere il costo tra i condomini secondo i rispettivi millesimi.

A prevedere tale regola è il codice civile [2]: una norma dispone infatti che le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, tuttavia resta a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.

Non si può quindi applicare la disciplina in materia di lastrico solare [3] in base alla quale, invece, «quando l’uso del lastrico non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno».

E infatti – si legge nella pronuncia in commento – qualora si debba procedere «alla riparazione del cortile o viale di accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri» previsti per il lastrico solare ma si deve, invece, procedere a un’applicazione analogica della norma che accolla per intero le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore a chi, con l’uso esclusivo della stessa, determina la necessità della manutenzione.

Il principio non è nuovo. Già in passato la Suprema Corte aveva chiarito i medesimi principi [4]. E sempre la Cassazione ha detto che «Il criterio di ripartizione delle spese di manutenzione straordinaria del cortile condominiale, che assolva anche alla funzione di copertura del sottostante piano interrato, va individuato in funzione delle opere che, concretamente, devono essere realizzate. Nel caso in cui sia necessario procedere alla manutenzione della pavimentazione, i costi andranno ripartiti, in maniera proporzionale, tra tutti i condomini. I lavori relativi alla struttura, invece, andranno suddivisi in due quote, di cui la prima, a carico di tutti i condomini, e la seconda, a carico dei proprietari dei locali posti a piano interrato» [5]. E pertanto «Nell’ipotesi di lavori di manutenzione straordinaria limitati alla pavimentazione di un cortile condominiale, avente la funzione di dare aria e luce al condominio, di generico e indifferenziato calpestio e, altresì, di consentire l’accesso di veicoli, le relative spese vanno ripartite fra tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, mentre se detti lavori riguardano “anche” la struttura le relative spese vanno ripartire, invece, in parti eguali fra tutti i condomini contitolari del cortile, da un lato, e i proprietari esclusivi dei garage, dall’altro».

Locazione commerciale: recesso libero del conduttore

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Ho un contratto d’affitto di un locale commerciale con decorrenza 1.06.2006 (il conduttore è un istituto di credito che ha questi locali da 30 anni) che si è rinnovato per altri 6 anni cioè fino al 31.05.2024.Nel contratto è scritto che è facoltà della parte conduttrice recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso alla parte locatrice,almeno 6 mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione.Ora il conduttore nell’intento di abbassare l’affitto (se le parti concordano facendo un’integrazione) mi propone di fare un’integrazione al contratto (non un nuovo contratto che implicherebbe un 6+6) inserendo l’impegno-garanzia da parte sua a non recedere per 4 anni o a riconoscere in ogni caso 4 annualità ad un canone ribassato(di circa il 25%). È legale detta proposta del conduttore?

Alla luce del quesito posto, è opportuno esporre sinteticamente quanto segue:

– Il recesso del conduttore nella locazione commerciale

La nota legge sulle locazioni prevede una disposizione specifica all’interno della quale è regolato il diritto di recesso del conduttore [1]:

– In una prima parte è data la facoltà alle parti di riconoscere tale diritto, indipendentemente da ognimotivazione su cui il medesimo si possa fondare;

– In una seconda parte, invece, questo diritto di recesso è previsto come obbligatorio. In altri termini, al conduttore è consentito recedere in qualsiasi momento, salvo preavviso di sei mesi,qualora ricorrano dei gravi motivi. Si tratta di un diritto che le parti non hanno evidentemente facoltà di escludere o di regolare diversamente dalla suddetta previsione normativa.

In sostanza, in questo come in altri casi, si dice che la legge in materia ha stabilito una normaimperativa ovverossia una disposizione che, qualora violata dalle parti determina la nullità dellaclausola che l’ha contraddetta.

Si tratta, quindi, di diritti indisponibili sui quali i contraenti non possono mettere bocca.

Da rammentare, inoltre che proprio la legge citata specifica ed aggiunge che, in un contratto di locazione, sono nulli quei patti o quelle clausole che attribuiscono al locatore/proprietario un ingiusto vantaggio, in contrasto con quanto affermato dalla stessa legge [2].

CASO CONCRETO

La clausola con la quale il conduttore del contratto rinuncerebbe ad esercitare il proprio legittimo diritto di recesso per gravi motivi, sarebbe nulla per evidente contrasto con le disposizioni della legge in materia ed appena citatele in premessa.

Ove mai fosse prevista, la detta clausola sarebbe considerata come non apposta, per i seguenti motivi:

– per contrasto con una norma imperativa, cioè quella che riconosce, irrinunciabilmente, il diritto del conduttore di recedere dalla locazione, con un preavviso di sei mesi, in presenza di gravi motivi [3];

– per contrasto con la disposizione più generale della stessa legge, che sancisce la nullità dei patticon i quali, nella locazione, sarebbe attribuito al locatore/proprietario un ingiusto vantaggio [4].

Nel caso specifico, infatti, sarebbe evidente il vantaggio conseguito dal locatore, visto cheotterrebbe la possibilità di un contratto mai risolvibile o, in mancanza, eventualmente risoltoprevio pagamento di una sorta di penale e come, afferma la Cassazione citata in nota [4] …lanullità dei patti contrari alle disposizioni imperative della l. n. 392 del 1978, sanzionata dall’art.79 della stessa legge, si riferisce alle …convenzioni tendenti a escludere preventivamente i dirittidel conduttore

Pertanto, per queste ragioni, non ci sono a parere dello scrivente gli estremi per poter concordare e stipulare validamente una clausola come quella descritta in quesito.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv.Marco Borriello

Il regolamento di condominio

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Questo articolo spiega tutto sul regolamento condominiale e sugli obblighi che ne derivano per i singoli condomini.

Abiti in un condominio in cui, come spesso succede, i rapporti tra vicini sono piuttosto problematici. Di recente, hai avviato nel tuo appartamento dei lavori per effettuare delle piccole modifiche. Niente di impegnativo, anche perchè in questo momento non potresti far fronte alle spese necessarie per procedere a una ristrutturazione vera e propria. Un altro condomino, evidentemente infastidito dal rumore, incontrandoti ti ha detto che le opere che stai realizzando sono vietate dal regolamento di condominio. La cosa ti ha suscitato un po’ di perplessità, perchè non comprendi come possa essere limitato il diritto dei condomini ad effettuare lavori necessari nei loro appartamenti. Vorresti quindi conoscere meglio il regolamento di condominio, per tutelare le tue buone ragioni. Questo articolo spiega tutto quello che c’è da sapere sull’argomento. Vivere in condominio significa rispettare alcune regole, che sono poste nell’interesse di tutti. Alcune di esse sono previste direttamente dalla legge, altre dal regolamento di condominio. Si tratta di un documento, più o meno lungo, contenente la disciplina, sotto diversi aspetti, della vita condominiale. E’ importante conoscere come deve essere approvato o modificato il regolamento di condominio, se è possibile impugnarlo dopo l’approvazione, quali possono essere i suoi contenuti, quali i limiti, quali le varie tipologie previste dalla legge. Infatti, la conoscenza dei propri diritti è l’unico modo per tutelarli, specie in ambienti, come i condomini, in cui i contrasti e le discussioni sono frequenti.

Quali sono i possibili contenuti del regolamento condominiale?

La disciplina del regolamento di condominio è contenuta nel codice civile. Quest’ultimo stabilisce [1], innanzi tutto, che il regolamento è obbligatorio quando il numero di condomini è superiore a dieci. Nulla impedisce, ovviamente, che i condomini stabiliscano di avere un regolamento, anche se sono in numero inferiore.

Ma quali sono i contenuti che il regolamento deve avere? Eccoli:

  • le norme sull’uso delle cose comuni. Queste sono le parti dell’edificio necessarie per l’uso comune: per citarne alcune, il suolo sul quale sorge la costruzione e le varie parti di essa, le scale, i portoni di ingresso, i cortili, le facciate, i parcheggi, l’alloggio del portiere, la portineria, l’ascensore, il lastrico solare, i pozzi, le cisterne e molte altre [2]. Le cose comuni appartengono a tutti i condomini, e tutti possono utilizzarle; però è necessario che l’uso sia disciplinato, nell’interesse di tutti. Prendiamo ad esempio il parcheggio: il regolamento può stabilire che sia riservato solo ai condomini, con un posto auto ciascuno, per consentirne il godimento da parte di tutti;
  • la ripartizione delle spese secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, che sarà proporzionata ai valori millesimali delle relative proprietà. Ogni appartamento o magazzino presente nell’edificio, infatti, può avere diverse caratteristiche in base alla metratura, al piano e ad altri paramentri, cui corrisponde un valore che viene riportato in apposite tabelle, dette, appunto, tabelle millesimali, e che vengono utilizzate come base per il calcolo dei contributi dovuti da ciascun condomino per le spese. Ad esempio, chi abita al pianterreno contribuirà alle spese di manutenzione dell’ascensore in misura inferiore rispetto a chi abita al terzo piano;
  • le norme per la tutela del decoro dell’edificio o decoro architettonico. Esso consiste nelle linee e nei motivi architettonici che contraddistinguono la costruzione e che imprimono ad essa una determinata fisionomia;
  • le regole riguardanti l’amministrazione, che, come vedremo più avanti, non possono comunque derogare ad alcune norme contenute nel codice civile.

Quali sono i limiti al contenuto del regolamento condominiale?

Quelle di cui ti ho finora parlato sono le prescrizioni che il regolamento deve necessariamente contenere. Ma ci sono anche dei limiti [3] ai contenuti che il regolamento può avere. Esso infatti:

  • non può menomare i diritti dei singoli condomini, per come risultano dai singoli atti di acquisto e dalle convenzioni. In linea di principio, infatti, ogni condomino ha il diritto di godere del proprio appartamento, e di utilizzarlo come meglio ritiene. Non è possibile, ad esempio, che il regolamento vieti di utilizzare gli appartamenti come uffici o studi professionali: ciò costituirebbe una limitazione del diritto dei proprietari;
  • non può escludere uno o più condomini dal loro diritto sulle parti comuni [4]. Il regolamento non può stabilire, ad esempio, che uno o più condomini non possono adoperare l’ascensore, o il cortile condominiale, o il parcheggio;
  • non può disporre la divisione delle parti comuni, a meno essa possa farsi senza rendere scomodo l’uso delle parti stesse da parte dei condomini, e sempre che, in tal caso, essa venga approvato all’unanimità [5]. Prendiamo ad esempio un cortile condominiale. Esso appartiene a tutti i condomini, per quote differenti secondo il valore delle rispettive proprietà. essi ne godono in maniera indivisa: il cortile non è suddiviso in porzioni, una per ciascun appartamento, ma viene utilizzato per intero da tutti, secondo modalità che devono essere rispettose del diritto di ciascun condomino. Il regolamento, di norma, non può stabilire la sua suddivisione in porzioni, a meno che esso, per le sue caratteristiche, possa essere diviso senza renderne l’uso scomodo. Inoltre, la divisione dovrebbe essere approvata da tutti i condomini;
  • non può derogare a quanto stabilito dalla legge in materia di innovazioni. Il codice civile, infatti, stabilisce norme dettagliate in ordine alle opere finalizzate al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni. Ad esempio, la trasformazione di un cortile in giardino costituisce innovazione. Alcune innovazioni, come ad esempio quelle che alterano l’estetica dell’edificio, sono vietate. In ogni caso, per realizzarle è necessario che siano approvate da specifiche maggioranze. Il regolamento di condominio non può stabilire maggioranze diverse, oppure rendere possibili innovazioni vietate dalla legge [6];
  • non può derogare a quanto previsto riguardo alla nomina, alla revoca e agli obblighi dell’amministratore [7] e ai poteri di rappresentanza di quest’ultimo [8];
  • non può derogare alla disciplina riguardante il caso di dissenso di un singolo condomino rispetto alle liti [9]. Può succedere che l condominio debba intentare causa a qualcuno, o, viceversa, che subisca un’azione giudiziaria. Di solito, in questi casi, l’assemblea nomina un legale perché si occupi della difesa in giudizio. Può però succedere che un condomino non sia d’accordo con il fare causa: il codice civile, per questa ipotesi, stabilisce delle regole da rispettare, che non possono essere derogate dal regolamento condominiale;
  • non può derogare a quanto previsto dalla legge in ordine alla valida costituzione delle assemblee condominiali [10] e alle maggioranze necessarie per le deliberazioni, né a quanto stabilito per l’impugnazione di queste ultime [11]. Perché l’assemblea condominiale sia regolarmente costituita, occorre un certo numero di condomini presenti. Inoltre, la legge prevede specifiche maggioranze per i vari tipi di delibera assembleare, e delle regole riguardanti l’impugnazione di queste ultime. Queste norme non possono essere derogate dal regolamento;
  • non può vietare ai condomini di tenere in casa animali domestici. Il legislatore ha voluto, infatti, adeguarsi alla crescente sensibilità nei confronti degli animali d’affezione, che, secondo la giurisprudenza ormai costante, vanno considerati alla stregua di componenti della famiglia. Sono esclusi gli animali selvatici, la cui gestione, peraltro, può essere problematica e costituire un pericolo per gli altri in caso di fuga dell’animale stesso.

Inoltre, il regolamento di condominio non può derogare [12]:

  • a quanto previsto in ordine al pagamento dei contributi condominiali e alla loro riscossione coattiva. Infatti, la legge stabilisce regole molto precise in ordine alle somme che i condomini pagano periodicamente per la manutenzione e l’utilizzo delle cose comuni, oltre alle modalità con le quali è necessario procedere qualora qualcuno di essi non paghi;
  • alle norme previste in materia di assemblea straordinaria;
  • alle norme stabilite in ordine alla rappresentanza dei condomini in seno all’assemblea;
  • a quanto previsto dalla legge riguardo alle tabelle millesimali.

Come avviene l’approvazione del regolamento di condominio?

L’iniziativa per l’approvazione del regolamento di condominio, o per la sua modifica, può essere assunta da ciascun condomino [13]. Per l’approvazione è necessario un numero di voti tale da rappresentare la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore del palazzo. Abbiamo visto, infatti, che ogni unità immobiliare ha un valore, riportato nelle tabelle millesimali. La somma del valore di tutte le unità immobiliari dà il valore dell’edificio. Dopo essere stato approvato, il regolamento deve venire allegato al registro dei verbali e delle assemblee.

Esso è subito efficace e vincolante per tutti i condomini, nonché per i loro eredi e aventi causa; il verbale di approvazione può, tuttavia, essere impugnato dai condomini dissenzienti e dagli assenti. Per i primi il termine per l’impugnazione è di trenta giorni dalla deliberazione; per i secondi di trenta giorni dalla data in cui la deliberazione è stata loro comunicata.

Qualora vengano proposte più impugnazioni avverso lo stesso regolamento, il giudice riunisce le relative cause e decide con un’unica sentenza.

L’amministratore ha il compito di curare il rispetto del regolamento di condominio, nonché la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, al quale esso deve essere allegato.

Qual è la natura del regolamento condominiale?

Quello di cui abbiamo finora parlato è soltanto uno dei tipi di regolamento condominiale che la legge prevede.

Infatti, secondo le modalità di approvazione, possono esservi i seguenti regolamenti:

  • ordinario. E’ quello che viene approvato dall’assemblea condominiale, cone le maggioranze di cui abbiamo già parlato. Questi regolamenti, come abbiamo visto, sono sottoposti a dei limiti ben precisi; tra questi, il divieto di stabilire delle limitazioni alle facoltà rientranti nel diritto dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive. Tornando a un esempio già fatto, un regolamento condominiale ordinario non potrebbe imporre il divieto di utilizzare una o più unità immobiliari per farne degli uffici. L’unico modo per superare questo ostacolo consiste nell’approvazione del regolamento da parte di tutti i condomini;
  • contrattuale. Questo regolamento deve essere approvato all’unanimità, quindi da tutti i condomini: ciò significa che all’assemblea, avente all’ordine del giorno l’approvazione di questa forma di regolamento, devono essere tutti presenti e tutti devono essere concordi nell’approvazione. Ciò ha una ragion d’essere molto importante: si tratta, infatti, di un regolamento che stabilisce limitazioni alle facoltà dei condomini o di alcuni di essi sulle rispettive proprietà, oppure che ampliano i poteri o attribuiscono maggiori diritti a uno o più condomini. Comprenderai, quindi, che a tal fine è necessario il consenso anche dei diretti interessati. Se, ad esempio, si vuole impedire che un ampio magazzino posto al pianterreno venga utilizzato come pub, occorrerà stabilirlo in un regolamento condominiale di tipo contrattuale. Un siffatto regolamento può essere presente fin dalla costruzione dell’edificio, ad opera del costruttore: in tal caso andrà allegato agli atti di vendita, visto che gli acquirenti compreranno delle unità immobiliari rispetto alle quali godranno di facoltà limitate o, al contrario, ampliate;
  • giudiziale. Quando non si riesce ad approvare il regolamento, è possibile rivolgersi al giudice affinchè provveda in merito. Ciò, tuttavia, è ammesso soltanto nei casi in cui la legge rende obbligatoria la presenza di un regolamento condominiale, cioè quando il numero dei condomini è superiore a dieci. Negli altri casi, è certamente utile l’approvazione di un regolamento, e alcuni condomini potrebbero auspicarla; ma, se non si riesce a mettersi d’accordo, non è possibile rivolgersi all’autorità giudiziaria: il condominio resterà senza regolamento, in attesa di tempi migliori. Nel momento in cui la sentenza che approva un regolamento di condominio diviene definitiva, perché contro di essa non è più possibile proporre alcuna impugnazione, essa spiega efficacia vincolante per tutti i condomini, indipendentemente dalla circostanza che ve ne siano di dissenzienti.

Come hai avuto modo di vedere, le norme riguardanti il regolamento di condominio sono tante, articolate e minuziose. Certamente, però, questo articolo avrà tracciato un quadro abbastanza chiaro sull’argomento. Ciò ti consentirà di vivere in condominio con una maggiore consapevolezza dei tuoi diritti e dei tuoi doveri.

Consumi condominiali: posso chiedere di non pubblicarli?

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L’amministratore può comunicare a tutti i condomini quanto consumi di acqua e di riscaldamento?

Vivi in un condominio con il riscaldamento e l’acqua centralizzati. Periodicamente l’amministratore invia l’elenco dei consumi e la ripartizione per millesimi. Il calcolo viene fatto in base a quanto registrato dai contatori individuali collegati ai vari appartamenti. In questo modo ciascuno di voi sa quanto deve pagare. Il tutto è contenuto in un documento spedito a ogni condomino, con allegata una tabella ove a ciascun appartamento corrisponde l’indicazione dei consumi e dell’importo da corrispondere.

Alla vista dell’elenco con il tuo nome storci gli occhi: non ti va che i vicini sappiano quanto consumi. È una questione di privacy, sostieni sbuffando. Magari qualche mese vuoi risparmiare e, allora, tieni spenti i termosifoni; oppure, in altre occasioni, spendi di più perché hai ospiti. Ma si tratta di questioni private, sulle quali gli altri non devono essere informati. Cosa prevede la legge a riguardo? Ti chiedi: posso chiedere di non pubblicare i consumi condominiali? Cerchiamo di fare ordine sulla materia per capire fin dove l’amministratore può spingersi.

Il Garante della Privacy ha stilato, alcuni anni fa, un vademecum in cui elenca tutte le condotte vietate perché lesive della riservatezza dei condomini. L’attenzione dell’Authority si è principalmente concentrata sulle informazioni affisse nell’androne del palazzo che, in quanto poste in una zona accessibile a tutti, anche agli estranei, sono da considerarsi illegittime e vietate. Al contrario, le comunicazioni – anche in riferimento a questioni legate ai pagamenti – effettuate all’interno dell’assemblea o comunque ai soli condomini sono lecite. Questo perché il condomìnio, se anche non è una persona giuridica come lo è una società, funziona più o meno nello stesso modo: l’interesse alla gestione della “cosa comune” è collettivo e l’amministratore lo gestisce secondo il mandato ricevuto in assemblea. Come in una azienda tutti i soci hanno diritto a sapere quello che fanno gli altri con i beni della società, altrettanto nel condominio ciascun proprietario ha diritto a entrare nella sfera della privacy altrui nella misura in cui questa possa avere relazioni con i beni comuni.

Tanto per fare un esempio, costituisce un comportamento vietato indicare i nomi dei morosi nella bacheca condominiale, ma ciascun condomino ha diritto a conoscerli rivolgendosi all’amministratore. Anche in assemblea si può chiedere di rivelare l’identità dei debitori se non vi partecipano estranei; né l’amministratore può sottrarsi dal fornire una tale indicazione.

Vediamo ora se si può chiedere di non pubblicare i consumi condominiali. Quando l’utenza è unica per tutto il palazzo, essendo gestita mediante un servizio centralizzato, l’unico intestatario del contratto (e quindi titolare dei conseguenti diritti alla privacy) è il condomìnio e, di conseguenza, tutti i condòmini. Quindi non è possibile rivendicare un eventuale riservatezza, trattandosi di un bene comune (l’acqua, il gas). Circa poi l’utilizzo che di questo viene fatto dai vari proprietari e la conseguente ripartizione delle spese è solo per una maggiore trasparenza e correttezza che si procede a una divisione in base a contatori individuali. In assenza di questi, infatti, la divisione avviene secondo tabelle millesimali che sono pubbliche e devono essere tali proprio al fine di poter esercitare un controllo sull’operato dell’amministratore. Del resto, se non vi può essere privacy in caso di divisione operata secondo tabelle non v’è ragione di rivendicarla quando la divisione avviene in modo diverso.

Risultato: non è possibile chiedere di oscurare i consumi sulla ripartizione delle spese di un servizio condominiale che, anche in caso di impiego di contatori individuali, rimane tale trattandosi di un contratto unico e unitario per tutti, su cui ciascun condomino ha diritto a effettuare le verifiche e i controlli.

Diverso sarebbe stato il ragionamento se l’amministratore comunicasse all’assemblea quanto un condomino spende di luce o di telefono in relazione a una utenza a quest’ultimo intestata, trattandosi di un bene personale e non condominiale.

In sintesi non è possibile imporre all’amministratore di non pubblicare la divisione dei consumi condominiali quando il servizio è centralizzato.


Acquisto seconda casa come prima con agevolazione fiscale

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Acquisto seconda casa come abitazione principale senza vendere quella precedente: si può trasformare la prima casa in seconda casa?

Immagina di voler lasciare la casa in cui vivi e che hai acquistato diversi anni fa. La famiglia, nel tempo, è cresciuta e ora le esigenze sono cambiate: avete bisogno di più spazio e di una cameretta per i bambini. Oppure immagina di aver ricevuto un appartamento in successione ereditaria ma che questo sia inagibile e completamente da ristrutturare. Ed in ultimo, immagina di aver ricevuto una casa in donazione e, non volendo abitarla, l’hai data in affitto, sicché ora ti tocca trovarne una per te. Si pone subito un problema: la nuova casa che andrai ad acquistare potrà ottenere le agevolazioni fiscali previste dalla normativa per l’abitazione principale? In altri termini è possibile usufruire di nuovo del cosiddetto bonus prima casa?

La giurisprudenza della Cassazione si sta dibattendo da diversi anni sulla possibilità di riconoscere, per una seconda volta, il beneficio fiscale a chi già possiede un immobile nello stesso Comune ove si trova quello da acquistare (condizione questa che, di norma, sarebbe ostativa al bonus). Le ultime sentenze vengono incontro al contribuente, ma a determinate condizioni. Procediamo quindi con ordine e vediamo se, ed in che termini, si può effettuare l’acquisto della seconda casa come prima con l’agevolazione fiscale.

Bonus prima casa: quando?

Chi è esperto di fisco e immobili saprà già che l’agevolazione fiscale sulla prima casa è forse tra gli sconti più consistenti e ghiotti che consente la nostra normativa. A conti fatti ti consente di risparmiare diverse migliaia di euro in tasse. In buona sostanza, se compri da un costruttore versi l’Iva al 4% anziché al 10% del valore catastale dell’immobile e, se compri da un privato, versi l’imposta di registro al 2% anziché al 9%. In più, nel primo caso le imposte ipotecarie, ipocatastali e di registro fissa sono di 200 euro ciascuna; nel secondo caso ammontano a 50 euro ciascuna. 

Si comprende bene che la possibilità di farsi sfuggire il bonus prima casa sull’acquisto di un appartamento o di un villino può essere determinante ai fini della stessa conclusione dell’affare. 

Ma chi può usufruire del bonus prima casa?

Le condizioni sono abbastanza limitanti:

  • innanzitutto è necessario avere la residenza nello stesso Comune ove si trova il nuovo immobile (non necessariamente nella stessa via). Se, pertanto, sei residente in un altro Comune, hai 18 mesi di tempo dal rogito per fare il trasferimento;
  • in secondo luogo non devi avere la proprietà di un’altra abitazione (ovunque si trovino all’interno del territorio nazionale) acquistata con il bonus prima casa. Se invece ne sei proprietario devi venderla o donarla a qualcuno entro un anno dal nuovo rogito, sia anche a tuo figlio (attento però: se non sono passati cinque anni dall’acquisto, l’Agenzia delle Entrate ti revoca il bonus di cui avevi goduto all’epoca);
  • in ultimo, non devi essere proprietario di un immobile adibito ad abitazione nello stesso Comune ove si trova la nuova casa. In caso contrario devi venderlo prima del rogito (non hai qui, come nella precedente ipotesi, un anno di tempo per farlo).

Acquisto seconda casa con il bonus prima casa

È possibile l’acquisto della prima casa avendone già una (magari ricevuta per successione o in donazione) nello stesso Comune? Nelle ultime sentenze, la Cassazione ha detto di sì, ma solo a determinate condizioni:

  • la precedente abitazione deve essere inidonea all’utilizzo;
  • la precedente abitazione non deve essere stata acquistata con il bonus prima casa.

Quanto all’inidoneità, la Corte ha detto [1] che può trattarsi anche di un impedimento di natura giuridico come la presenza di diritti di terzi: un usufrutto, un contratto di locazione, ecc. Pertanto se la prima casa è in affitto a terzi, nei puoi comprare un’altra da adibire a prima casa con l’agevolazione fiscale.

Un altro tipico caso di inidoneità è l’immobile inagibile o da ristrutturare. Altrettanto dicasi dell’appartamento divenuto troppo piccolo perché la famiglia si è allargata, sono arrivati i figli ed è necessario più spazio.

Insomma, la proprietà di un’abitazione nel medesimo Comune (non acquistata con l’agevolazione «prima casa») non impedisce di effettuare un nuovo acquisto agevolato se si tratta di una casa non idonea a essere abitata. Questa inidoneità può essere sia di tipo «soggettivo» (e cioè relativa alla situazione personale del contribuente: ad esempio, era un single, ora invece è sposato con prole), sia di tipo «oggettivo» (e cioè in relazione alle condizioni dell’edificio: ad esempio, perché fatiscente).

Prima casa inidonea: possibile l’acquisto di una nuova casa con il bonus?

L’attuale posizione della Cassazione [2] è dunque la seguente:

  • la proprietà di un’abitazione nel medesimo Comune impedisce l’agevolazione «prima casa» solo se si tratta del prepossesso di una casa idonea all’uso abitativo;
  • il prepossesso di una casa acquistata con l’agevolazione (ovunque sia ubicata) impedisce in ogni caso l’avvalimento dell’agevolazione;
  • l’inidoneità può essere soggettiva (in relazione al contribuente) oppure oggettiva (in relazione all’edificio)

Quali sono i beni di proprietà dei condomini?

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Come si individuano in un edificio condominiale le cose ed i beni che appartengono in proprietà a tutti i condomini

La vita condominiale dovrebbe costituire la palestra della vita democratica. Soprattutto in Italia, dove il numero delle persone che vive in un condominio è elevatissimo, il condominio ed i suoi meccanismi di funzionamento potrebbero davvero costituire un ottimo ingranaggio di pratiche di democrazia e buoni costumi. Ed invece le cronache e la memoria collettiva degli italiani conoscono il condominio come occasione in prevalenza solo di liti, di discussioni e di numerosissime cause che approdano nelle aule di tribunale. Un numero consistente delle discussioni in ambito condominiale riguarda i dubbi su quali siano i beni di proprietà dei condomini. Potrebbe sembrare assurdo, ma in molti edifici condominiali d’Italia si discute, ed animatamente, anche per capire se un bene sia o meno un bene di proprietà dei condomini. Simili problemi, che alla fine ingolfano anche le aule di tribunale, potrebbero tranquillamente essere risolti spesso solamente avendo una conoscenza di base della legge ed anche dei regolamenti condominiali. Ed invece è amaro constatare che la stragrande maggioranza dei proprietari di case italiani, e quindi di condomini, non conosce le regole basiche della vita condominiale e nemmeno, purtroppo, il regolamento stesso del proprio condominio. Cercheremo allora di dare un contributo di chiarezza in tal senso, evidenziando quali siano in materia le regole che la legge stabilisce per poter individuare i beni che si devono considerare in proprietà comune ai condomini.

Quali sono le parti comuni dell’edificio di proprietà dei condomini?

Allo scopo di chiarire in modo puntuale quali siano le parti comuni di un edificio, la legge [1] fissa una presunzione.

La legge, cioè, stabilisce che si devono presumere di proprietà comune tra tutti i condomini una serie di beni a meno che non risulti il contrario dal titolo (per titolo si intende il primo atto di compravendita di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario dell’edificio ad altro soggetto).

I beni che la legge stabilisce che siano di proprietà comune tra tutti i condomini (a meno che non risulti il contrario dal titolo) sono:

– tutte le parti dell’edificio che siano necessarie all’uso di tutti i condomini, come ad esempio il suolo su cui l’edificio è stato costruito, le fondamenta, i muri maestri, i pilastri, i tetti, i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, le facciate, i cortili;

– le aree destinate al parcheggio dei veicoli, tutti i locali destinati ai servizi comuni come la portineria, gli stenditoi, i sottotetti che siano per struttura e funzione, destinati all’uso comune;

– tutti i manufatti destinati all’uso comune dei condomini, come ad esempio l’ascensore, i pozzi, le cisterne, gli impianti della fogna e idrici, i sistemi per distribuire gas, energia elettrica, gli impianti per l’aria condizionata, per la ricezione dei segnali di radio e televisione e per l’accesso a qualunque flusso di informazioni e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione alle unità di proprietà esclusiva.

Ribadiamo che:

– i beni e le cose appena citati si presumono di proprietà di tutti i condomini a meno che non risulti diversamente dal titolo contrattuale (in particolare dall’atto di acquisto relativo alla prima unità immobiliare venduta dal costruttore al primo acquirente);

– l’elenco di beni fatto dalla legge non è un elenco tassativo, ma solo esemplificativo: questo significa che è sicuramente possibile che ci possano essere altri beni di proprietà comune fra i condomini anche se diversi da quelli indicati dalla legge: infatti sarà considerato un bene comune anche quello che abbia una concreta ed oggettiva destinazione al servizio di tutti indifferentemente i condomini (sempre che non emerga il contrario dal titolo contrattuale), mentre non potrà essere considerato di proprietà comune quel bene che oggettivamente risulti destinato al servizio di una sola o di più unità immobiliari [2] (ad esempio non sarà di proprietà di tutti i condomini una piscina recintata con accesso esclusivo per un solo condomino, a meno che, come deve essere sempre ricordato, dal titolo contrattuale non risulti che la piscina sia di proprietà condominiale).

I beni destinati oggettivamente all’uso comune si presumono di proprietà condominiale

Chi paga per i beni di proprietà condominiale ed in quale proporzione?

Dopo aver accertato che un determinato bene è di proprietà comune, con l’ausilio della legge e delle indicazioni contenute nel primo contratto di acquisto di un’unità immobiliare dell’edificio, sorge subito il problema delle spese necessarie per tutti i beni che siano di proprietà comune.

A questo riguardo occorre dire che la legge stabilisce che:

– il diritto di proprietà di ciascun condomino sui beni comuni è proporzionale al valore dell’unità immobiliare di sua esclusiva proprietà (la quantificazione del diritto di proprietà di ogni condomino è fatta ricorrendo ai millesimi e alle notissime tabelle millesimali) a meno che non risulti diversamente dal contratto di acquisto [3];

– le spese che siano necessarie per conservare le cose ed i beni comuni e per poterne godere (spese di manutenzione ordinaria e straordinaria), nonché le spese per poter prestare i servizi comuni (ad esempio quelle di pulizia degli ambienti condominiali) e le spese per le innovazioni (ad esempio per l’installazione di un ascensore) sono sostenute dai condomini in proporzione al valore delle loro proprietà esclusive  [4] (cioè in base ai millesimi di proprietà) a meno che non esista un accordo, preso con il consenso di tutti i condomini, che stabilisca una diversa modalità di ripartizione [5].

Bisogna precisare che:

  • per i beni comuni destinati a servire in misura diversa i singoli condomini, la ripartizione delle spese appena elencate andrà fatta, a meno che non vi sia un diverso accordo, in proporzione all’uso che ogni condomino può farne [6] (ad esempio sono cose destinate a servire i condomini in misura diversa le porte tagliafuoco installate in un atrio comune nel quale si aprono le porte di alcuni box in proprietà esclusiva solo di alcuni condomini: pertanto le spese di installazione e quelle successive di manutenzione di tali porte tagliafuoco dovranno essere ripartite in proporzione all’uso che i condomini potranno farne [7]);
  • se un edificio ha più scale, cortili, lastrici solari, o altre opere, cose o impianti destinati ad essere utilizzati solo a servizio di una parte del fabbricato, le spese della loro manutenzione saranno a carico esclusivamente del gruppo dei condomini che ne traggono utilità, sempre salvo un diverso accordo [8] (è il caso, ad esempio, del cosiddetto supercondominio, cioè di un complesso condominiale costituito da diversi edifici autonomi: in questo caso, ad esempio, le spese di manutenzione delle scale di ogni singolo edificio saranno a carico soltanto dei condomini che abitano quel singolo edificio).

Le spese per i beni comuni si ripartiscono di regola in proporzione ai millesimi

Spese ascensore: può partecipare chi non lo voleva?

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Se l’ascensore è stato istallato a cure e spese di alcuni condomini, gli altri possono parteciparvi successivamente? Che diritti hanno questi condomini?

Come al solito ci risiamo: le questioni condominiali non finiscono mai e adesso ne è sorta un’altra. Vivi in un palazzo dove, a fatica e dopo molti anni, alcuni condomini volenterosi sono riusciti a far istallare l’ascensore. Sapevi che l’accesso alla tua abitazione sarebbe stato molto più agevole e che tra l’altro, il tuo appartamento sarebbe aumentato di valore. Per queste più che valide ragioni, eri e sei tra i proprietari che fin dall’inizio voleva fortemente questa innovazione e, senza alcun indugio hai partecipato alla sua approvazione, costruzione ed alla successiva gestione. Ora, a distanza di alcuni anni dall’istallazione dell’ascensore, i condomini che inizialmente lo ritenevano inutile e che per questo motivo non lo avevano voluto e si erano totalmente disinteressati, hanno deciso di parteciparvi. Vogliono usufruire anche loro dell’ascensore e sono disposti ad accollarsene le spese, ma temi che la richiesta partecipazione possa complicarne la gestione e nascondere qualche inganno. Ed allora la domanda che ti poni è la seguente: per le spese dell’ascensore, può partecipare chi non lo voleva? È possibile rifiutare questa richiesta oppure è un diritto di tutti i condomini? I condomini che inizialmente non hanno partecipato all’istallazione dell’ascensore, quali spese devono affrontare per esercitare questa facoltà? In quest’articolo troverai risposta alle tue domande, pertanto presta la giusta attenzione.

Ascensore: è un bene condominiale?

Senza troppi giri di parole, l’ascensore è il classico bene condominiale. Non è proprio come le mura perimetrali, che mai e poi mai potrebbero essere di proprietà privata, ma per la funzione espletata dall’ascensore, come bene al servizio dell’uso comune, esso deve essere definito come tale. D’altra parte, basta guardare quanto scritto nella legge [1] e basta avere conferma nelle parole dei magistrati [2], per concludere in questo senso. Tuttavia devi sapere che, se l’ascensore non è stato istallato dal costruttore, ma successivamente soltanto da alcuni proprietari, esso è considerato un bene privato, il quale, però, su iniziativa dei condomini che non vi hanno inizialmente partecipato, può diventare di proprietà comune. Essi, infatti, non dovranno fare altro che invocare il loro specifico diritto sancito dalla legge [3]. Pertanto, anche se nasce come un bene privato, cioè di cui sono titolari soltanto quei proprietari che lo hanno voluto, può diventare, a richiesta, un bene di tutti. Quindi, l’ascensore è un bene condominiale.

Ascensore: si può rifiutare la partecipazione degli altri?

Come hai appena letto, anche se probabilmente lo sapevi già, può spesso accadere che l’ascensore sia costruito in un secondo momento e che a questa importante innovazione non partecipino tutti i proprietari, ma soltanto alcuni di essi. Ebbene, come sempre accade, l’appetito vien mangiando ed allora, i condomini diffidenti potrebbero decidere di parteciparvi successivamente. Ma sarebbe un loro diritto? Ebbene si, come previsto dalla legge (come citato in nota [3]) e come confermato dai magistrati delle Cassazione [4], i quali hanno anche recentemente [5] precisato che, a proposito dell’ascensore, essa può essere realizzata anche a carico e spese di uno o soltanto di alcuni condomini, fatto salvo il diritto degli altri proprietari di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’ascensore (tecnicamente definibile come un’innovazione), contribuendo nelle spese d’istallazione e di manutenzione dell’impianto. Pertanto, a proposito dell’ascensore, non si può rifiutare la partecipazione degli altri condomini e tanto meno è necessaria l’approvazione dell’assemblea condominiale.

Ascensore: quali spese per partecipare?

Le spese che devono essere versate per partecipare all’utilizzo dell’ascensore sono quelle che sono state necessarie per la sua istallazione e per la manutenzione ordinaria e straordinaria sino a quel momento. Questa somma, da un lato deve essere rivalutata all’attuale (come afferma la Cassazione [6]), dall’altro deve essere calcolata, considerando il deprezzamento dell’impianto a seguito dell’età del medesimo.

Terreno agricolo, lavori e passaggio su fondo altrui

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Io e mio fratello, co-proprietari di un fabbricato (seconda casa) situato a 800 mt di altezza, abbiamo ottenuto il permesso di ristrutturazione da parte del comune per il rifacimento del tetto e l’abbattimento di tutti i muri interni per rifare completamente l’interno. La proprietà non è raggiungibile con i mezzi e con l’auto, per cui necessitiamo di una “pista di accesso” al cantiere. Prima di raggiungere il nostro terreno agricolo (posto di fronte all’abitazione) ove dovremmo posizionare la gru, dobbiamo transitare su un altro terreno agricolo che si trova tra la nostra proprietà e la strada comunale. Si tratta di pochi metri di transito, ma la proprietaria ci nega il permesso, pur avendo offerto un indennizzo e il ripristino a termine lavori. Aggiungo che il progetto di tale pista è per noi il più rapido, economico (rispetto al trasporto con elicottero) e il meno invasivo per tutti i vicini. Come posso procedere?

Dalla descrizione dello stato dei luoghi, sembrerebbe che l’accesso al terreno agricolo della vicina sia indispensabile per poter raggiungere la proprietà del lettore ed effettuare i lavori. Sussistono dunque i presupposti di cui all’art. 843 del codice civile che disciplina la fattispecie dell’accesso al fondo. In base a tale norma, il proprietario deve permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessità, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune.

La disposizione si riferisce evidentemente ad un’esigenza temporanea di passaggio e/o occupazione del fondo altrui, funzionale alla realizzazione dei lavori. Al fine di contemperare l’interesse di colui che deve realizzare i lavori sul proprio fondo e l’interesse di colui che si vede occupare la proprietà, è previsto che se l’accesso cagiona danno, è dovuta a quest’ultimo un’adeguata indennità.

Secondo la giurisprudenza, per la concessione dell’accesso al fondo occorre valutare la situazione dei luoghi, al fine di accertare se la soluzione prescelta (accesso e passaggio per un determinato fondo altrui) sia l’unica possibile o, tra più soluzioni, sia quella che consente il raggiungimento dello scopo (riparazione o costruzione) con minor sacrificio sia di chi chiede il passaggio, sia del proprietario del fondo che deve subirlo.

Diversa dall’ipotesi di semplice temporaneo accesso al fondo altrui per esigenze di lavori di riparazione o costruzione, è quella della servitù di passaggio. Quest’ultima è prevista qualora il proprietario non abbia altre vie per poter accedere al proprio fondo dalla pubblica strada. Più precisamente, ai sensi dell’art. 1051 del codice civile, il proprietario, il cui fondo è circondato da fondi altrui, e che non ha uscita sulla via pubblica né può procurarsela senza eccessivo dispendio o disagio, ha diritto di ottenere il passaggio sul fondo vicino per la coltivazione e il conveniente uso del proprio fondo.

Nel caso specifico, occorre verificare se il passaggio/occupazione dell’altro fondo è “limitata” allo svolgimento dei lavori oppure deve essere “permanente” per raggiungere il proprio terreno.

Nel primo caso, se la proprietaria si rifiuta di consentire l’accesso, occorre rivolgersi al Giudice, anche con un procedimento di urgenza, per ottenere una pronuncia che obblighi il passaggio temporaneo per i lavori.

Nel secondo caso, se la proprietaria non intende trovare un accordo per disciplinare la servitù, è possibile rivolgersi al Giudice per ottenere una sentenza di costituzione di una servitù coattiva di passaggio.

In entrambi i casi, l’azione legale deve essere preceduta da un tentativo obbligatorio di mediazione.

 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Maria Monteleone

Obbligazione solidale passiva, quale la responsabilità del condomino?

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Posso essere chiamato a pagare direttamente e per l’intero un danno provocato a un terzo o ad un altro condomino all’interno del condominio dove abito? Esaminiamo l’obbligazione solidale passiva.

Nelle obbligazioni extracontrattuali in cui è coinvolto l’intero condominio, il singolo condomino è responsabile passivo in solido con gli altri e quindi tenuto a pagare per l’intero debito derivante da danno da cose in custodia [1], con possibile azione di regresso per recuperare quanto pagato nei confronti degli altri co-obbligati in rapporto ai loro millesimi di proprietà. Posso essere chiamato a pagare direttamente e per l’intero un danno provocato a un terzo o ad un altro condomino all’interno del condominio dove abito? Un creditore del condominio può pretendere che paghi interamente la sua prestazione se ci sono dei morosi mentre io sono perfettamente in regola con i pagamenti? Quali sono le mie responsabilità in caso di obbligazioni contratte dal condominio? In questo articolo esamineremo i casi di obbligazione solidale passiva, qual è la responsabilità del condomino? Quando lo stesso condomino può essere costretto a pagare per l’intero in relazione ad una somma richiesta da un creditore di tutta la compagine condominiale? Vedremo inoltre quali sono i singoli passaggi e soprattutto le differenze per il soddisfacimento di un terzo che ha un credito contrattuale (ad esempio un fornitore) ovvero extracontrattuale secondo il codicistico principio dell’obbligo di risarcire qualunque danno ingiusto  sia stato causato, nei confronti del condominio e quali siano le conseguenze e i rimedi esperibili per il singolo condomino passivamente solidale.

Premessa generale sulle obbligazioni 

In ambito condominiale ci troviamo inevitabilmente ad avere a che fare con obbligazioni soggettivamente complesse ovvero caratterizzate dalla presenza di una pluralità di debitori o creditori rappresentati dai singoli condomini: siamo quindi di fronte sì ad una pluralità di soggetti ma allo stesso tempo in presenza di un’unica prestazione (ad esempio il pagamento di un fornitore) derivante da un’altrettanto unica fonte (essere parte di una comunione).

In tali tipi di rapporti, si definisce parziaria l’obbligazione per la quale ciascuno dei creditori può esigere dal comune debitore solo la sua parte di prestazione ovvero quando ciascuno dei debitori di un medesimo creditore può essere costretto a pagare solo per la sua parte. In sostanza, il diritto o l’obbligo di ognuno è proporzionale alla sua partecipazione al vincolo obbligatorio.

Al sopra detto tipo di obbligazione si contrappone quella solidale [2] secondo cui, in presenza di più debitori tenuti alla medesima prestazione, il creditore può pretendere l’intera prestazione da uno qualunque di essi ed il suo corretto adempimento vale a liberare anche gli altri co-obbligati in esplicazione del principio giuridico della solidarietà passiva presunta per legge [3].

Fatte queste codicistiche ma necessarie premesse si evidenzia che la responsabilità per le obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali del Condominio non è sottoposta allo stesso trattamento giuridico e non comporta, per i singoli condomini, le stesse conseguenze.

Vediamo di capire, in concreto, quali sono i motivi ed i risvolti pratici di tale affermazione.

Le obbligazioni in condominio

Contrattuali

Innanzitutto bisogna segnalare che, in materia, ha fatto da spartiacque la Sentenza della Cassazione a Sezione Unite [4] secondo cui il creditore del condominio deve limitarsi ad aggredire la quota di credito corrispondente ai millesimi di ogni condomino mentre in precedenza era possibile aggredire un solo condomino per la soddisfazione dell’intero credito in virtù del concetto della solidarietà passiva del debito.

E’ evidente che la soluzione scelta dalla Suprema Corte sulla parziarietà del debito contrattuale – ovvero la possibile escussione di ciascun condomino solo in base ed in proporzione ai millesimi di proprietà – è strada più tortuosa per il creditore del condominio; del resto, dal momento che il Condominio non ha acquisito – nemmeno a seguito della Legge di riforma del 2012 – personalità giuridica, è naturale che le obbligazioni vengano assunte in proprio solo in proporzione ai rispettivi millesimi di proprietà.

Tale principio, però, vale per le obbligazioni aventi natura contrattuale per intenderci, ad esempio, il contratto di fornitura del gasolio, quello con la ditta per la manutenzione dell’ascensore o per l’appalto di lavori di ristrutturazione e così via.

Extracontrattuali

In presenza di responsabilità extracontrattuale, invece, ovvero nel caso di responsabilità per danni da cose in custodia [5] come ad esempio la tegola che cade dal tetto e che provoca danni alla macchina parcheggiata nella sottostante strada pubblica o la persona che scivola nell’androne del palazzo per la presenza d’acqua non debitamente segnalata né prontamente rimossa, è presupposta l’identificazione di uno o più soggetti cui può essere imputata per l’intero la mancata custodia della cosa comune, ovvero ogni singolo condomino potrà essere condannato al risarcimento dei danni per l’intero [6], ma non anche l’amministratore in quanto semplice mandatario dei condomini stessi.

Quindi, si può affermare che, ad oggi, in ambito condominiale, nel caso il danno provenga da un accordo contrattuale, si applicherà il criterio della parziarietà e quindi il creditore potrà escutere tutti i condomini (dapprima certamente i morosi e poi tutti gli altri) solo ed esclusivamente per la porzione di credito corrispondente ai rispettivi millesimi: in concreto, il fornitore non pagato dovrà andare a richiedere il soddisfacimento del proprio credito in primo luogo a coloro che non hanno pagato le spese al condominio relative alla prestazione offerta e poi tutti gli altri secondo i millesimi di proprietà e fino alla concorrenza del proprio credito come anche confermato anche da [7].

Nel caso, invece, di richiesta di risarcimento danni per un fatto extracontrattuale, ogni singolo condomino potrà essere chiamato a rispondere da parte del creditore per l’intero importo in virtù del principio della solidarietà passiva di tale tipo di credito.

Si noti, quindi, come sia estremamente più semplice, per un terzo – quale tra l’altro deve considerarsi nei confronti del condominio anche lo stesso danneggiato a sua volta condomino come chiarito dalla Cassazione [8] – ottenere il pagamento di una somma qualora si tratti del risarcimento di un danno ad esempio da infiltrazioni anziché del pagamento di un debito contrattuale maturato ad esempio per aver fornito al condominio dei servizi in qualità di professionista: nel primo caso, infatti, sarà sufficiente individuare un solo coobbligato e citarlo in giudizio per l’intera somma, nel secondo, invece, si dovrà passare attraverso una complessa procedura che va dalla richiesta all’amministratore dei nominativi dei condomini morosi da andare ad aggredire pro quota fino alla eventuale escussione dei condomini in regola coi pagamenti; in tal caso c’è l’evidente grosso rischio che i più colpiti siano propri i condomini cosiddetti virtuosi posto che difficilmente i già morosi, che peraltro hanno determinato il debito condominiale, siano poi escutibili in giudizio con successo.

Si segnala, inoltre, che il condomino escusso che avrà estinto l’intero debito condominiale di natura extracontrattuale avrà poi diritto all’azione di regresso [9] nei confronti degli altri condomini solidalmente responsabile ai quali quindi potrà rivolgersi, ciascuno nei limiti della propria quota, con una separata e distinta azione per ottenere il rimborso di quanto anticipato in nome del condominio.

Risvolti pratici 

Vediamo, quindi, in concreto quali sono le strade da seguire per un creditore del condominio nei due casi e soprattutto quali sono le conseguenze per i singoli condomini.

Nel caso di un credito di natura contrattuale, il creditore dovrà in primo luogo:

  1. munirsi di un titolo esecutivo nei confronti del condominio (ad esempio richiedere all’autorità giudiziaria un decreto ingiuntivo sulla base di fatture emesse per prestazioni in favore del condominio);
  2. notificare tale titolo con l’eventuale precetto al condominio in persona dell’amministratore;
  3. richiedere a quest’ultimo il nominativo dei condomini morosi nonché i millesimi di ciascuno di essi in modo da poter determinare le singole parti del debito alle quali essi sono tenuti a rispondere;
  4. individuare un primo condomino moroso verso il quale, dopo avergli nuovamente e singolarmente notificato titolo e precetto, iniziare un’eventuale azione esecutiva;
  5. ripetere l’operazione contro gli altri morosi fino all’esaurimento degli stessi ovvero fino all’avvenuta soddisfazione del debito;
  6. agire, sempre e comunque in via parziaria, contro i condomini virtuosi.

Ci si rende facilmente conto della difficoltà e complicazione, nonché della non indifferente onerosità economica, che una procedura del genere comporti per il creditore contrattuale ed allo stesso tempo invece la garanzia di essere escusso per lo meno in ultima battuta per il condomino in regola con i pagamenti, a meno che l’amministratore, a torto e contro la legge, si rifiuti di fornire al procedente il nominativo dei morosi.

Viceversa in relazione a creditori condominiali per obbligazioni extra contrattuali, quale il risarcimento del danno da cose in custodia, i condomini risponderanno in solido e quindi ognuno di loro potrà essere chiamato a rispondere dal creditore per l’intero dell’importo dovuto e ciò senza il preventivo obbligo di agire contro eventuali morosi data la presunzione di uguale responsabilità fra tutti nell’aver causato la fonte del debito.

Come confermato anche dalla già citata sentenza della Cassazione [10], il differente trattamento tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale deriverebbe dalle fonti liberali del primo codice civile ripreso da quello napoleonico per cui vigeva il principio della solidarietà passiva tra colpevoli per le obbligazioni derivanti da delitto o quasi delitto piuttosto che il più premiante concetto della parziarietà destinato ad avvantaggiare chi invece avesse agito rettamente e, quindi, nel caso del condomino, avesse pagato regolarmente le spese condominiali.

All’atto pratico, quindi, come dovrà procedere colui che, danneggiato per esempio da infiltrazioni derivanti da parti comuni dell’edificio, e, quindi, badi bene, potrà trattarsi evidentemente anche di un condomino? Costui potrà citare un solo condomino – presumibilmente sceglierà il più facoltoso – al quale richiedere l’intero pagamento per il ristoro del danno subito e costui, come visto, avrà poi eventualmente l’azione di regresso nei confronti degli altri condomini per recuperare, pro quota, quanto legittimamente interamente versato.

E’ evidente come sia più aleatoria per il singolo condomino la solidarietà passiva prevista per la responsabilità extracontrattuale e come sia più facile per il creditore in tale situazione recuperare le proprie spettanze per un diritto leso.

Di EUGENIA FRANCESCA PARISI

Fondi confinanti: crollo del muro ed infiltrazioni d’acqua

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Si tratta di una disputa tra privati, più precisamente proprietari di abitazioni private confinanti, dove una parte è composta dalla famiglia del sottoscritto, l’altra parte da due proprietarie e il padre di queste ultime. Nell’allegato, spiego meglio poi tutte le vicissitudini. Posso far valere questo diritto alla sistemazione delle infiltrazioni in fase giudiziale?

L’art.887 del codice civile stabilisce la regola generale per cui se di due fondi posti negli abitati uno è superiore e l’altro inferiore, il proprietario del fondo superiore deve sopportare per intero le spese di costruzione e conservazione del muro dalle fondamenta all’altezza del proprio suolo, ed entrambi i proprietari devono contribuire per tutta la restante altezza.

Tuttavia, sul punto, è intervenuta più volte la Suprema Corte di Cassazione che ha stabilito come, in tema di fondi a dislivello, il proprietario di quello superiore è tenuto a costruire o a mantenere a proprie spese il muro di sostegno sul confine, quando tale costruzione (manutenzione) si renda necessaria per contenere il franamento del terreno che arrechi pregiudizio al fondo inferiore, con la conseguenza che egli deve rispondere dei danni derivati a tale fondo per non avere provveduto tempestivamente ed efficacemente all’anzidetta costruzione, o per avere trascurato di mantenere in efficienza il muro preesistente; a maggior ragione il principio della contribuzione alle spese stesse deve valere pure nell’ipotesi di proprietà comune (Cassazione civile, sez. II, 05/05/2008, n. 11020).

L’onere della costruzione (o manutenzione) del muro di sostegno ricade invece sul proprietario del fondo inferiore quando lo stesso abbia modificato lo stato del terreno con scavi e sbancamenti i quali abbiano reso indispensabile il muro di sostegno che, senza quelle opere, non sarebbe stato necessario. L’anzidetto principio trova applicazione anche nel caso che il crollo del muro si sia verificato quando i due fondi finiti appartenevano allo stesso proprietario, giacché l’obbligo della costruzione a carico del proprietario del fondo superiore sorge per il solo fatto che ciò si renda necessario per contenere il franamento del terreno, quale sia la condizione dei luoghi precedente all’acquisto (Cassazione civile, sez. II, 27/08/1991, n. 9156).

Partendo da questi presupposti, nel caso specifico, è acclarato come le infiltrazioni (la più grossa all’epoca dell’alluvione) siano conseguenza di uno sversamento d’acqua e fango dalla proprietà del confinante, attraverso il muro in comune, sulla proprietà del lettore.

Sul punto, la giurisprudenza di merito ha più volte ribadito come il proprietario di un edificio che provoca infiltrazioni d’acqua su un muro in comune deve, oltre a rifondere i danni cagionati, provvedere a porre in essere le opere necessarie per interrompere tali infiltrazioni (Tribunale Monza, 11/10/2006, Tribunale Savona, 05/10/2004).

Quindi, secondo questa giurisprudenza, una volta provate le cause di quelle infiltrazioni, addebitabili al proprietario del fondo confinante, il lettore in quanto parte lesa avrebbe diritto: 

– al risarcimento dei danni subiti,

– al ripristino della situazione gravata, con eliminazione delle infiltrazioni lamentate.

A tal uopo, molto importante potrebbe essere la relazione del geometra di controparte che ha riconosciuto la gravità di quella fessurazioni, così confessando il torto dei vicini.

Quello che si consiglia al lettore di fare preliminarmente è di inviare una diffida tramite legale.

Nel caso in cui tale lettera non dovesse sortire alcun effetto, allora non resterebbe al lettore che agire in giudizio, tramite una perizia di parte, e chiedere la nomina di un perito affinché rilevi i danni subiti, le opere necessarie ad evitare l’evento dannoso e chi debba sostenerle.

Inoltre, nel caso in cui tale situazione, per l’avvento del periodo invernale, possa far pensare ad un rischio inondazione, come quello patito nel giugno scorso, allora potrebbe essere utile agire con un’azione cautelare di danno temuto prevista all’art. 688 del codice di procedura civile: “la denuncia di nuova opera o di danno temuto si propone con ricorso al giudice competente”.

In questo modo il Giudice, anche senza sentire la controparte, potrà disporre con decreto un provvedimento finalizzato ad intervenire immediatamente sulle opere oggetto del ricorso per eliminare il rischio idrogeologico.

Andare in Comune a segnalare la situazione potrebbe avere senso nel caso in cui questa situazione possa in qualche modo inficiare opere pubbliche, o divenire di interesse pubblico rilevante.

Diversamente, se il tecnico del lettore ha valutato la situazione come mera controversia tra privati, allora denunciare la situazione al Comune non sarà affatto utile, poiché resterebbe con ogni probabilità lettera morta.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Salvatore Cirilla

Condominio ed edificio con tetto in eternit: che fare

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Abito da due anni al primo piano di una villetta bifamiliare di due piani, la casa ha circa 50 anni ma solo di recente è emerso che il tetto è in eternit con alcune travi non in ottimo stato. Il proprietario dell’appartamento a piano terra (dato in locazione ai genitori) di fatto tergiversa sui lavori da fare, ritenendo di spendere il minimo per una ipotetica “messa in sicurezza” e pretendendo anche un parere di un “esperto”. Ho diversi preventivi per rifare il tetto con rimozione eternit ma il mio vicino non vuole neppure vederli. Se non trovo un accordo, posso procedere a rifare il tutto e poi fargli avere fattura per quanto di sua competenza (circa 1/ 3 in relazione ai millesimi)? Oppure potrebbe bloccare o contestare i lavori una volta fatti?

L’articolo 12, comma 5, della legge n. 257 del 27 marzo 1992 stabilisce che i proprietari degli immobili sono obbligati a comunicare alle unità sanitarie locali (le attuali Asl) i dati relativi alla presenza di amianto fioccato o in matrice friabile.

Questo vuol dire che se nel condominio del lettore è stata accertata la presenza di amianto fioccato o in matrice friabile (così lo definisce la legge) il lettore e gli altri condomini hanno innanzitutto l’obbligo di legge di comunicarlo alla Asl competente per territorio.

La Asl, una volta ricevuta la comunicazione della presenza di amianto fioccato o in matrice friabile, provvederà:

– a censire il loro immobile fra quelli nei quali vi è la presenza di amianto (così dispone l’articolo 10, comma 2, lettera l), della legge n. 257 del 1992);

– analizzare il rivestimento del loro edificio per verificare se sia possibile procedere al fissaggio dell’amianto fioccato o in matrice friabile oppure, se non fosse possibile procedere

al fissaggio, disporre la rimozione dell’amianto con costi a carico dei proprietari dell’immobile (quindi a carico di tutti i condomini se l’amianto fosse presente in parti di proprietà condominiale).

Pertanto solo dopo che avranno avvertito la Asl e dopo che la Asl avrà eseguito i suoi rilievi il lettore e gli altri condomini potranno incaricare una ditta, fra quelle specializzate al trattamento dell’amianto, per eseguire i lavori necessari secondo le indicazioni che la medesima Asl avrà fornito.

Naturalmente i costi relativi al fissaggio o alla rimozione dell’amianto saranno a carico di tutti i condomini se interesseranno parti di proprietà condominiale.

Occorre precisare che la comunicazione della presenza di amianto alla Asl toccherebbe all’amministratore condominiale, ma se l’amministratore non fosse stato nominato è chiaro che è ogni singolo condomino ad essere obbligato ad eseguire questa comunicazione (ovviamente se l’amianto fosse presente in parti di proprietà condominiale).

Infine suggerisco, una volta che la Asl si sia pronunciata sul tipo di intervento da realizzare, di convocare una assemblea di tutti i condomini per deliberare l’affidamento dei lavori necessari secondo quelle che saranno state le indicazioni della Asl, avendo cura di evidenziare nella discussione e nel verbale dell’assemblea l’urgenza dell’intervento se questa urgenza emergesse chiaramente anche da quello che la Asl avrà accertato.

A quel punto se alcuni condomini si rifiutassero di approvare l’affidamento dei lavori e l’assemblea non fosse quindi in grado di adottare nessuna decisione, anche un singolo condomino potrà (in base all’articolo 1134 del codice civile) far eseguire i lavori necessari sulle parti comuni, a condizione che siano urgenti, e successivamente chiederne il rimborso pro quota agli altri comproprietari.

Per evitare qualsiasi tipo di problema si consiglia al lettore, nel caso in cui l’assemblea appositamente convocata non fosse stata in grado di prendere alcuna decisione, di inviare raccomandata a.r. agli altri condomini avvertendoli che, anche in mancanza del loro consenso, si provvederà comunque:

– ad affidare i lavori necessari per fissare o rimuovere l’amianto (considerata l’urgenza di intervenire che va accuratamente evidenziata nella raccomandata) e

– a chiedere successivamente il rimborso pro quota delle spese sostenute.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Angelo Forte


Condominio ed affitto ad uso turistico

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Abbiamo un appartamento dove vorremmo stabilire una struttura ricettiva (non un b&b né un affittacamere) con la formula spesso utilizzata a Roma di “affitto turistico breve” o “affitto puro” (come viene indicato l’affitto turistico breve da parte delle questura di Roma). L’amministratore teme però che una siffatta struttura possa arrecare danno al decoro del palazzo, abitato da poche famiglie e da anziani professionisti che sentono la loro rispettabilità minata dal turista straniero.  Apparentemente dal regolamento condominiale non sarebbe possibile fare un utilizzo della proprietà privata per l’attività che a noi interessa. C’è la possibilità di dimostrare sulla base magari di nuove leggi che un regolamento del genere  ha un difetto di forma o viola qualche legge? 

Dall’esame del regolamento condominiale prodotto in allegato dal lettore si può evidenziare, all’art. 14, il divieto di adibire i singoli appartamenti ai seguenti usi: ufficio pubblico, attività che comportino afflusso eccessivo di estranei (?), sanatorio, gabinetto di cura e ambulatorio per malattie infettive o contagiose, esercizio di affittacamere, locanda, pensione o albergo, scuola di musica o di canto o di ballo e in genere qualsivoglia altro uso che possa turbare la tranquillità dei condomini o sia contrario all’igiene e al decoro dell’edificio. 

Ad una prima lettura testuale quindi non pare sia contemplato tra i divieti quello di concedere in locazione l’immobile anche per brevi periodi (c.d. affitto uso turistico). 

Quest’ultima infatti è un’attività espressamente disciplinata dagli artt. 12 et 53 del D.Lgs. n. 79/2011 (c.d. Codice del Turismo), norme che – rispettivamente – prevedono: 

“Art. 12 – 1. Ai fini del presente decreto legislativo, nonché ai fini dell’esercizio del potere amministrativo statale di cui all’articolo 15, sono strutture ricettive extralberghiere: 

a) gli esercizi di affittacamere; 

b) le attività ricettive a conduzione familiare – bed and breakfast; 

c) le case per ferie; 

d) le unità abitative ammobiliate ad uso turistico; 

e) le strutture ricettive – residence; 

f) gli ostelli per la gioventù; 

g) le attività ricettive in esercizi di ristorazione; 

h) gli alloggi nell’ambito dell’attività agrituristica; 

i) attività ricettive in residenze rurali; 

l) le foresterie per turisti; 

m) i centri soggiorno studi; 

n) le residenze d’epoca extralberghiere; 

o) i rifugi escursionistici; 

p) i rifugi alpini; 

q) ogni altra struttura turistico-ricettiva che presenti elementi ricollegabili a uno o più delle precedenti categorie. 

2. Gli esercizi di affittacamere sono strutture ricettive composte da camere ubicate in più appartamenti ammobiliati nello stesso stabile, nei quali sono forniti alloggio ed eventualmente servizi complementari. 

3. I bed and breakfast sono strutture ricettive a conduzione ed organizzazione familiare, gestite da privati in forma non imprenditoriale, che forniscono alloggio e prima colazione utilizzando parti della stessa unità immobiliare purché funzionalmente collegate e con spazi familiari condivisi. 

4. Le case per ferie sono strutture ricettive attrezzate per il soggiorno di persone o gruppi e gestite, al di fuori di normali canali commerciali, da enti pubblici, operanti senza fine di lucro per il conseguimento di finalità sociali, culturali, assistenziali o sportive, nonché da enti o aziende per il soggiorno dei propri dipendenti e loro familiari. Nelle case per ferie possono altresì essere ospitati dipendenti e relativi familiari, di altre aziende o assistiti dagli enti di cui al presente comma con i quali sia stata stipulata apposita convenzione. 

5. Le unità abitative ammobiliate ad uso turistico sono case o appartamenti, arredati e dotati di servizi igienici e di cucina autonomi, dati in locazione ai turisti, nel corso di una o più stagioni, con contratti aventi validità non inferiore a sette giorni e non superiore a sei mesi consecutivi senza la prestazione di alcun servizio di tipo alberghiero. Le unità abitative ammobiliate a uso turistico possono essere gestite: 

a) in forma imprenditoriale; 

b) in forma non imprenditoriale, da coloro che hanno la disponibilità fino ad un massimo di quattro unità abitative, senza organizzazione in forma di impresa. La gestione in forma non imprenditoriale viene attestata mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, da parte di coloro che hanno la disponibilità delle unità abitative di cui al presente articolo; 

c) con gestione non diretta, da parte di agenzie immobiliari e società di gestione immobiliare turistica che intervengono quali mandatarie o sub-locatrici, nelle locazioni di unità abitative ammobiliate ad uso turistico sia in forma imprenditoriale che in forma non imprenditoriale, alle quali si rivolgono i titolari delle unità medesime che non intendono gestire tali strutture in forma diretta; l’esercizio dell’attività di mediazione immobiliare relativamente a tali immobili è compatibile con l’esercizio di attività imprenditoriali e professionali svolte nell’ambito di agenzie di servizi o di gestione dedicate alla locazione. 

6. Le strutture ricettive – residence sono complessi unitari costituiti da uno o più immobili comprendenti appartamenti arredati e dotati di servizi igienici e di cucina autonomi, gestiti in forma imprenditoriale, dati in locazione ai turisti, con contratti aventi validità non inferiore a tre giorni. 

7. Gli ostelli per la gioventù sono strutture ricettive per il soggiorno e il pernottamento, per periodi limitati, dei giovani e dei loro accompagnatori, gestite, in forma diretta o indiretta, da enti o associazioni. 

8. Le attività ricettive in esercizi di ristorazione sono le strutture composte da camere, ciascuna con accesso indipendente dagli altri locali, gestite in modo complementare all’esercizio di ristorazione dallo stesso titolare e nello stesso complesso immobiliare. 

9. Gli alloggi nell’ambito delle attività agrituristiche sono locali siti in fabbricati rurali gestiti da imprenditori agricoli ai sensi della legge 20 febbraio 2006, n. 96, recante disciplina dell’agriturismo. 

10. Le attività ricettive in residenze rurali o country house sono le strutture localizzate in ville padronali o fabbricati rurali da utilizzare per l’animazione sportivo-ricreativa composte da camere con eventuale angolo cottura, che dispongono di servizio di ristorazione aperto al pubblico. 

11. Le foresterie per turisti sono strutture ricettive normalmente adibite a collegi, convitti, istituti religiosi, pensionati e, in genere, tutte le altre strutture pubbliche o private, gestite senza finalità di lucro che secondo quanto stabilito dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano e, per quelle gestite dagli Enti parco nazionali e dalle aree marine protette, dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare con proprio decreto, offrono ospitalità a persone singole e a gruppi organizzati da enti e associazioni che operano nel campo del turismo sociale e giovanile, per il conseguimento di finalità sociali, culturali, assistenziali, religiose e sportive, al di fuori dei normali canali commerciali. 

12. I centri soggiorno studi sono le strutture ricettive, gestite da enti pubblici, associazioni, organizzazioni sindacali, soggetti privati operanti nel settore della formazione dedicati ad ospitalità finalizzata all’educazione e formazione in strutture dotate di adeguata attrezzatura per l’attività didattica e convegnistica specializzata, con camere per il soggiorno degli ospiti. 

13. Le residenze d’epoca sono strutture ricettive extralberghiere ubicate in complessi immobiliari di particolare pregio storico e architettonico, dotate di mobili e arredi d’epoca o di particolare livello artistico, idonee ad una accoglienza altamente qualificata. 

14. I rifugi escursionistici sono strutture ricettive aperte al pubblico idonee ad offrire ospitalità e ristoro ad escursionisti in zone montane ubicate in luoghi favorevoli ad ascensioni, servite da strade o da altri mezzi di trasporto ordinari, anche in prossimità di centri abitati ed anche collegate direttamente alla viabilità pubblica. 

15. I rifugi alpini sono strutture ricettive ubicate in montagna, ad alta quota, fuori dai centri urbani. I rifugi alpini sono predisposti per il ricovero, il ristoro e per il soccorso alpino e devono essere custoditi e aperti al pubblico per periodi limitati nelle stagioni turistiche. Durante i periodi di chiusura i rifugi alpini devono disporre di un locale per il ricovero di fortuna, convenientemente dotato, sempre aperto e accessibile dall’esterno anche in caso di abbondanti nevicate e durante il periodo di apertura stagionale il servizio di ricovero deve essere comunque garantito per l’intero arco della giornata. 

16. I requisiti minimi per l’esercizio delle attività di cui al presente articolo, sono stabiliti dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, tenuto conto della disposizione di cui all’articolo 15, comma 1.” 

“Art. 53 – 1. Gli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche, in qualsiasi luogo ubicati, sono regolati dalle disposizioni del codice civile in tema di locazione.” 

Come si è messo in evidenza, la legge stessa distingue tra l’attività di affittacamere e quella di affitto turistico individuando la peculiarità di quest’ultima nell’assenza di erogazione di servizi alla persona e prestazioni a carattere alberghiero da parte della proprietà. 

Sembra perciò possibile poter affermare che, già in base a questo aspetto testuale, l’attività pensata dal lettore per l’appartamento in oggetto non rientri nei divieti posti dal regolamento condominiale. A tal proposito corre l’obbligo di menzionare una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 22711/2017, che ha affermato implicitamente come l’assemblea di condominio possa vietare l’utilizzo di un immobile per una determinata attività soltanto qualora quest’ultima sia specificamente individuata nel regolamento di condominio. 

Nel caso in oggetto, la locazione turistica non è specificamente ricompresa nell’elenco dell’art. 14 del regolamento condominiale e, oltretutto, viene tenuta distinta dall’attività di affittacamere dalla legge medesima. 

Resta da esaminare l’applicabilità al caso concreto delle clausole contenute nel regolamento quali “attività che comportino afflusso eccessivo di estranei” o “in genere qualsivoglia altro uso che possa turbare la tranquillità dei condomini”. Si tratta di clausole, a ben vedere, estremamente generiche tuttavia ammesse dalla Corte di Cassazione secondo cui “I divieti e le limitazioni (inerenti alla proprietà esclusiva dei singoli condomini) possono essere formulati nel regolamento sia mediante la elencazione delle attività vietate (in tal caso, al fine di stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, basterà verificare se la destinazione stessa sia inclusa nell’elenco) sia mediante riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (in questo secondo caso, naturalmente, al fine suddetto, è necessario accertare la idoneità in concreto della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti che si vollero evitare)”1. 1 Cfr. Cass. civ, sez. II, n. 20237 del 18.09.2009. 

Ciò detto, anche in considerazione della precedente apertura nel medesimo condominio di attività analoga a quella che i lettori hanno in animo di iniziare e in virtù di quanto sopra esposto, si suggerisce di cercare un confronto assembleare per ottenere il “via libera” senza andare allo scontro sull’opponibilità di questo regolamento al neo proprietario dell’appartamento. 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Enrico Braiato 

Condominio e cibo ai gatti liberi: sussiste un divieto?

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Abito in una cooperativa proprietaria delle strade e degli spazi verdi che non sono recintati e sono percorribili e frequentabili da chiunque. Con una circolare del CdA della cooperativa si vieta ai soci di nutrire le colonie feline ivi presenti con la motivazione che si tratta di un’area privata, appartenente alla cooperativa e non ai singoli soci proprietari solo dei singoli lotti. È legittimo vietare ai soci di alimentare i gatti liberi?

A parere dello scrivente, con riferimento alla normativa e alla giurisprudenza prevalente, nel caso specifico gli spazi della cooperativa sono equiparabili a quelli di un condominio in cui ciascuno è proprietario del proprio appartamento, in questo caso dei singoli lotti, e dispone anche di spazi comuni che possono essere utilizzati senza creare fastidio ad altri, ossia le strade e il verde, anche se non recintati. 

Ad esempio, se si porta il cibo ad un singolo gatto lungo una stradina o su un’area verde della cooperativa lo si fa generalmente con un piatto. Tale piatto potrebbe attirare nuovi gatti e altri animali, come topi ed insetti, attratti dall’odore del cibo. Questi animali sporcherebbero tutta l’area e si troverebbero probabilmente in conflitto per accaparrarsi il sostentamento. 

Il divieto di alimentare i gatti è, a parere dello scrivente, legittimo in quanto, pur trattandosi di una attività nobile che attiene all’amore per gli animali, crea nocumento agli altri, limitando di fatto il possesso delle zone comuni, a causa della presenza di ciotole, sporco e situazioni poco igieniche. 

La giurisprudenza conferma quanto detto. 

Il comportamento configura oggettivamente turbativa nel libero godimento dell’appartamento e relative pertinenze degli appellanti. Questi ultimi, infatti, sono costretti a tenere le finestre chiuse, per evitare che gli animali si introducano all’interno, ovvero possono vedere sporcate la loro autovettura dai gatti che salgono sopra, con evidente limitazione nell’esercizio del loro possesso. 

Quanto all’animus turbandi in capo agli appellati questo è insito nella consapevolezza che il loro comportamento sia idoneo a limitare l’esercizio dell’altrui possesso e, nel caso di specie, nella coscienza che il collocare del cibo per i randagi, in prossimità degli spazi condominiali, consenta il diffondersi dei gatti nell’altrui proprietà, con conseguenti disagi e limitazione del godimento dei propri beni per i vicini.” CORTE DI APPELLO DI ROMA, SEZ. IV CIVILE, sentenza del 29 aprile 2013. 

In tema di condominio negli edifici, ove l’uso della cosa comune da parte di uno dei condomini avvenga in modo da impedire quello, anche solo potenziale, degli altri partecipanti, mentre il danno patrimoniale per il lucro interrotto è da ritenere “in re ipsa”, non altrettanto è da dirsi in relazione al danno non patrimoniale, quale disagio psico-fisico conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, potendosi ammettere il ristoro di tale ultima posta risarcitoria solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale o nei casi espressamente previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 2059 c.c., e sempre che si tratti di una lesione grave e di un pregiudizio non futile. Cassazione civile, sez. VI, 04 Luglio 2018, n. 17460. 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Rossella Blaiotta 

Acquisto casa e spese arretrate

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Sto per acquistare un appartamento ed ho appena letto un articolo sul vostro portale dove si legge che è possibile scoprire se ci sono spese arretrate. Come posso fare questa verifica? 

Come previsto dalle disposizioni di attuazione del codice civile, chi, acquistando un immobile, subentra nei diritti di un condomino, è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente (per anno in corso deve intendersi quello in cui viene emesso il decreto di trasferimento). Nel caso specifico, è dunque importante conoscere lo stato delle spese condominiali a carico dell’attuale proprietario dell’appartamento poiché il lettore potrà essere chiamato a pagare quelle relative al 2018 e al 2017. Questi non dovrà in ogni caso pagare le eventuali spese arretrate degli anni anteriori al 2017. 

Per avere le informazioni sulle spese condominiali, il lettore dovrà necessariamente rivolgersi al custode giudiziario, il quale, in qualità di responsabile della gestione e amministrazione dell’appartamento, sarà a conoscenza anche delle eventuali spese arretrate non pagate dal debitore esecutato. Qualora il custode non ne fosse in possesso, sarà lui stesso a richiedere all’amministratore di condominio i dati contabili/documenti necessari. 

Nel caso di specie, il custode giudiziario nominato dal giudice è l’Istituto vendite giudiziarie.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Maria Monteleone 

Affitto con cedolare secca 2019: quanto si paga

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Come risparmiare in tasse sulle locazioni. La novità: anche i locali commerciali potranno beneficiare del regime agevolato.

Devi affittare una casa a breve e ti starai chiedendo se, con le nuove leggi entrate in vigore, sarà cambiata la normativa sulle tasse da versare. In altre parole, quanto si paga di tasse per una locazione e quanto si paga per un affitto con cedolare secca nel 2019.

Intanto, bisogna dire che l’agevolazione della cedolare secca è stata mantenuta per il prossimo biennio, quindi per il 2019 e per il 2020. Significa che chi affitta una casa a canone concordato e con questa opzione può beneficiare dell’aliquota ridotta al 10%.

Il regime di cedolare secca, infatti, in vigore ormai dal 2011 [1], consente al contribuente di scegliere una tassazione sostitutiva alle aliquote Irpef sui redditi percepiti da un affitto, purché si rinunci all’aumento del canone. In sostanza, paghi meno tasse ma lasci il canone d’affitto invariato per tutta la durata del contratto.

Le possibilità sono due:

  • pagare un’aliquota del 21% sugli affitti a canone libero, cioè senza limiti di prezzo sul canone;
  • pagare un’aliquota del 10% sugli affitti a canone concordato, cioè con un limite minimo e massimo di canone stabilito da accordi tra sindacati di proprietari e rappresentanti di inquilini.

Queste aliquote, forfettarie e fisse, sostituiscono:

  • l’Irpef e le addizionali;
  • l’imposta di registro;
  • l’imposta di bollo di 16 euro.

La Legge di Bilancio 2018, però, prevede una novità importante sulla cedolare secca. Riguarda l’affitto dei locali ad uso commerciale: dal 2019, infatti, negozi e uffici potranno beneficiare di una delle aliquote agevolate.

Vediamo, allora, che cosa prevede la Legge di Bilancio su questo tipo di locazione, quanto si paga per l’affitto con cedolare secca nel 2019 e quando bisogna fare i versamenti dell’imposta in una soluzione unica o in più soluzioni.

Cedolare secca 2019: cambia qualcosa?

L’affitto con cedolare secca nel 2019 per le abitazioni resterà esattamente uguale a quello del 2018. Significa che chi sceglierà questa opzione per il contratto di locazione di un appartamento avrà gli stessi vincoli fiscali: aliquota del 21% per il canone libero e aliquota del 10% per il canone concordato.

La novità principale riguarda l’affitto dei locali ad uso commerciale, cioè di quelli che rientrano nella categoria catastale C/1. Anche questi locali potranno beneficiare della cedolare secca al 21%, purché abbiano una superficie fino a 600 mq, escluse le pertinenze.

Attenzione, però: la cedolare secca non può essere applicata a tutti i contratti di affitto di locali commerciali. Restano esclusi quelli stipulati nel 2019 che risultavano non scaduti al 15 ottobre 2018 tra gli stessi soggetti e per lo stesso immobile. Una regola anti-furbi, insomma, che si può spiegare con questo esempio.

Io ti affitto a fine 2017 un locale in cui aprirai un bar. Il contratto è di 4 anni, quindi scadrà a fine 2021. Ai primi di ottobre 2018, però, vengo a sapere che il Governo sta per inserire nella Legge di Bilancio una cedolare secca per i locali ad uso commerciale, quindi anche per il bar che gestisci nel mio locale. Una scelta che mi conviene ed alla quale voglio aderire. Te ne parlo e decidiamo di interrompere il contratto con tre anni di anticipo per farne uno nuovo con la cedolare secca del 21%. È qui che il Governo mi dice: «Non si può fare, perché prima del 15 ottobre 2018 il tuo contratto con la stessa persona e per lo stesso locale era ben lontano dalla sua scadenza». Avrei potuto farlo se il contratto scadeva a fine settembre 2018 e ne avessi fatto uno nuovo dopo il 15 ottobre.

Il regime della cedolare secca è stato molto apprezzato da chi deve affittare un locale ad uso commerciale e anche dalle associazioni di categoria, che vedono in questa soluzione un vantaggio sia per i proprietari (si possono pagare meno tasse) sia per lo Stato (le agevolazioni invogliano a non affittare in nero).

Cedolare secca 2019: quale vantaggio economico?

Ecco, dicevamo dei vantaggi economici dell’affitto con cedolare secca per il 2019. Quello per eccellenza consiste nel pagare meno tasse, che è il sogno di ogni contribuente. Lo vediamo con qualche esempio.

Immagina di avere un appartamento che hai messo in affitto a canone libero, cioè senza limiti di prezzo. Se vuoi beneficiare della cedolare secca pagherai, pertanto, un’aliquota fissa del 21%. Se chiedi all’inquilino 700 euro mensili di affitto, ricaverai ogni anno 8.400 euro. Dovrai versare allo Stato il 21% di 8.400 euro, cioè 1.764 euro.

Se, invece, hai optato per il canone concordato, vale a dire per quello che ti impone un minimo ed un massimo di importo di affitto, dovrai applicare l’aliquota del 10%. Significa che per un canone di 500 euro, ricaverai ogni anno 6.000 euro e che dovrai pagare allo Stato 600 euro di tasse su quello che hai incassato, cioè il 10% di 6.000. Tutto il resto rimane a te come guadagno.

Ricorda, comunque, che la cedolare secca è revocabile, cioè che, pur rispettando le scadenze del contratto, puoi tornare quando vuoi alla tassazione ordinaria e viceversa. Sempre che ti convenga, ovviamente. Ad ogni modo, puoi comunicare la revoca all’Agenzia delle Entrate utilizzando il modello Rli o il modello F24 Elide con elementi identificativi.

La cedolare secca dà diritto ad altre agevolazioni fiscali sia al proprietario dell’immobile sia all’inquilino.’

Agevolazioni per il proprietario dell’immobile

Il proprietario di una casa affittata con la cedolare secca 2019, può avere un’ulteriore riduzione del 30% del reddito imponibile dei fabbricati ai fini Irpef, se nella dichiarazione dei redditi vengono indicati i dettagli della registrazione del contratto che riguardano la dichiarazione Imu.

C’è anche la possibilità di ottenere uno sconto del 75% sull’aliquota Imu e Tasi del Comune in cui si trova l’immobile affittato a canone concordato.

Ricorda anche che il reddito che ricavi dall’affitto con cedolare secca non va sommato a quello che percepisci per altri motivi (ad esempio per il tuo lavoro). Quindi non rischi di dover cambiare scaglione Irpef per colpa di ciò che ti entra dai canoni di locazione. Tuttavia, se vuoi scaricare delle spese dovrai farlo dal tuo reddito Irpef e non da quello che percepisci per gli affitti.

Agevolazioni per l’inquilino

Pure l’inquilino può trarre un vantaggio dall’affitto con cedolare secca. Si tratta della detrazione fiscale del canone di affitto entro questi limiti:

  • 495,80 euro per redditi non superiori a 15.493,71 euro;
  • 247,90 euro per redditi tra 15.493,71 euro e 30.987,41 euro.

Se l’inquilino trasferisce la propria residenza nell’immobile in cui abita in affitto, ha diritto ad un’ulteriore detrazione pari a 991,60 per i primi 3 anni di locazione.

Cedolare secca 2019: come si paga?

Per pagare la cedolare secca 2019 hai due alternative:

  • la busta paga se, al momento di presentare la dichiarazione dei redditi, utilizzi il modello 730;
  • il modulo F24 se, al momento della dichiarazione dei redditi, utilizzi il modello Unico (cioè se sei un professionista, un autonomo o hai un reddito di impresa).

In quest’ultimo caso, sull’F24 troverai questi codici:

  • 1840: cedolare secca locazioni – acconto prima rata;
  • 1841: cedolare secca locazioni – acconto seconda rata o soluzione unica;
  • 1842: cedolare secca locazioni – saldo.

Se l’importo della cedolare secca è inferiore a 257,52 euro, potrai pagarlo in un’unica soluzione. Viceversa, se viene superata quella cifra potrai pagare un acconto del 95% e successivamente il saldo del restante 5%. A sua volta, come abbiamo visto nei codici dell’F24, è possibile «sdoppiare» quel 95% in due rate, pagando prima il 60% e poi il 40%.

Per fare un esempio: se devo pagare 1.000 euro di cedolare secca in più momenti, dovrò versare:

  • un acconto di 950 euro (il 95%);
  • un saldo di 50 euro (il 5%).

L’acconto lo pagherò, come vedremo tra poco, in due momenti ed in questo modo:

  • il 40% di 950 euro, quindi 380 euro;
  • il restante 60% di 950 euro, quindi 570 euro.

Cedolare secca 2019: quando si paga?

Non solo quanto ma anche quando. La cedolare secca 2019 va pagata con le stesse scadenze dell’Irpef dall’anno successivo in cui è iniziato l’affitto della casa. Nel dettaglio, se la cedolare secca è iniziata nel 2018 le scadenze saranno:

  • il 30 giugno 2019 per il primo acconto (il 40% del 95% del totale);
  • il 30 novembre 2019 per il secondo acconto (il 60% del 95% del totale);
  • il 30 giugno 2020 per il saldo (il 5% del totale).

In pratica, e tornando all’esempio di prima, le scadenze per chi deve pagare 1.000 euro di cedolare secca del 2018 sono:

  • il 30 giugno 2019 per il primo acconto di 380 euro;
  • il 30 novembre 2019 per il secondo acconto di 570 euro;
  • il 30 giugno 2020 per il saldo di 50 euro.

Chi deve effettuare il pagamento della cedolare secca 2018 in una soluzione unica deve farlo entro il 30 novembre 2019.

Cedolare secca 2019: posso farla su un affitto breve?

Se sei proprietario di una casa che affitti soltanto per poche settimane o, comunque, per non più di 30 giorni per volta (ad esempio ai turisti per le vacanze o ai lavoratori che hanno bisogno di periodi brevi di soggiorno senza pagare un albergo) puoi beneficiare della cedolare secca 2019. Questi contratti, lo ricordiamo, possono essere firmati da persone fisiche e non hanno bisogno di registrazione.

Oltre agli affitti brevi, la cedolare secca 2019 interessa anche:

  • i contratti di sublocazione:
  • la concessione in godimento oneroso da parte del comodatario;
  • la locazione che comprende servizi accessori come la pulizia dell’appartamento, la fornitura e la stiratura della biancheria, ecc.).

L’aliquota applicata è quella del 21% a condizione che:

  • non venga richiesto un particolare schema contrattuale;
  • riguardi un’unità immobiliare diversa da quella di categoria catastale A/10 ed ubicata in Italia;
  • le parti siano persone fisiche ed il contratto escluda l’esercizio di attività di impresa;
  • il contratto abbia una durata massima di 30 giorni.

Cedolare secca 2019: le sanzioni

Chi fa il furbo e vuole beneficiare delle agevolazioni della cedolare secca 2019 senza, però, rispettare le regole va incontro a pesanti sanzioni. In particolare, dovrà pagare:

  • dal 120% al 240% dell’imposta dovuta per omessa registrazione del contratto;
  • dal 200% al 40%% dell’imposta dovuta per nascondere al Fisco una parte del canone;
  • il 30% dell’imposta versata in ritardo;
  • 35 euro per risolvere un contratto con 30 giorni di ritardo;
  • 67 euro per risolvere un contratto con oltre 30 giorni di ritardo.

Rimborso spese anticipate dall’amministratore di condominio

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Prescrizione del recupero delle anticipazioni fatte dall’amministratore di condominio; quale prova per ottenere i soldi anticipati?

Il caso è assai ricorrente: alla fine dell’anno di gestione o al momento della sua sostituzione, l’amministratore presenta all’assemblea il conto di tutte le spese da lui anticipate per conto del condominio. I proprietari degli appartamenti non ne vogliono sapere; si lamentano del mancato utilizzo del fondo cassa e dell’assenza di autorizzazioni. A nessuno piace che i propri soldi vengano spesi senza un preventivo parere, men che meno nei condomini dove si discute anche per 10 euro in più sulle bollette. E così vengono indette riunioni fiume per decidere il da farsi. L’atteggiamento di chi bypassa l’assemblea non piace quasi sempre nel momento in cui c’è da restituire i soldi spesi perché, quando invece bisogna attivarsi e prendere le decisioni urgenti, tutti se ne lavano le mani. Ecco perché il rimborso delle spese anticipate dall’amministratore di condominio è spesso motivo di conflitto e scatena lunghe azioni legali. 

Il codice prevede i casi in cui l’amministratore può, anzi deve, agire senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea maturando poi il diritto alla restituzione dei soldi versati nell’interesse del condomino. A ciò si aggiunge una copiosa serie di pronunce emesse, in questi anni, dalla giurisprudenza. Una recente sentenza del tribunale di Roma [1] offre lo spunto per tornare sul tema del recupero delle anticipazioni fatte dall’amministratore di condominio. Vediamo cosa dice la legge in merito. 

Quando l’amministratore di condominio può chiedere il rimborso spese

L’amministratore resta in carica un anno, a partire dal giorno dell’accettazione della nomina. Al termine dell’incarico annuale, il mandato è rinnovato automaticamente per un altro anno. All’atto dell’accettazione dell’incarico conferitogli dall’assemblea, l’amministratore deve presentare il preventivo delle proprie competenze a pena di nullità della nomina stessa. È solo in questa sede che può chiedere specifiche voci ulteriori rispetto all’attività prestata per la gestione ordinaria, come ad esempio quelle per la partecipazione ai lavori di ristrutturazione e manutenzione dello stabile. I compensi extra che non sono stati autorizzati all’atto della nomina non possono più essere chiesti in un momento successivo. 

Oltre al compenso per l’attività ordinaria prestata in favore del condominio, l’amministratore può chiedere il rimborso delle spese sostenute nell’esercizio della sua carica. Tali spese devono essere per forza documentate e presentate in sede di approvazione assembleare del preventivo. Dovranno quindi essere esibiti gli scontrini e le fatture giustificative degli acquisti fatti. Tra queste, di norma rientrano ad esempio i costi di cancelleria, fotocopie, raccomandate.

Ulteriori costi possono essere richiesti a rimborso previa approvazione assembleare. Ad esempio, possono essere conteggiate a parte le spese sostenute per appuntamenti con professionisti esterni, predisposizione pratiche burocratiche, ecc.

Rimborsi per lavori urgenti

Una disciplina speciale è prevista per i lavori urgenti in condominio. Tra i compiti dell’amministratore [2] vi è quello di preservare lo stabile ed evitare tutti i possibili danni che possono essere arrecati alle parti comuni. Pertanto, se risulta urgente e necessario effettuare lavori di manutenzione straordinaria dello stabile condominiale e non c’è il tempo per convocare l’assemblea e ottenere l’autorizzazione dei condomini all’avvio delle opere, l’amministratore è obbligato a intervenire immediatamente e incaricare una ditta esterna per le riparazioni (a pena di responsabilità personale in caso di inerzia). Egli deve cioè adoperarsi per evitare che si verifichino danni a persone o cose eliminando la situazione di pericolo. Il caso tipico è quello del cornicione che minaccia di cadere e di fare male ai passanti. 

Una volta che ha autorizzato l’avvio dei lavori, l’amministratore deve convocare senza indugio l’assemblea e riferire ai condomini di tale situazione affinché la spesa sia ratificata, cioè accettata. Quando agisce in tal modo, l’amministratore che ha anticipato delle spese per lavori urgenti ha diritto al rimborso delle spese sostenute. Se però dovesse risultare che le spese non erano urgenti, sarà l’assemblea a decidere se concedere o meno il rimborso.

Si verifica un’urgenza quando sussiste una stretta, immediata ed impellente necessità di agire onde scongiurare un grave pregiudizio per la collettività condominiale.

Prescrizione rimborso spese amministratore di condominio

Quanto tempo ha l’amministratore di condominio per chiedere il rimborso delle spese dal momento in cui le ha sostenute? Secondo la Cassazione [3] ha dieci anni di tempo. Tale è quindi la prescrizione del diritto al recupero delle anticipazioni fatte dall’amministratore di condominio. Non rileva il fatto che tale credito sia di solito portato a conoscenza dei condomini in un momento successivo, ossia in sede di presentazione del rendiconto annuale. 

Chi deve pagare il rimborso spese all’amministratore?

Secondo la Cassazione [4], alla scadenza dell’incarico, l’amministratore può chiedere il rimborso delle somme da lui anticipate per la gestione condominiale sia nei confronti del condominio (rappresentato dal nuovo amministratore) sia, cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino. Ogni proprietario ha infatti l’obbligo personale di rimborsare all’amministratore mandatario le anticipazioni da questo fatte nell’esecuzione dell’incarico; tale obbligazione sorge nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione e per effetto di essa, e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore. 

Le prove per il recupero delle spese anticipate dall’amministratore

Il problema principale per l’amministratore, cessato dall’incarico, che chiede il rimborso delle anticipazioni è procurarsi le prove delle stesse atteso che, spesso, egli non è più in possesso della documentazione condominiale. Secondo la sentenza del tribunale di Roma [1], se il condominio non ha mai contestato il credito, né in assemblea né in giudizio (ad esempio non costituendosi), il suo silenzio equivale a una ammissione di debito. A dire il vero, nel caso di specie, la prova del credito non si era limitata al comportamento indifferente/negligente del condominio ma ha compreso anche la produzione di altra documentazione da parte dell’ex amministratore (copia dei bonifici bancari dei suoi pagamenti, un verbale di assemblea in cui non si contesta il suo credito, il “passaggio di consegne” che, seppur non ha l’efficacia propria della ricognizione di debito, costituisce comunque un indizio liberamente valutabile dal giudice).

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