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Mancata esibizione documenti amministratore condominio

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Cosa fare se l’amministratore rifiuta di esibire i documenti di spesa? La mancata esibizione dei documenti da parte dell’amministratore del condominio è illegittima e consente azioni legali di tutela.

L’amministratore che non esibisce ai condomini i documenti di spesa giustificativi della sua gestione commette una grave irregolarità che contravviene alle regole del suo incarico; può addirittura essere revocato se i condomini si rivolgono al giudice. Anche la delibera dell’assemblea che abbia approvato un bilancio condominiale senza i condomini abbiano potuto visionare i documenti giustificativi può essere annullata. I componenti del condominio – e non solo i proprietari, ma anche gli inquilini, per la parte di documenti che li riguardano – hanno un vero e proprio diritto, riconosciuto espressamente dal codice civile [1], ad ottenere, su semplice richiesta, i documenti necessari a controllare l’operato dell’amministratore e la regolarità della sua gestione. La legge prevede che  ogni amministrazione debba essere corretta e trasparente e impone che siano sempre messi a disposizione tutti i documenti che rendicontano le operazioni svolte, tra cui i pagamenti effettuati e le entrate ricevute. L’amministratore agisce nell’interesse del condominio ed ha un obbligo primario di rendere conto della gestione a tutti i condomini che lo richiedano. I condomini, per essere in grado di esercitare il loro potere di controllo sull’operato dell’amministratore, hanno pieno diritto all’esame della documentazione condominiale e all’accesso ai documenti relativi ad essa. Se ti stai domandando quali possono essere le conseguenze della mancata esibizione documenti amministratore condominio, continua a leggere questo articolo.

Chi è legittimato a richiedere la documentazione?

Innanzitutto i proprietari delle unità immobiliari che costituiscono il condominio, ma anche gli usufruttuari e gli inquilini, sia che abbiano un contratto di locazione sia che godano gratuitamente dei locali come comodatari. Tuttavia, queste ultime categorie avranno diritto ad accedere ai soli documenti che li riguardano, ossia quelli relativi alle spese cui sono chiamati a partecipare: ad esempio, un inquilino non potrà visionare i documenti relativi alle spese straordinarie di ristrutturazione dell’edificio, in quanto esse non sono di sua competenza.

Tali qualifiche devono risultare dall’anagrafe condominiale, che dovrà aggiornata con le apposite comunicazioni in caso di variazioni della titolarità dei diritti: ad esempio gli eredi, gli acquirenti dell’immobile compravenduto, o i nuovi inquilini.

Quali documenti è possibile richiedere?

La legge limita la facoltà di ogni condomino di richiedere senza limiti i documenti solo a quelli che rientrano nella categoria dei giustificativi di spesa [2] cioè quelli relativi ai pagamenti effettuati dal condominio: non sarà possibile, ad esempio, ottenere su semplice richiesta altri tipi di documenti come, ad esempio, quelli relativi al pagamento delle quote condominiali da parte degli altri condomini e le informazioni sulla loro situazione contabile, oppure quelli relativi allo stato dell’edificio condominiale.

E’ possibile richiedere non solo i documenti relativi all’annualità in corso, ma anche quelli precedenti: la legislazione civile impone l’obbligo di conservazione delle scritture contabili del condominio e dei documenti giustificativi per dieci anni. Va ricordato che le entrate e le uscite devono rispettare il principio di tracciabilità, pertanto tutte le operazioni di gestione devono transitare attraverso il conto corrente condominiale e mai attraverso il patrimonio personale dell’amministratore. Anche gli estratti di tale conto corrente acceso a nome del condominio rientrano, quindi, tra i documenti per i quali vi è pieno diritto di prendere visione.

Quando è possibile richiedere i documenti?

La documentazione condominiale può essere richiesta in qualsiasi momento, e non più, come avveniva in passato, solo nei giorni antecedenti al momento dell’approvazione annuale del bilancio consuntivo da parte dell’assemblea. L’amministratore del condominio al momento della sua nomina deve rendere noti i giorni e gli orari in cui ogni interessato può recarsi presso di lui per prendere visione della documentazione condominiale. Questo consente di potersi direttamente recare presso l’ufficio o studio dell’amministratore, in tali giorni ed orari previsti, per prendere visione della documentazione ed esaminarla.

In casi particolari, come ad esempio quando si tratta di documentazione voluminosa, l’amministratore potrà differire l’incontro purché a breve termine e secondo ragionevolezza. Nel caso in cui il richiedente non sia personalmente conosciuto dall’amministratore, dovrà dimostrare il possesso della qualità di condomino, esibendo il proprio documento di riconoscimento in modo da consentire di verificare se il suo nominativo sia effettivamente inserito nell’anagrafe condominiale, e dunque se egli abbia diritto ad accedere ai documenti.

Come deve essere richiesta la documentazione?

Come abbiamo appena visto, basta presentarsi direttamente negli uffici durante i giorni ed orari comunicati per l’apertura e chiederli verbalmente; altrimenti, è possibile formulare una richiesta con qualsiasi strumento di comunicazione: ad esempio una semplice lettera o anche una e-mail.

La richiesta può essere generale e riguardare tutti i documenti relativi all’annualità di bilancio condominiale in esame, oppure specifica, ad esempio una richiesta delle spese sostenute per il combustibile da riscaldamento, per la manutenzione dell’ascensore, per la pulizia delle scale, per le riparazioni di determinate parti comuni, o relativa agli acquisti fatti da un determinato fornitore. La richiesta di esibizione non deve essere motivata, cioè non è necessario indicare le ragioni a suo sostegno: l’amministratore è mandatario nell’interesse dei condomini, e tutta la documentazione che egli forma o conserva è di loro proprietà.

Il diritto di ogni condomino di esaminare e valutare ogni aspetto della gestione, ed in particolare le spese sostenute dal condominio, è espressamente previsto a suo favore dalla legge e non richiede giustificazione alcuna per poter essere esercitato.

Quindi, l’amministratore deve mostrare i documenti giustificativi di spesa a semplice richiesta, purché chi la effettui abbia la necessaria qualità di condomino, usufruttuario o inquilino, e la manifesti in tempi e modi ragionevoli, secondo il principio di correttezza.

Ad esempio non sarebbe possibile richiedere e pretendere di ottenere entro la giornata stessa tutti i giustificativi di spesa di un annualità condominiale, se la richiesta fosse formulata al termine della giornata lavorativa e magari a pochi minuti dall’orario di chiusura dello studio. Mentre il condomino può formulare liberamente la richiesta senza necessità di indicarne le ragioni, l’amministratore, se intende rifiutarsi, deve indicare in maniera espressa i motivi del suo diniego, che devono essere validi e legittimi: ad esempio, perché i documenti richiesti hanno natura personale per altri condomini, o perché il richiedente non ha dimostrato la sua identità e qualità di condomino, esibendo o allegando alla richiesta un documento di riconoscimento.

La richiesta è gratuita o a pagamento?

Bisogna tenere presente che la semplice presa di visione dei documenti è sempre gratuita, ma se viene richiesto anche il rilascio di copie, il richiedente sarà tenuto a sostenere le spese necessarie, sostenendone interamente il costo, che non potrà mai gravare sul condominio.

In tali casi, se il richiedente non provvede ad anticipare o comunque a corrispondere le spese necessarie per effettuare le copie, l’amministratore potrà rifiutare il rilascio sino a quando esse non siano state pagate. Nel costo rientrano anche le spese di spedizione, se chi ha formulato la richiesta desidera che gli vengano spedite. L’ottenimento di copie, dunque, non è gratuito come la semplice visione, ma è subordinato al rimborso delle spese da parte di chi abbia formulato la richiesta.

Chiaramente tutte queste spese dovranno essere debitamente documentate dall’amministratore. La situazione può essere semplificata utilizzando una possibilità ancora poco conosciuta, il sito internet condominiale, la cui attivazione è però facoltativa e ancora non diffusa: in tali casi sarà possibile porre in visione la copia digitale dei documenti, anche consentendone lo scaricamento e dunque la disponibilità sul proprio computer o dispositivi mobili.

Dovranno essere adottati, però, i dovuti accorgimenti tecnici – a partire dal nominativo e password – per autorizzare all’accesso solo chi ne abbia diritto e come tale si sia preventivamente registrato al sito.

Se l’amministratore non fornisce i documenti che succede?

Ogni amministratore, per ben espletare al proprio incarico, ha l’onere di  dotarsi di un’organizzazione, sia pur minima, in grado di fronteggiare tutti gli adempimenti connessi al suo incarico, tra i quali quelli necessari a fronteggiare le eventuali richieste di esame e rilascio copie di documentazione.

Non sarebbe dunque possibile rifiutare di riscontrare le richieste adducendo motivi di complessità, di indisponibilità personale o di impossibilità, salvi i casi del tutto eccezionali ed incolpevoli (un grave infortunio, un’alluvione, ecc.).

Se l’amministratore non ottempera, cioè non dà riscontro in un tempo ragionevole alla richiesta che gli è stata rivolta, o si rifiuta senza fornire alcun motivo valido, sarà necessario inoltrare nei suoi confronti una lettera di diffida legale. Questo adempimento serve per poter dimostrare, successivamente e davanti al giudice, che era stata formulata nei suoi confronti una richiesta esplicita di esibizione, alla quale egli non ha adempiuto. Infatti l’onere di provare che si era richiesta la documentazione all’amministratore, e che egli non ha provveduto, spetta al condomino che agisce in giudizio per far valere questo inadempimento.

Una richiesta formale, ad esempio inviata con lettera raccomandata o PEC, fornisce valida prova della sua effettuazione; limitarsi alla sola richiesta verbale renderebbe più difficile fornire in giudizio la prova di averla effettuata, in quanto occorrerebbero dei testimoni in grado di affermarlo, ed il contenzioso sarebbe di esito più incerto.

Le conseguenze della mancata esibizione

Se emerge che l’amministratore non aveva consentito la visione dei documenti ai condomini che ne avevano fatto richiesta, la delibera dell’assemblea di approvazione del bilancio consuntivo è annullabile, perché l’amministratore ha violato un suo preciso obbligo e mancava un elemento necessario per valutare la correttezza del rendiconto di gestione e del conseguente bilancio [3]. Infatti, che se i condomini non hanno avuto conoscenza piena e adeguata dei documenti giustificativi di spesa non potevano partecipare all’assemblea in maniera informata ed esprimere un valido voto di approvazione del bilancio; quindi la delibera è viziata e potrà essere annullata ricorrendo al giudice impugnandola con ricorso entro 30 giorni.

La conseguenza più grave a carico dell’amministratore inadempiente è che egli potrà essere revocato, cioè rimosso dal suo incarico, con provvedimento dell’assemblea appositamente convocata, oppure con ricorso giudiziale instaurato dai condomini interessati, perché la mancata esibizione dei documenti può costituire una grave irregolarità di esercizio del suo mandato, tale da impedirgli di proseguirlo.

Questa conseguenza, però, non è automatica, ma dovrà essere il giudice a valutare, caso per caso, la gravità dell’inadempimento, tenendo conto di tutte le circostanze concrete: ad esempio, non è grave irregolarità il comportamento di un amministratore che non aveva riscontrato entro cinque giorni una richiesta avanzata nel mese di agosto, periodo di ferie, e per la quale poi i condomini, che erano stati invitati a recarsi presso l’ufficio alla riapertura dello studio, non si erano presentati [4].

Di PAOLO REMER


Diritti inquilino senza contratto

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Inquilino in nero: se il contratto non è stato registrato o se l’accordo è solo verbale (“a parole”), la nullità è relativa e impone obblighi solo per il proprietario di casa.

Sei in affitto da diversi mesi. Il padrone di casa ti ha sottoposto un contratto che non è mai stato regolarmente registrato. Ora sono sorte delle contestazioni in merito ad alcuni lavori da eseguire all’interno dell’appartamento. Hai già sostenuto diverse spese che non ti competevano e ne pretendi – per come è giusto che sia – il rimborso. Per altro verso, bisogna avviare interventi di manutenzione per rendere confortevole l’immobile, tra cui la sostituzione della caldaia. Il locatore però non ne vuol sapere. Vuoi, a questo punto, recedere dal contratto ma non sai se devi fornire una giustificazione col preavviso oppure se, trattandosi di un “affitto in nero”, ci sono regole particolari. Ti sembrerà strano ma la giurisprudenza, in tutti questi anni, ha elaborato una vera e propria guida sui diritti dell’inquilino senza contratto. Di tanto parleremo qui di seguito.

Ti spiegheremo quali sono i doveri del padrone di casa che ha dato in affitto la casa senza contratto o con un contratto scritto ma non registrato oppure, in ultimo, con un contratto registrato riportante però un canone inferiore rispetto a quello effettivamente corrisposto (secondo accordi evidentemente verbali). In tutte queste ipotesi, infatti, è possibile parlare di diritti dell’inquilino senza contratto o, come si dice in gergo comune, “inquilino in nero”.

Contratto di affitto verbale o non registrato

La legge [1] stabilisce che il contratto di affitto debba essere registrato a pena di nullità. L’adempimento viene posto a carico del padrone di casa e va eseguito entro 30 giorni dalla firma della scrittura privata. Poiché però dalla mancata registrazione possono derivare effetti negativi anche per l’inquilino, essendo questi responsabile in solido con il locatore per l’omesso versamento dell’imposta di registro, a quest’ultimo è consentito procedere autonomamente alla registrazione. Leggi sul punto Affitto in nero: conseguenze inquilino.

Se non è registrato, il contratto di affitto non si può considerare valido. È comunque possibile, a detta della Cassazione, la registrazione tardiva per sanare sia l’irregolarità tributaria (evitando così l’accertamento fiscale), sia quella civile (evitando così la nullità del contratto).

Non c’è alcuna differenza tra un contratto di affitto non registrato e un contratto di affitto verbale (ossia non scritto): entrambi sono nulli. In sintesi, la locazione (tanto quella a uso commerciale quanto quella a uso abitativo) deve essere per forza registrata: non ci sono altre possibilità.

La nullità del contratto non implica però che questo sia completamente privo di effetti. L’accordo infatti sortisce effetti solo per l’inquilino in capo al quale – come vedremo a breve – sorgono dei diritti e non dei doveri. Ciò perché si presume che la nullità del contratto sia stata causata dalla volontà del locatore, interessato a ottenere un vantaggio d’imposta tramite l’evasione fiscale. Si ha così quella che tecnicamente viene detta “nullità relativa”, valevole cioè solo per il locatore. Detto in termini ancora più spiccioli, il padrone di casa non può vantare alcun diritto ma l’affittuario sì.

Se, tuttavia, dovesse risultare che la mancata registrazione è frutto di un accordo voluto da ambo le parti, la nullità sarà assoluta e il contratto non produrrà alcun effetto neanche per l’inquilino (il quale, di conseguenza, non potrà accampare neanche diritti). Scatta allora la “nullità assoluta”.

Tali chiarimenti sono contenuti in due importanti sentenze della Cassazione a Sezioni Unite [2].

Naturalmente la prima ipotesi, quella della nullità relativa, in cui l’inquilino subisce la scelta del locatore di non registrare il contratto, è quella che più di frequente si verifica. Ed è proprio in questa situazione che il conduttore può rivendicare dei diritti. Li elencheremo qui di seguito, distinguendoli a seconda della situazione concreta in cui questi si trova. Tieni conto però che i diritti dell’inquilino in nero non sono sanciti da una legge, ma da una serie di sentenze della Cassazione. È stata quindi la giurisprudenza a colmare il vuoto legislativo.

Contratto non registrato o non scritto

Nel caso di contratto non registrato o non scritto, tutte le clausole in esso contenute non hanno valore per l’inquino ma vincolano il padrone di casa. Questo significa che il conduttore ha il diritto di:

  • recedere dal contratto senza giusta causa in qualsiasi momento anche se gli accordi stretti con il locatore (verbali o scritti, ma non registrati) sono differenti;
  • recedere dal contratto senza dare il preavviso. Egli potrà quindi abbandonare l’appartamento in qualsiasi momento;
  • interrompere i pagamenti del canone e, addirittura, pretendere la restituzione di quelli corrisposti in passato, almeno fin quando il contratto non è stato registrato. Il tutto senza rischio di subire un decreto ingiuntivo o uno sfratto.

A quest’ultimo riguardo, secondo i giudici supremi – che sul punto si sono espressi, per la prima volta, con una sentenza del dicembre 2016 [3] – se è vero che il contratto non registrato è nullo per legge, è anche vero che le somme versate dall’inquilino a titolo di canone non hanno ragione di essere, sono cioè prive di una valida “causa”. In assenza quindi di un legittimo motivo a giustificare il trasferimento del denaro, quest’ultimo va rimborsato dal primo all’ultimo euro.

La prescrizione: l’inquilino può esercitare tale azione di restituzione in qualsiasi momento di durata del rapporto di locazione o, in caso di rilascio dell’immobile, non oltre sei mesi da tale momento. In tal modo, egli potrà recuperare tutto quanto indebitamente corrisposto al padrone di casa [4].

Altro diritto dell’inquilino senza contratto è quello di poter rimanere dentro l’immobile nonostante l’avvio del procedimento di sfratto. Difatti, la procedura accelerata della cosiddetta convalida di sfratto (per morosità o per finita locazione) è possibile solo in presenza di un contratto scritto e registrato. Con la conseguenza che il locatore, per mandar via l’affittuario, dovrà fargli intentargli una causa ordinaria (per occupazione “senza titolo”), molto più lunga e costosa.

Contratto registrato ma con un canone inferiore a quello denunciato

Succede spesso che il padrone di casa registri l’affitto indicando un canone inferiore di quello convenuto a voce, al fine di pagare meno tasse. Se il contratto di locazione è stato registrato, ma insieme ad esso è stato concordato, con un patto nascosto, un corrispettivo superiore rispetto a quello “ufficiale”, il patto sottobanco è nullo. In tal caso, l’inquilino ha il diritto di:

  • non pagare la maggiorazione “in nero”, senza rischio di subire un decreto ingiuntivo o uno sfratto. Egli infatti è tenuto a corrispondere solo le somme indicate nel contratto registrato e non anche il “canone extra” non dichiarato;
  • ottenere la restrizione, fino a sei mesi dopo l’abbandono dell’immobile, delle somme in più eventualmente versate.

Come isolare una parete dai rumori dei vicini

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Hai acquistato da poco casa? Le grida dei vicini sono insopportabili? Insomma i vicini fanno troppo rumore?  Sono diversi e molteplici i sistemi per isolare una parete dai rumori dei vicini o, meglio ancora, isolare acusticamente una stanza. Scopriamo insieme come.

E’ risaputo che il problema dei vicini rumorosi risale alla notte dei tempi, pertanto è una questione che si presenta ogni qual volta ci si trova in un’abitazione condominiale o in villette a schiera dove il vicino, spesso e volentieri, è pressoché adiacente in maniera imbarazzante alla nostra abitazione. Capita a volte di comprare casa, oppure  ristrutturare pensando di aver valutato tutto a regola d’arte, considerando tutti i confort possibili e immaginabili (l’arredo più bello, le disposizioni delle stanze, le tecnologie più avanzate, ecc.). Purtroppo, e non di rado, ci si ritrova invece ad affrontare ulteriori problematiche, che spesso e volentieri non dipendono direttamente da noi, ma ahimè da vicini molto rumorosi. Nella peggiore delle ipotesi anche vicini impiccioni o litigiosi. Pertanto ci si trova a subire frequentemente i rumori del vicino,  che a volte sono “involontari e naturali” in una normalissima giornata tipo, ma a volte sono insopportabili perché poi studiare, riposare, guardare la televisione in un ambiente quieto e rilassato, diventa un impresa pressoché impossibile. Convivere con rumori persistenti ad ogni ora della giornata mette alla prova anche la persona più calma e tranquilla al mondo.. Sta di fatto che non di rado, i suoni fastidiosi, diventano realmente insopportabili quando ti sconvolgono la vita, un esempio classico: i vicini che organizzano feste frequenti la notte, oppure quando i bimbi giocano a pallone dentro casa nelle prime ore del pomeriggio, soprattutto quando fai il riposino rientrato dalla pausa lavoro. Peggio ancora le passeggiate in casa con gli zoccoli ad ogni ora, ed è proprio lì che tu rischi di impazzire sopportando il tutto. Nei casi peggiori si arriva a vere e proprie inimicizie con i vicini. Alternativamente potresti invece essere proprio tu a voler fare in modo da isolare la stanza da rumori perché magari senti musica ad alto volume e non vuoi disturbare il vicino, oppure fai un’attività rumorosa e preferisci isolare la parete in modo tale da non disturbare. Nella stragrande maggioranza dei casi nessun isolamento acustico, per quanto perfetto possa essere realizzato, ti potrà esimere dal non sentir rumori, in quanto gli stessi possono provenire dalla parete laterale, dal soffitto o da sotto il pavimento ed inoltre dipende sempre dalla tipologia del rumore, se lieve o intenso, se breve o prolungato. La vivibilità di un ambiente dovrebbe essere tale da consentire a chi lo abita di poter godere i propri momenti di relax, senza preoccuparsi  di adoperarsi per risolvere problemi di eccessivo rumore proveniente dai vicini di abitazione. Dovrebbe essere sempre rispettato il quieto vivere altrui ed avere senso di responsabilità, mettendosi nei panni degli altri e considerare cosa faremmo se a subire molestie sonore fossimo noi.  Dunque, proviamo ad esaminare come isolare una parete dai rumori dei vicini.

Quali soluzioni per isolare acusticamente una parete?

Il disagio per i rumori che provengono dall’esterno della nostra abitazione, non è detto che sia solo una prerogativa degli appartamenti nei condomini o delle villette a schiera, ma può risultare necessario valutare un isolamento acustico anche per chi possiede una casa indipendente, a volte per rumori provenienti dall’esterno (tipo animali, treni, bus, ecc.).

Pertanto per isolare una parete dai rumori dei vicini al meglio, esistono molteplici materiali e diverse soluzioni, le variabili possono essere diverse. Noi esamineremo le soluzioni più efficaci. Se vuoi impedire al suono di diffondersi all’esterno della parete, facendo in modo che qualunque rumore o suono rimanga all’interno della tua stanza allora hai necessità di utilizzare pannelli fonoisolanti.

Se invece hai bisogno che il suono sia completamente assorbito dal materiale che andrai ad utilizzare allora devi utilizzare pannelli fonoassorbenti. Qual è la differenza tra materiale fonoassorbente e materiale fonoisolante? I pannelli fonoassorbenti sono utilizzati per consentire un elevata qualità acustica e sonora all’interno del proprio ambiente, mentre i pannelli fonoisolanti, che fanno evidentemente al caso tuo, proteggono e isolano dai rumori esterni, per cui non permettono ai rumori dei vicini di crearti disturbo.

I materiali presenti in commercio sono davvero tanti e, a seconda dell’azienda o del professionista di settore, ci si trova a valutare diverse soluzioni che a volte ti possono portare anche in confusione, essendo piuttosto numerose. La soluzione migliore sarebbe una combinazione fra i due materiali fonoassorbente e fonoisolante.

Esempi di pannelli isolanti

I prodotti più frequentemente utilizzati per isolare acusticamente una parete confinante con un appartamento adiacente sono i pannelli in lana di roccia o pannelli in lana di vetro, alternativamente anche pannelli in cartongesso o gessofibra. Questa tipologia di pannelli consente anche un ottimo isolamento termico, per cui apprestandosi a realizzare una tipologia di lavoro in tal senso, si ottengono miglioramenti su più fronti.

Ottime prestazioni le forniscono anche i pannelli in sughero, utilizzati soprattutto per il calpestio. Ulteriori materiali sono i pannelli in fibra di legno, i pannelli in poliuretano espanso e in polistirene. Più costosi sono i pannelli in piombo. Ci fermiamo a questi in quanto sono i più diffusi, perché se volessimo elencare tutti i tipi di materiali che sono impiegati a trattare al meglio l’isolamento acustico, dovremmo fare un elenco piuttosto importante e probabilmente ci porterebbe ad un elevato grado di confusione.

Inoltre, ogni tipologia di materiale ha la sua caratteristica di posa e di lavorazione, per cui scegliendo il metodo a te più consono per isolare la parete dai rumori dei vicini, di conseguenza sarà messa in opera una tecnica di lavorazione dedicata, con costi differenti a seconda dei prodotti utilizzati e dei professionisti impiegati a svolgere il lavoro.

Esiste una regolamentazione per l’inquinamento acustico

Si, esiste una regolamentazione per l’inquinamento acustico nei condomini, in cui si stabilisce che le pareti che dividono distinte unità immobiliari devono essere adeguate con un potere fonoisolante apparente di almeno 50 dB.[1] Pertanto è vero che esistono delle norme che regolamentano l’inquinamento acustico nei condomini, ma è vero anche che spesso e volentieri i decibel di riferimento vengono superati alla grande e anche in orari più che sensibili.

Come realizzare una parete isolante?

Bisogna innanzitutto effettuare una corretta valutazione se isolare acusticamente soltanto una parete oppure l’intera stanza. Va verificato che i rumori siano percepiti solo da una parete laterale e non da altre zone della stanza, altrimenti si rischierebbe di effettuare un lavoro inutile, che non porta a nessuna soluzione se non talaltro ad un dispendio importante di denaro.

Premesso quanto detto, andiamo dunque a considerare l’isolamento acustico della parete confinante con i vicini che schiamazzano ad ogni ora della giornata.

Prima valutazione: che tipo di rumori si sentono in prevalenza? Quindi stabilire l’entità dei suoni che disturbano la tua quiete ed in base a questo valutare la tipologia di materiale da poter impiegare per risolvere la questione al meglio. Successivamente valutare lo spessore dei pannelli da impiegare, se da 3cm da 6cm da 9cm oppure oltre.

Considerando ovviamente il fatto che più è spesso il pannello, più tipologie di rumori si riescono ad abbattere. Di contro, lo spessore del pannello può ridurre la superficie della stanza, pertanto si presume che la stanza sia abbastanza ampia.  La messa in opera solitamente se fatta da professionisti del settore, non richiede troppo tempo, poi isolare solo una parete è abbastanza veloce.

Il passo successivo sarà il posizionamento ad arte dei pannelli fonoisolanti, della densità prescelta, attraverso, solitamente, telai in acciaio zincato. Tra la parete e i pannelli se sono sufficientemente spessi non si inserisce altro, anche se alcuni provvedono a contrastare con ulteriore materiale fonoassorbente. Il tutto è sempre a discrezione di chi opera sul posto e in base alla sua esperienza lavorativa. Il tutto verrà ultimato con lavoro di sigillatura, di stuccatura, copertura punti di giunzione, rasatura di livello e pittura. A lavoro ultimato dovresti aver finalmente risolto il problema dei rumori molesti e quindi essere soddisfatto del risultato.

Ovviamente non si può parlare di costi in quanto il tutto dipende da numerosi fattori che è impossibile valutare in questa circostanza.

Meglio fai-da-te o rivolgersi ad un esperto?

Spesso se si ha un minimo di competenza si prova il fai-da-te, più frequente è l’aiuto alla realizzazione dell’isolamento acustico da parte di un parente o un amico tuttofare.

Alcuni per insonorizzare acusticamente i garage o le stanze dove magari sentono musica oppure addirittura suonano strumenti utilizzano erroneamente i cartoni delle uova, che esteticamente se ben posizionati danno l’impressione di una stanza per la musica insonorizzata, ma effettivamente non risolvono per niente il problema, al massimo attutiscono qualche frequenza.

Se vuoi comunque realizzare un isolamento acustico ad arte per non sentire più, o diminuire al massimo, il rumore dei vicini, devi rivolgerti ad esperti del settore che ti consiglieranno il miglior sistema in base alle tue esigenze e all’ambiente che si vuole isolare.

Di FABIO CASTAGNELLO

Lavori urgenti in condominio

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Spese urgenti sostenute senza delibera dell’assemblea o senza amministratore: si può fare richiesta di rimborso?

Dal tetto del palazzo piovono calcinacci fin sotto il tuo balcone. Per poco non ti cadevano in testa. Hai fatto notare all’amministratore la necessità di un intervento immediato. Questi si è mostrato sensibile alle tue richieste e, convinto dell’urgenza, ha subito convocato l’assemblea per affidare l’incarico a una ditta e deliberare l’avvio dei lavori. Tuttavia, alla riunione di condominio, non si è formato il numero minimo per votare. Così, preoccupato per la tua incolumità e per quella dei tuoi figli, hai chiesto all’amministratore di avviare ugualmente i lavori urgenti in condominio senza delibera dell’assemblea, trattandosi di interventi di assoluta necessità. E se lui non volesse procedere, la tua intenzione è quella di farlo da solo, anticipando le spese per poi chiedere il rimborso alla prossima riunione.

Ti chiedi però quale possibilità hanno i singoli proprietari degli appartamenti e/o l’amministratore di eseguire lavori urgenti in condominio senza autorizzazione preventiva. Di tanto parleremo qui di seguito.

Lavori urgenti: l’amministratore può procedere senza assemblea?

Se risulta urgente e necessario effettuare lavori di manutenzione straordinaria dello stabile condominiale e non c’è il tempo per convocare l’assemblea e ottenere l’autorizzazione dei condomini all’avio delle opere, l’amministratore è obbligato a intervenire immediatamente e incaricare una ditta esterna per le riparazioni. Egli deve cioè adoperarsi per evitare che si verifichino danni a persone o cose eliminando la situazione di pericolo.

Ad esempio, se c’è un cornicione che sta per cadere sul parcheggio del condominio e potrebbe danneggiare il tettuccio di un’auto o ferire un pedone, egli deve incaricare una ditta edile per l’avvio immediato della manutenzione. Se un cancello automatico non funziona e impedisce ai condomini di entrare con le auto nel cortile, ma la riparazione richiede il rifacimento di tutto l’impianto, l’amministratore può disattivare i comandi remoti e renderlo apribile solo manualmente, in attesa dei lavori. Se ci sono pericoli di folgorazione a causa di lampioni da giardino non isolati che richiedono lavori straordinari ai pozzetti, l’amministratore può nel frattempo escludere l’illuminazione esterna.

È il codice civile [1] ad attribuire all’amministratore il potere-dovere di intervenire per le manutenzioni straordinarie ed urgenti. La norma recita nel seguente modo: «L’amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea».

Dunque, pur essendo le decisioni relative alle manutenzioni straordinarie di competenza assembleare, la legge prevede che se queste manutenzioni rivestono carattere di urgenza, spetta all’amministratore intervenire.

Una volta che ha autorizzato l’avvio dei lavori, l’amministratore deve convocare senza indugio l’assemblea e riferire ai condomini di tale situazione affinché la spesa sia ratificata, cioè accettata.

Anche se non rispetta tale obbligo e autorizza lavori non urgenti, l’amministratore può sempre richiedere il rimborso delle spese nei limiti in cui l’assemblea le ritenga giustificate o oggettivamente utili [2]. In pratica, nulla impedisce all’assemblea, pur in mancanza di una preventiva deliberazione di opere ordinarie o straordinarie, di approvare successivamente le relative spese sostenute dall’amministratore anche se effettuate senza il requisito dell’urgenza.

Ma quando un intervento può essere considerato urgente? La risposta è stata data dalle sentenze dei giudici che hanno ammesso o negato i rimborsi. Sono urgenti quelle manutenzioni volte a evitare un danno imminente ed irreparabile per il condominio e i singoli condomini. Si pensi ad un temporale estivo che scoperchi una porzione del tetto condominiale.

Si ha quindi urgenza in caso di una stretta, immediata ed impellente necessità di operare al fine di evitare che una situazione di pericolo, anche solo potenziale, si trasformi in breve tempo, in un grave pregiudizio per la collettività condominiale o comunque che si aggravi sensibilmente, arrecando maggior danno al condominio.

Un danno già noto ai condomini non può essere considerato urgente a meno che lo stesso non degeneri.

Se l’assemblea non approva l’operato dell’amministratore e non ratifica l’esborso da questi effettuato, l’amministratore non può ottenere alcun rimborso a meno che se lo faccia riconoscere dal giudice che sarà chiamato a verificare il requisito dell’urgenza.

Se l’intervento è frazionabile (ad esempio, nel caso del tetto che rischia di crollare solo in alcuni punti), l’amministratore deve limitarsi ad effettuare lo stretto indispensabile (messa in sicurezza dello stabile), rinviando ulteriori decisioni all’assemblea che provvederà a convocare in tempi brevissimi.

Lavori urgenti: il condomino può procedere senza assemblea?

Sempre in presenza di interventi di manutenzione urgente, se l’amministratore non si attiva e l’assemblea non può essere convocata in tempi brevi, ogni singolo condomino può disporli, anticipando le relative spese, per evitare il deterioramento della cosa [2]. A prevederlo è, anche in questo caso, il codice civile che dispone quanto segue [3]: «Il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente». Si pensi alla riparazione del tetto scoperchiato, a un tubo condominiale che sta generando infiltrazioni all’interno dell’appartamento, a un cornicione pericolante che minaccia di cadere sulla strada o sui passanti.

Il concetto di lavori urgenti è lo stesso che abbiamo visto con riferimento all’obbligo di intervento dell’amministratore: si tratta di quelle opere indifferibili per evitare un pregiudizio possibile (anche se non certo) al bene comune [4]. Il concetto di urgenza vale anche per il singolo condomino che, in via generale, non può intervenire nella gestione del condominio né è tenuto ad anticipare le spese per le riparazioni.

Una volta che ha sostenuto la spesa per l’interesse comune, il singolo condomino ha diritto al rimborso dei costi; spetta però a lui dimostrare l’urgenza dei lavori, la loro non differibilità e il fatto di non aver potuto in tempi ragionevoli avvertire l’amministratore o gli altri condomini [5].

Differenze tra i poteri dell’amministratore e quelli dei condomini

Con una recente sentenza [6] la Corte di Cassazione afferma che, a differenza di quanto previsto dal codice civile con riferimento al rimborso al condominio delle spese sostenute senza autorizzazione soltanto in caso di urgenza , la legge non contiene analogo divieto di rimborso delle spese non urgenti sostenute dall’amministratore nell’interesse comune. Ne consegue che l’assemblea di condominio può ratificare le spese ordinarie e straordinarie sostenute dall’amministratore senza preventiva autorizzazione , anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, purchè non voluttuarie o gravose e, di conseguenza approvarle , surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva delibera di esecuzione. La Corte di Cassazione conclude che l’assemblea condominiale era pienamente legittimata a ratificare l’operato dell’amministratore , anche in difetto del requisito dell’urgenza dell’intervento , posto che esso aveva avuto ad oggetto le parti comuni dell’edificio. Tale principio è assai importante perché tutela l’operato dell’amministratore scrupoloso il quale ha a cuore la sicurezza del condominio e che ha diritto di essere ristorato delle spese sostenute. 

Lavori urgenti in ville bifamiliari

Le regole che abbiamo appena visto e che danno diritto al singolo proprietario di agire senza chiedere prima l’autorizzazione valgono anche per il cosiddetto condominio minimo ossia un edificio con due soli condomini. Si pensi a una villetta bifamiliare dove uno dei condomini interviene per riparare il tetto danneggiato da un temporale estivo, mentre l’altro condomino è in vacanza ed irreperibile.

Sul punto è già intervenuta la Cassazione [7] secondo cui, anche nel condominio minimo la spesa sostenuta da uno dei due condomini è rimborsabile solo se ha i requisiti dell’urgenza, ossia se gli interventi non possono essere ritardi senza che questo possa provocare danni alla cosa comune. Non basta quindi la mera a necessità. E nella nozione di urgenza non rientrano le opere di rifacimento della copertura dell’edificio, di scrostatura e verniciatura del portone e di pitturazione del vano scale, giustificate dall’esigenza di ripristino architettonico.

Delega in assemblea di condominio

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Assemblea di condominio: a chi, con quali modalità e limiti conferire la delega nel caso in cui non si possa partecipare. 

L’amministratore del condominio in cui abiti ha convocato l’assemblea di condominio annuale e tu non potrai partecipare personalmente. Il giorno prescelto magari ricade nel periodo delle tue ferie estive oppure risiedi in un’altra città e non ti è possibile raggiungere il luogo in cui si svolgerà l’assemblea o, ancora, l’orario indicato non è compatibile con i tuoi turni di lavoro. Ti chiedi pertanto se sia possibile essere rappresentato da qualcun altro, tramite una delega, alla riunione condominiale. Hai infatti letto i punti all’ordine del giorno e ritieni sia importante partecipare: vuoi anche tu esprimere il tuo parere sulle questioni che verranno discusse. La delega in assemblea di condominio è infatti una delle questioni che pone più dubbi ai condomini. A chi dare questo incarico? Sei arrivato da poco e non conosci ancora tutti i tuoi vicini di casa né tanto meno puoi dire di fidarti ancora di qualcuno di loro. Ti domandi quindi se possa sostituirti la tua compagna, un amico o il tuo consulente di fiducia. O, ancora, ti è capitato che il tuo vicino di pianerottolo ti abbia conferito una delega per partecipare al suo posto all’assemblea, indicandoti anche come votare, e tu hai il dubbio se potrai esprimere due voti, anche se opposti, in merito ad una determinata questione. Procediamo con ordine.

Chi può partecipare all’assemblea di condominio?

È importante prima di tutto capire chi possa partecipare all’assemblea condominiale e, successivamente, se sia possibile, nel caso in cui non si possa partecipare personalmente, delegare qualcun altro, tramite una apposita nomina. Innanzitutto, ogni condominio, proprietario di una o più unità immobiliari all’interno del condominio, ha il diritto di partecipare all’assemblea condominiale e ciò può avvenire o personalmente o tramite una delegata scritta [1]. Ci sono dei casi concreti però che posso metterti il dubbio in merito a chi sia legittimato a partecipare all’assemblea.

Facciamo alcuni esempi:

  • sei nudo proprietario di un appartamento di cui invece, un anziano parente, è usufruttuario. In questo caso il nudo proprietario avrà diritto a partecipare a tutte quelle assemblee che hanno ad oggetto la gestione della straordinaria amministrazione mentre l’usufruttuario potrà partecipare in tutti quei casi in cui si discuterà di questioni di ordinaria amministrazione;
  • sei proprietario di un appartamento che hai dato però in locazione a un’altra persona. In questo caso chi ha il diritto di partecipare all’assemblea condominiale? Il proprietario dell’appartamento è l’unico che ha il diritto di essere convocato e di partecipare all’assemblea condominiale. Vi è solo un caso in cui il conduttore ha diritto di parteciparvi: quando all’assemblea si dovrà discutere circa la gestione dei servizi di riscaldamento;
  • sei comproprietario di un appartamento insieme a tutti i tuoi quattro fratelli? in questo caso tutti avete diritto di essere convocati all’assemblea di condominio, cioè avete tutti il diritto di ricevere la convocazione da parte dell’amministratore. Però in assemblea avrete diritto ad un solo rappresentate scelto da voi stessi, Pertanto, solo uno dei fratelli comproprietari potrà partecipare e a esprimere un unico voto all’assemblea a nome di tutti gli altri, senza necessità di un’apposita delega: è sufficiente che in assemblea il rappresentante dichiari che, in merito all’immobile posseduto in comproprietà, è stato scelto come rappresentante di tutti comproprietari;
  • sei sposato in regime di comunione dei beni ma all’assemblea di condominio potrai partecipare solo tu e non tua moglie: è necessario che tua moglie ti conferisca una delega per partecipare alla riunione anche a suo nome? Anche questo, in realtà, è un caso di comproprietà e non è necessaria una delega perché tu e tua moglie siete entrambi proprietari della casa in cui vivete. In caso di sua assenza è sufficiente che tu dichiari al presidente dell’assemblea di essere presente anche come suo rappresentante.

Pertanto, se sei il proprietario di un’unità immobiliare hai diritto di essere convocato e di partecipare all’assemblea di condominio, personalmente. In tutti quei casi, invece, in cui non hai la possibilità di partecipare personalmente all’assemblea di condominio è possibile conferire la delega ad un’altra persona: in questo caso risulterai a tutti gli effetti presente in assemblea e colui che hai delegato esprimerà il tuo voto, in ordine a ciascun punto dell’ordine del giorno.

Chi delegare? Un altro condominio o anche una persona estranea al condominio?

Nel caso in cui non possa essere presente alla riunione di condominio potrai delegare un altro condomino o, se ciò non è vietato espressamente dal regolamento condominiale, anche ad una persona di tua fiducia estranea al condominio. In nessun caso potrai conferire la delega all’amministratore di condominio anche se si dovesse trattare di un amministratore interno, cioè di un altro condomino come te: in proposito vi è un divieto assoluto. La tentazione potrebbe, infatti, essere quella, specie se non conosci bene gli altri condomini, di dare la tua delega all’amministratore di condominio nei cui confronti nutri particolare fiducia e che sicuramente è la persona che conosce meglio tutte le problematiche che riguardano il condominio. Questo ragionamento, tuttavia, non risulta corretto e, infatti, come abbiamo già detto, non sarà possibile conferire validamente la delega all’amministratore. Questo perché l’amministratore potrebbe, al contrario, non essere neutrale.

Pensa, ad esempio, al caso in cui in assemblea si debba votare la revoca o la conferma dell’amministratore stesso o ancora qualora si debbano prendere delle decisioni che riguardano proprio il suo operato: non c’è dubbio che in questi casi l’amministratore non sia nella posizione giusta per rappresentarti in assemblea. Quindi, la delega che dovessi conferire all’amministratore, in quanto vietata, sarà nulla. Quindi se dessi la tua delega all’amministratore, di questa delega non si potrà tenerne conto e tu risulterai, comunque, assente.

Delega in assemblea di condominio: è necessario che sia scritta o può essere anche orale?

Ti chiedi se sia sufficiente chiedere al tuo vicino di rappresentarti in assemblea, mentre magari state aspettando l’ascensore per andare a lavoro, o se necessariamente la delega debba essere scritta.

La delega deve essere conferita per iscritto, non è sufficiente comunicarla verbalmente.

La maggior parte delle volte troverai, nel foglio della convocazione di condominio, un riquadro dedicato alla delega che contiene tutti i dati necessari: nome e cognome, sia tuo che della persona che vuoi delegare, data della assemblea di condominio e la tua firma. Sarà quindi sufficiente che compili quel riquadro che poi consegnerai, prima dell’assemblea, alla persona da te prescelta. Nel caso non riuscissi a trovare questo riquadro apposito potrai tranquillamente utilizzare un altro foglio indicando tutti i dati che abbiamo già visto.

Nel secolo della tecnologia ti chiedi se possano essere utilizzati altri mezzi quali sms, messaggi di whatsapp, mail, fax e pec. È pacifico che si possa scansionare la delega, sottoscritta da chi delega, e inviarla prima dell’assemblea con un fax o con la posta elettronica certificata. Tuttavia, è bene sottolineare che si tratterà pur sempre di una copia e non di un originale. Mentre, invece ad esempio l’utilizzo di un sms potrebbe creare dei problemi in quanto non può contenere la tua firma.

Delega in assemblea di condominio: limiti

Chiarita la possibilità di poter concedere la propria delega ad un’altra persona, occorre verificare se la possibilità che ti è concessa incontri delle limitazioni.

Limiti contenuti nel regolamento condominiale

La possibilità di utilizzare lo strumento della delega, per farti rappresentare da un’altra persona all’assemblea condominiale, non può essere mai vietata dal regolamento condominiale del condominio in cui abiti.

La clausola del regolamento, che dovesse vietare ai condomini di servirsi di questo mezzo, sarà quindi nulla, perché contraria alla legge.

Quindi il regolamento di condominio non può impedirti di servirti di una delega nel caso tu non possa partecipare all’assemblea. Il regolamento di condominio potrebbe però prevedere delle limitazioni riguardanti il tuo potere di conferire una delega.

Facciamo alcuni esempi: il regolamento del tuo condominio potrebbe ad esempio prevedere che tu non possa farti rappresentare da una persona estranea al condominio ma solo da un altro condomino come te. Oppure potrebbe prevedere che un condomino possa rappresentare una sola persona, oltre se stesso, o massimo tre o cinque condomini.

Limiti numerici

Capita spesso che qualche condomino si presenti all’assemblea di condominio con molte deleghe e tu ti sia sempre chiesto se ciò sia ammissibile e se, invece, non ci siano limiti al numero delle deleghe conferite ad un unico condomino.

Nei condomini in cui ci sono fino a 20 condomini non ci sono limiti al numero delle deleghe che ogni condomino può portare in assemblea.

Mentre invece, quando i condomini sono più di 20 sono previste alcune limitazioni: ciascun condomino presente non potrà infatti rappresentare, tramite delega, più di 1/5 dei condomini e del valore proporzionale del condominio. Ma cosa vuol dire?

Forse un esempio potrà aiutarti a comprendere meglio questo limite.In un condominio con 30 condomini, ogni condomino potrà rappresentare, tramite delega, solo 6 condomini per non più di 200 millesimi complessivi.

Delega in assemblea di condominio: la delega può contenete indicazioni di voto da parte del delegante?

Non potrai essere presente alla riunione condominiale e hai deciso di dare la tua delega al simpatico signore che vive al primo piano. Ti chiedi, però, se potrai indicargli anche come desideri che lui esprima, da parte tua, il voto per ciascun punto all’ordine del giorno.

Non vi è dubbio che tu possa conferire la tua delega dando delle indicazioni di voto e non è neppure necessario che tu conferisca la tua delega ad un condominio che la pensa esattamente come te su ogni questione da deliberare.

Il simpatico signore che abita al primo piano, pertanto, potrà tranquillamente votare per sé stesso in un modo ed esprimere, a tuo nome, un voto uguale o contrario. Anzi, specifichiamo ancora meglio: il delegato ha l’obbligo di esprimere il voto per il delegante seguendo precisamente le indicazioni che questo gli ha dato.

Cosa succede se devi andar via prima che finisca l’assemblea: puoi lasciare la tua delega?

Nel caso in cui tu debba abbandonare l’assemblea condominiale prima della sua conclusione, cosa succede? Innanzitutto la tua assenza, successiva all’inizio della riunione condominiale, non inciderà sulla valida costituzione dell’assemblea che, infatti, viene verificata all’inizio di questa.

Mentre, ovviamente, una volta lasciata la riunione, il tuo voto non sarà più conteggiato in merito alle delibere successive: in relazione a queste ultime risulterai assente.

Avrai in ogni caso la possibilità di lasciare la tua delega ad un’altra persona presente che potrà presenziare per tutta la durata della riunione: in questa ipotesi tu continuerai a risultare presente e la persona da te delegata voterà sia per se stessa, se è a sua volta un condomino, che per te, seguendo le eventuali indicazioni da te fornite prima di lasciare il luogo in cui si svolge l’assemblea.

Diverso è, invece, il caso in cui tu fossi in possesso di deleghe di altri condomini e dovessi abbandonare anticipatamente l’assemblea: in questa ipotesi potrai, come abbiamo visto, lasciare la tua delega ad un’altra persona presente ma solo per ciò che riguarda te stesso. Non potrai lasciare, invece, le deleghe che avevi ricevuto da altri condomini, perché la delega contiene il tuo nome e non quello di altre persone.

Delega falsa o irregolare

In ogni caso, solo tu che hai conferito la delega potrai contestare che questa sia falsa o comunque irregolare. Gli altri condomini non potranno contestare questa irregolarità anche quando dovessero avere dei dubbi sulla delega presentata in assemblea da uno dei condomini.

Di ROBERTA MELONI

Ripartizione spese condominiali: tabelle millesimali

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Come dividere le spese condominiali attraverso le tabelle millesimali. Le diverse tipologie di spese e le relative tabelle. Come vengono redatte? Come vengono approvate e modificate?

La gestione della vita condominiale è un affare complesso. Specie quando si parla di soldi e di come ripartire le spese comuni. Nonostante nessuno vorrebbe pagarle, la legge prescrive che tutti debbano farlo. Il punto centrale è: in quale misura? La risposta dipende dal tipo di spese. Le spese comuni a tutti i condòmini sono ripartire “in maniera proporzionale al valore della proprietà di ciascuno”. Ecco allora che è necessario stabilire la porzione di proprietà di cui ogni condomino gode, rispetto all’intera unità immobiliare. Ciò che fanno le tabelle millesimali di proprietà, di cui parleremo nella prima parte di questo articolo. Ci occuperemo in particolare della ripartizione spese condominiali: tabelle millesimali. Vi sono poi altri tipi di spese, da dividersi secondo il criterio del godimento effettivo di ciascun condomino. Tali costi vanno divisi con criteri ulteriori a quelli di proprietà, che trovano espressione nelle tabelle millesimali di spesa e delle tabelle millesimali “del condominio parziale”. Argomenti affrontati nella seconda parte dell’esposizione. Infine si menzionerà il luogo dove è possibile trovare e consultare le tabelle, come vengono approvate ed eventualmente modificate.

Cosa sono le tabelle millesimali di proprietà?

Le tabelle millesimali di proprietà sono una serie di frazioni, ciascuna riferita ad una proprietà costituente un immobile. Il numeratore rappresenta la porzione posseduta da ciascun proprietario, il denominatore, l’intero edificio, fissato al valore 1.000. Ogni condomino ha quindi una cifra di riferimento, che restituisce la sua quota di proprietà, rispetto all’intero edificio. Tanto più il valore è grande, tanto più alta è la quota posseduta.

Esempio: Il condominio “I Gerani” è composto da tre appartamenti, per una metratura totale di 1.000 mq. Tizio possiede un appartamento di 200 mq, Caio un appartamento di 300 mq Sempronio di 500 mq. I millesimi di proprietà dei tre condomini saranno rispettivamente: 200/1.000, 300/1.000 e 500/1.000.

Come si dividono le spese secondo le tabelle di proprietà?

Le spese necessarie alla conservazione e il godimento delle parti comuni e quelle necessarie alla realizzazione di opere deliberate dalla maggioranza, sono divise secondo il valore della proprietà di ciascuno. La somma dei costi sarà pertanto moltiplicata per la frazione millesimale di ogni condomino, riportate dalle tabelle millesimali di proprietà. Il risultato restituirà la cifra addebitata alla proprietà secondo il principio: più possiedi, più paghi.

Tornando al nostro esempio del condominio “I Gerani”, se le spese condominiali da distribuire fossero 100 €, Tizio contribuirà per 20 (200/1000), Caio per 30 e Sempronio per 50.

Come sono compilate le tabelle millesimali di proprietà?

Si è detto che valore di riferimento per la compilazione delle tabelle è la consistenza della quota di proprietà di ciascun condomino. Il legislatore non si è però premurato di fissare i criteri matematici con cui calcolare tale cifra, lasciando così spazio a diverse prassi operative. In sintesi, esse sono due.

Con la prima, il professionista incaricato (geometra, architetto, ingegnere) misurerà le superfici totali dell’edificio e quelle riferite a ciascun condomino. Nel fare ciò dovrà considerare solo le aree “calpestabili” (al netto di muri, intercapedini e altri impedimenti architettonici) di ogni proprietà, a cui dovrà sommare le relative pertinenze. Entreranno così a far parte del conteggio anche giardini,  terrazze, corselli e altre aree di proprietà esclusiva di uno o più condòmini. Solitamente i valori di superficie saranno poi corretti da coefficienti che tengono in conto elementi quali la destinazione del bene, l’altezza del piano, l’orientamento, il prospetto e la luminosità [1].

Nel secondo caso, l’attribuzione dei millesimi viene rapportata al prezzo commerciale di ciascuna porzione rispetto all’intero immobile. Ciò significa che proprietà piccole possono generare rapporti millesimali più grandi di unità di dimensioni maggiori, ma di minor prestigio. È il caso per esempio di un loft di 100 mq posto all’ultimo piano di un edificio, il cui valore millesimale può risultare superiore ad un appartamento di 150 mq posti al primo piano; edificio più grande del precedente, ma senza balconi, con un bagno cieco e con poche finestre.

Talvolta le tabelle millesimali “di valore” sono redatte dal costruttore del condominio, prima di procedere alla vendita delle singole unità e secondo il costo di ciascuna di esse. In altri casi, la determinazione avviene mediante l’utilizzo di dati estratti da pubblici registri, quale il numero di vani delle unità immobiliari o la rendita catastale annua. Ad ogni modo, nella redazione delle tabelle non si può tenere conto del valore del canone locatizio, dei miglioramenti apportati e allo stato di manutenzione di ciascun immobile [2].

La compilazione convenzionale

Oltre al criterio del valore, le tabelle millesimali possono essere redatte per convenzione. Ossia mediante un accordo con cui i condomini stabilisco coefficienti di riparto diversi da quelli fin qui esposti. Le ragioni di tale scelta possono essere le più disparate; banalmente, nella prassi, la necessità di semplificare le procedure aritmetiche di divisione dei costi. Le tabelle convenzionali sono perfettamente valide e ammesse dalla legge [3], purché approvate espressamente da ogni condomino.

Tornando al nostro esempio: Tizio Caio e Sempronio, nonostante le disparità dei rispettivi appartamenti, acconsentono ad elaborare una tabella millesimale perfettamente paritaria. Pertanto la spesa comune di 100 €, può essere divisa in  3 porzioni da 33,3 €.

Ulteriori effetti delle tabelle millesimali di proprietà

Le tabelle millesimali di proprietà hanno effetti che vanno al di là del mero riparto delle spese. Esse consentono di calcolare il quorum costitutivo e deliberativo che l’assemblea dei condòmini deve raggiungere per potersi legittimamente riunire e adottare delibere [4]. Si tratta di una funzione strutturale, connessa alla vita condominiale, di cui non ci occupiamo in questo articolo, ma che è bene tenere a mente quando si parla di tabelle di proprietà.

Le tabelle millesimali “di spese”

Fin qui si è parlato di tabelle millesimali rapportate al valore dell’intero edificio, (c.d. Tabelle millesimali di proprietà) pensando di dividere spese che riguardano tutti i condòmini. Vi sono però costi originati da servizi che, a prescindere dalla metratura di ciascuna proprietà, sono goduti in maniera differenziata. In questo caso, la ripartizione delle spese deve avvenire proporzionalmente all’utilità ritratta da ciascun proprietario. Sarà pertanto necessario redigere tabelle millesimali ponderate, in cui la quota di proprietà dell’immobile dovrà essere contemperata dal coefficiente di godimento del bene, il cui costo è oggetto di riparto. È il caso, per esempio, delle tabelle millesimali per l’uso delle scale comuni e degli ascensori. In tali situazioni la quota di riparto è determina solo per metà dalla metratura (o valore) dell’immobile. L’altra metà è calcolata in base all’altezza del piano di ubicazione dell’appartamento. In questo modo, a parità di metratura, l’immobile ubicato più in alto avrà un valore di riparto più elevato, rispetto a quello situato più in basso.

Esempio: nel condominio “I Gerani” Tizio possiede l’appartamento al terzo piano, Caio al secondo, Sempronio al primo. Le spese per la manutenzione dell’ascensore comune verranno ripartite tenendo conto sia dei millesimi di proprietà, sia dell’altezza di ciascun piano. Se le spese di manutenzione dell’ascensore fossero 100, Tizio ne pagherebbe 35, Caio 32 e Sempronio 33.

Le tabelle millesimali del condominio parziale

Su di un principio simile a quello esposto, si basano le tabelle millesimali che riguardano il condominio parziale, ovvero quelle elaborate per la divisone delle spese di beni comuni solo per una parte dei condòmini. Esse sono elaborate con riferimento a chi gode del bene comune, ed esclusione di tutti gli altri.

Esempio: nel nostro condominio “i Gerani” esiste una piscina, al cui accesso hanno diritto solo Tizio e Sempronio, i quali ne risultano gli unici comproprietari. I costi di manutenzione della stessa, ammontano a 100 € totali. Essi verranno divisi solo tra i citati condomini in proposizione alle rispettive quote di proprietà. Nulla dovrà, invece, pagare Caio.

Dove posso trovare le tabelle millesimali?

Il codice civile prescrive che le tabelle millesimali devono essere allegate al regolamento del condominio. Ciò significa che ogni situazione condominiale esistente avrà una tabella già approvata e vincolante, anche per chi entrato a far parte di un condominio esistente. Certamente sarà presente la tabella millesimale di proprietà, non è detto che il condominio abbia adottato altre tabelle.

Per le unità condominiali non ancora costituite, le tabelle possono essere approvate durante la prima assemblea o, sempre più spesso, già contrattualmente al momento dell’acquisto dell’immobile. In tal caso le tabelle (di proprietà, d’uso o parziali) sono accettate si dall’inizio da ogni acquirente, unitamente al regolamento condominiale.

Come si approvano le tabelle millesimali?

L’approvazione delle tabelle millesimali è stata oggetto di una animata querelle giurisprudenziale, risolta solo nel 2010 da un intervento della Cassazione a Sezione Unite [5]. La pronuncia ha stabilito che le tabelle possano essere adottate con delibera a maggioranza qualificata, senza più la necessità dell’unanimità precedentemente richiesta. Ciò perché le tabelle millesimali non sono più, nell’opinione dei giudici, il frutto di un mero accertamento tecnico, ma piuttosto il risultato di un operazione influenzata anche da considerazioni discrezionali, che spesso costituiscono l’epilogo di un’attività negoziale perfettamente legittima.

In parole povere: i condomini ben possono accordarsi per elaborare una tabella millesimale i cui valori contemperino i rispettivi interessi, derogando alle previsioni di legge. Inoltre, precisano i giudici, l’obbligo alla contribuzione alle spese non trova la propria fonte nelle tabelle, me nella norma (1223 c.c.) che si riferisce alle tabelle quale metodo del riparto.

La giurisprudenza ammette anche l’approvazione delle tabelle per fatti concludenti [6], ossia per l’applicazione, costante nel tempo, di un riparto delle spese differente da quello previsto dalle tabelle. Se tale prassi non è mai stata contrastata, essa vale quale adozione delle tabelle applicate.

Come si modificano le tabelle millesimali?

Diversa la disciplina della modifica delle tabelle già in uso [7]. Essa può avvenire soltanto con voto unanime di tutti i condomini. Tuttavia quando si deve procedere alla revisione, quale conseguenza di errore o modifiche di parte dell’edificio, è possibile procedere con il voto della sola maggioranza qualificata anche nell’interesse di un solo condòmino.

Il singolo proprietario può ricorrere al giudice per chiedere la revisione delle tabelle allegate al regolamento. In questo caso, il condominio sarà rappresentato in giudizio dall’amministratore.

Di PAOLO SCAINELLI

Tasse su affitto scontato

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La riduzione del canone di locazione per i primi anni consente di dichiarare al fisco un reddito più basso?

Immagina di dare in affitto un vecchio magazzino. Il locale è rimasto abbandonato per diversi anni e, per rimetterlo a nuovo, bisogna fare numerosi e costosi lavori. Al di là delle tubature del bagno e della tinteggiatura delle pareti, è necessario provvedere a un nuovo impianto di caldo/freddo, a mettere a norma l’impianto elettrico, a montare una porta blindata. Di tanto si occuperà il nuovo inquilino il quale, però, a fronte di tali spese, ti ha chiesto uno sconto sul canone per i primi anni, anche in ragione del fatto che l’attività dovrà affrontare un primo periodo di start-up durante il quale i clienti non saranno numerosi. Hai deciso di venire incontro alle sue esigenze e così, sul contratto di locazione, nell’indicare il costo del canone mensile, avete convenuto che, per i primi 2 anni, da tale importo saranno detratte le spese sostenute per la ristrutturazione dell’immobile. Ti chiedi però se, da un punto di vista fiscale, puoi ottenere una riduzione delle imposte. In altri termini vuoi sapere a quanto ammontano le tasse sull’affitto scontato. La risposta proviene da una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano [1].

Come noto, i redditi provenienti dai canoni di locazione vanno “denunciati” all’Agenzia delle entrate con l’annuale dichiarazione dei redditi. Essi vengono così tassati ai fini Irpef secondo il regime prescelto dal locatore (questi potrebbe optare per una tassazione flat, con la cedolare secca). 

Se le parti convengono uno sconto sul canone di locazione attraverso facilitazioni per i primi anni dell’affitto, magari proprio in considerazione dei lavori effettuati dal conduttore sull’appartamento o sul magazzino, il locatore è comunque obbligato a versare all’erario le imposte calcolate sul canone pieno, quello cioè dichiarato nel contratto stesso. Non fa fede quindi l’importo effettivamente percepito dal proprietario dell’immobile quanto quello risultante dalla scrittura privata registrata. E ciò perché il controvalore dei lavori di ristrutturazione si risolve in un vantaggio economico per il locatore, una sorta di permuta: in pratica è come se quest’ultimo avesse comunque ricevuto tutto il canone e, attingendo da esso, avesse poi destinato alcune somme alla manutenzione del locale.

Quindi, se il contratto di affitto indica un prezzo e invece il locatore versa le tasse per un importo inferiore, rischia un accertamento fiscale: l’Agenzia delle entrate potrà cioè “recuperare a tassazione” gli importi non percepiti in denaro ma “in natura”.

La vicenda decisa dalla Commissione Tributaria lombarda ha a che fare proprio con un episodio del tutto simile a quello che abbiamo descritto all’inizio di questo articolo. 

L’ufficio delle imposte inviava una richiesta di pagamento delle imposte sui canoni di locazione per un importo superiore a quello versato da un contribuente. Il locatore, nel dare in affitto un proprio magazzino, aveva concesso al conduttore una riduzione del canone per le prime annualità come contropartita per i lavori che questi avrebbe eseguito sull’immobile. Una tale situazione, secondo le Entrate, rappresentava però una sorta di “integrazione in natura” del canone di locazione; pertanto le imposte dovevano essere calcolate sul canone pieno, previsto a regime, senza considerare gli sconti per le prime annualità. 

Inutile è stata la difesa del contribuente il quale aveva sostenuto di aver agito correttamente, pagando le tasse sul canone di affitto scontato, su quello cioè effettivamente percepito e non su quello (più alto) dichiarato nella scrittura privata. 

Secondo il giudice, si deve assegnare allo svolgimento dei lavori una funzione permutativa del canone. La pretesa fiscale, dunque, va ancorata al canone pieno, anche se per i primi anni esso sia stato corrisposto in parte in danaro e in parte in natura (mediante i lavori eseguiti dal locatario sui beni del locatore). 

Non è la prima volta che i giudici affermano questo principio. Già in passato la Commissione Tributaria regionale del Lazio [2] aveva affermato che le migliorie sull’immobile concesso in affitto che determinino una riduzione concordata del canone di locazione sono comunque un beneficio per il locatore e costituiscono, quindi, una modalità del pagamento (in natura) del canone di locazione (da sottoporre perciò a tassazione).

Violazione dell’estetica del palazzo: chi è responsabile?

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Decoro architettonico in condominio: per le opere realizzate in spregio alla facciata dell’edificio è responsabile l’amministratore?

Nel tuo palazzo non ci sono mai stati controlli fiscali sulle attività dei singoli condòmini; ognuno fa come gli pare e piace, senza che l’amministratore o l’assemblea glielo impediscano. Numerosi condomini hanno ad esempio installato, sul proprio balcone, cisterne, radiatori, armadi, climatizzatori; c’è addirittura chi ha chiuso un angolo per ricavarne uno spazio coperto, ove sistemare la lavatrice o raccogliere cianfrusaglie varie. Adesso però che è il turno tuo, qualcosa sembra dare fastidio agli altri. Hai infatti realizzato, sul balcone che affaccia sulla strada principale, una chiusura in metallo, ricavandone una sorta di veranda. In assemblea tutti si sono ribellati e ti hanno chiesto, per il tramite dell’amministratore, di smantellare l’opera. La motivazione è piuttosto banale: lede il decoro architettonico dello stabile. Ti sei opposto perché, a tuo avviso, non sei l’unico ad aver inciso sull’estetica della facciata. Così siete finiti in causa. L’amministratore ti ha citato in giudizio, chiedendo al giudice che ti condanni a rimuovere la veranda. Dal canto tuo, hai intenzione di agire contro di lui per non aver impedito anche agli altri condomini, in tutti questi anni, di posizionare le proprie opere sui rispettivi esterni. Lo puoi fare? Per quanto potrà sembrarti a prima vista inconcepibile, la risposta è negativa. A darla è stata la Cassazione con una ordinanza pubblicata proprio di recente [1]. I giudici, così facendo, hanno fornito un importante chiarimento su chi è responsabile per la violazione dell’estetica del palazzo. 

Il decoro architettonico dell’edificio condominiale

La questione di base parte dal principio secondo cui ciascun condomino può fare sul proprio balcone ciò che vuole purché rispetti il decoro architettonico dell’edificio. Tale è l’insieme delle linee e dei disegni realizzati dall’originario costruttore. È chiaro quindi che, tanto minore è il pregio architettonico del palazzo, tanto maggiore è la libertà dei condomini di agire su di esso. 

La giurisprudenza ha anche chiarito che, se negli anni è stato consentito ai proprietari degli appartamenti di incidere sull’estetica della facciata, non si può poi impedire a uno solo di questi di fare altrettanto. In buona sostanza, il decoro architettonico va valutato per come lo stabile si presenta al momento della realizzazione dell’opera e non per com’era alla sua originaria realizzazione. Con la conseguenza che, se negli anni il palazzo è stato svalutato da svariati interventi che hanno inciso sulla sua estetica, non si può richiamare ordine e fare i fiscali con uno solo dei condomini.

Che fare in caso di violazione del decoro architettonico?

Se più condomini hanno effettuato lavori nelle rispettive unità immobiliari tali da compromettere l’estetica dell’edificio, è possibile agire contro di essi e citarli in giudizio. Lo si può fare sia singolarmente, procedendo contro ciascuno di essi, sia cumulativamente, in un unico processo. Lo scopo è quello di ottenere la rimozione delle opere “abusive” e l’eventuale risarcimento del danno. 

Il controllo delle opere che incidono sul decoro architettonico spetta al condominio, non anche alla polizia municipale o alle altre autorità pubbliche. L’amministrazione infatti può agire solo se c’è stata una violazione delle normative urbanistiche, se ad esempio il proprietario non ha chiesto il permesso a costruire; in tal caso viene contestato l’abuso edilizio e avviato il processo penale con l’ordine di demolizione.

La concessione edilizia non implica invece un vaglio sull’impatto estetico che l’opera può avere. In altri termini non spetta al Comune stabilire se la costruzione è bella o brutta. Su questo aspetto l’unica voce in capitolo è quella dei condomini.

A promuovere la causa contro chi ha violato l’estetica dell’edificio può essere sia il singolo condomino, preoccupato per il deprezzamento dello stabile e – di conseguenza – del proprio appartamento, sia l’amministratore di condominio.

L’amministratore di condominio ha infatti l’obbligo di preservare il palazzo e le parti comuni, tra le quali rientra a pieno titolo la facciata. Se l’amministratore non agisce contro chi viola l’estetica del palazzo è personalmente responsabile e può essere revocato per giusta causa. 

L’azione contro l’amministratore di condominio che non tutela l’estetica dell’edificio

L’amministratore ha solo una “legittimazione processuale attiva”: può cioè trascinare in causa i condomini che violano il decoro architettonico. Non ha invece una “legittimazione processuale passiva”: non può cioè essere citato affinché sia condannato a far rimuovere le opere lesive dell’estetica. Se non ha agito contro i responsabili può essere revocato (e al limite condannato al risarcimento). È questo il chiarimento uscito fuori dalle stanze della Cassazione. 

Un condomino era stato citato dall’amministrazione per lesione del decoro architettonico. In giudizio si era dimostrato disponibile a rimuovere la veranda a patto che anche gli altri condomini rimuovessero i diversi manufatti installati sui balconi negli anni, anch’essi lesivi del decoro architettonico dell’immobile. 

I giudici hanno accolto la domanda dell’amministratore ma rigettato quella del condomino convenuto in giudizio. La ragione è sempre: le lesioni del decoro della facciata di cui quest’ultimo si lamentava erano state compiute da altri condomini che avrebbero dovuto essere direttamente citati in giudizio. L’amministratore non ha infatti alcuna legittimazione passiva a rispondere dei danni derivanti all’edificio da interventi realizzati da singoli condomini. 

In sintesi: chi può fare causa, e contro chi, per la tutela del decoro architettonico?

Volendo quindi sintetizzare ciò che è stato fin qui detto possiamo dire che:

A- la causa per ottenere la rimozione delle opere lesive dell’estetica dell’edificio può essere intrapresa (cosiddetta «legittimazione attiva»):

  • sia dall’amministratore a tutela delle parti comuni dello stabile;
  • sia dai singoli condomini che agiscono individualmente per tutelare il valore commerciale del proprio appartamento;

B- in giudizio possono essere citati (cosiddetta «legittimazione passiva»)

  • sia il singolo condomino che ha violato l’estetica (quindi una causa per ogni responsabile);
  • sia tutti i condomini che hanno violato l’estetica (quindi in un’unica causa);
  • ma mai l’amministratore di condominio che non ha potere di ordinare la demolizione delle opere lesive;

C- tuttavia l’amministratore di condominio può essere citato per la responsabilità professionale e revocato dall’incarico se non ha vigilato sulle attività poste dai condomini in spregio al decorso architettonico.


Villa bifamiliare: rapporti tra proprietari

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Il condominio minimo: che succede se nello stesso edificio ci sono solo due famiglie?

Tua madre, proprietaria di una villetta ove, fino alla sua vecchiaia, ha vissuto con il marito e le due sorelle, ha deciso di lasciarti uno dei due piani mentre l’altro lo ha messo in vendita. Ti trovi così a dover convivere con degli estranei che abiteranno al piano terra mentre tu hai optato per il piano superiore. È sopraggiunta ora la necessità di fare dei lavori di ristrutturazione: si tratta del tetto e di alcune parti del giardino. I nuovi arrivati però non ne vogliono sapere di partecipare. Secondo loro, infatti, le spese di copertura dell’immobile spetta a te che stai all’ultimo piano e, per quanto riguarda il giardino, in assenza di una netta divisione, non c’è modo di obbligarli a spendere dei soldi per un tratto che non percorrono mai. Questi e tanti altri problemi che potranno sorgere tra i due vicini di casa come si risolvono? Come vanno regolati i rapporti tra proprietari di una villa bifamiliare?

Ti sembrerà strano ciò che sto per dirti ma se, in uno stesso edificio, vivono più di due soggetti diversi si crea in automatico un condominio. Per l’esattezza si parla di condominio minimo. Questo concetto è stato elaborato dalla giurisprudenza visto che il codice non lo prevede in modo espresso. Una cosa è certa: perché si realizzi un condominio è sufficiente che la proprietà dell’edificio sia divisa almeno tra due persone.

Di tanto parleremo qui di seguito. Per poter spiegare quali sono i rapporti tra proprietari di una villetta bifamiliare dobbiamo anche comprendere cosa si intende per condominio minimo e come funziona. Procediamo dunque con ordine.

Cos’è un condominio minimo?

Per condominio minimo, secondo la definizione abbracciata dalla giurisprudenza, s’intende quel condominio composto anche da due soli  partecipanti, evenienza che si verifica quando l’unico proprietario dell’immobile ne vende una parte a un altro soggetto o, dopo il decesso, trasferisce in successione l’edificio ai suoi eredi.

La nascita di un condominio minimo comporta l’applicazione di alcune delle regole del codice civile dettate per il condominio ordinario [1]; altre invece non possono essere calate in tale contesto proprio per la particolare situazione dettata dal numero dei comproprietari; è il caso ad esempio delle norme relative ai quorum necessari per la valida costituzione dell’assemblea e per l’adozione delle relative delibere.

Il condominio minimo è dunque quello composto da soli due proprietari. Nella prassi, tuttavia, il concetto viene applicato anche a quegli immobili dove i proprietari sono in numero inferiore rispetto al numero oltre il quale è obbligatorio nominare un amministratore di condominio, ossia più di otto.

Villetta bifamiliare: quali parti sono in comune?

A questo punto bisogna capire quali sono le parti della villetta bifamiliare che rientrano nel condominio e che quindi si considerano comuni. L’elencazione è contenuta nel codice civile che, tuttavia, fa solo degli esempi ben potendo, a seconda dei luoghi, rientrare nel condominio altre parti.

Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio (salvo che l’atto di provenienza disponga diversamente) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondamenta, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le quattro facciate esterne; le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune; ascensori, pozzi, cisterne, impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di riscaldamento, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, l’antenna tv anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza.

Decisioni da prendere in una villetta bifamiliare

Sono sicuro che, al sentir parlare di condominio, hai già pensato all’amministratore. Ebbene in questo caso non c’è bisogno visto che tale figura professionale diventa obbligatoria solo quando ci sono più di otto condomini. Quindi ad amministrare le varie necessità dell’edificio, almeno per quanto riguarda le parti comuni, possono essere entrambi i proprietari di volta in volta. E qui sorge un problema. Se di norma, nei condomini, si decide in assemblea secondo la regola della maggioranza, quando i proprietari sono due o si forma l’unanimità oppure c’è una situazione di stallo dove l’uno e l’altro hanno posizioni opposte. Pertanto, come ha precisato la Cassazione, se manca l’unanimità, l’unica soluzione è rivolgersi al tribunale [3].

Villa bifamiliare: ci vuole il regolamento di condominio?

Come non è obbligatorio l’amministratore non è neanche necessario il regolamento di condominio il quale diventa vincolante solo a partire da 11 condomini.

Villa bifamiliare: come vengono divise le spese?

In assenza di un regolamento e quindi di una divisione dell’immobile per millesimi, tutte le spese sono divise a metà tra i condomini. Se il tetto dovesse essere di proprietà esclusiva del condominio del primo piano, questi deve provvedere da solo alle spese nella misura di un terzo, mentre gli altri due terzi si dividono al 50% tra entrambi.

Lavori urgenti in una villetta bifamiliare

Quando uno dei due proprietari non è in città e ci sia da prendere decisioni urgenti per avviare lavori straordinari (si pensi a un albero che minaccia di cadere sul tetto o a una tegola caduta), l’altro condomino può agire in autonomia per poi farsi risarcire per la metà delle spese sostenute.

Compravendita terreno edificabile, plusvalenze e tassazione

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La CTR di POTENZA, con sentenza n 407-2015, ha dichiarato non tassabile la compravendita di un terreno edificabile solo sulla carta. È corretto, per analogia,  ritenere non tassabile il corrispettivo percepito per la costituzione di un diritto di superficie su un’area edificabile solo sulla carta, trattandosi di terreno di mq. 260 circa, su cui grava vincolo idrogeologico, ambientale e paesaggistico, e situato in zona edificabile solo se si è in possesso di un unico lotto di mq. 10.000 di superficie? 

La norma di legge (art. 67 Tuir) prevede la tassazione (come redditi diversi) delle plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di “terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”.

La suscettibilità edificatoria prevista dalla norma è quella individuabile dal punto di vista formale, secondo gli strumenti urbanistici attuali. Più precisamente, in base all’art. 36, c. 2 del Decreto Legge n. 223/2006, un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’approvazione della regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo.

L’Agenzia delle Entrate ha tuttavia chiarito che in base a tale disposizione, sotto il profilo fiscale, un’area si considera utilizzabile per scopi edificatori ancor prima che l’iter di approvazione del piano regolatore si sia concluso con l’approvazione dello stesso da parte della Regione. A tal fine è, infatti, sufficiente la semplice adozione del citato piano regolatore da parte del Comune. Ciò non toglie tuttavia che, una volta intervenuta l’approvazione da parte della Regione, la qualificazione dell’area sarà quella risultante dallo strumento urbanistico generale così come approvato dalla Regione (Risoluzione n. 460/E).

Dunque, nel caso di specie, occorre verificare se nel Piano Regionale e nel Piano Comunale generale ed eventualmente particolareggiato, il terreno in questione risulta o meno edificabile, a prescindere dal fatto che sia accatastato come uliveto e a prescindere dal vincolo idrogeologico, ambientale e paesaggistico (i quali potrebbero non incidere sull’edificabilità, ma solo sul valore).

Quanto appena descritto riguarda la nozione di suscettibilità edificatoria dal punto vista formale, legittimante l’accertamento della plusvalenza da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ricade poi eventualmente sul contribuente l’onere di dimostrare che, nonostante gli strumenti urbanistici abbiano classificato l’area come edificabile, non vi sono di fatto i presupposti per costruire (per via del volume, della superficie o anche dello stesso vincolo paesaggistico e idrogeologico) e che quindi non sussista la suscettibilità edificatoria “di fatto”.

In ogni caso, la plusvalenza è tassabile anche qualora ad essere ceduta non è la proprietà del terreno ma un diritto reale, quale è il diritto di superficie. 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Maria Monteleone

Posto auto per handicap: quale normativa citare nella richiesta di assegnazione?

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Il palazzo dove abito ha un vialetto privato, non chiuso da cancelli ed i posti auto sono stabiliti a turnazione e a pagamento. Dal momento che sono invalida al 100% ed ho il contrassegno, ho diritto ad un posto per handicappata nel cortile o sul vialetto di accesso al fabbricato? L’amministratrice del condominio mi ha detto di citare la normativa nella richiesta.

Alla luce del quesito posto, è opportuno esporre sinteticamente quanto segue:

-Posti auto disabili per gli edifici costruiti successivamente al 1989: a proposito dei posti auto riservati alle persone disabili, la legge di riferimento in materia [1] e, in particolar modo, il regolamento di attuazione della medesima [2], ha stabilito che …nelle aree di parcheggio devono comunque essere previsti, nella misura minima di 1 ogni 50 o frazione di 50, posti auto di larghezza non inferiore a m 3,20, e riservati gratuitamente ai veicoli al servizio di persone disabili. Detti posti auto, opportunamente segnalati, sono ubicati in aderenza ai percorsi pedonali e nelle vicinanze dell’accesso dell’edificio o attrezzatura. Al fine di agevolare la manovra di trasferimento della persona su sedia a ruote in comuni condizioni atmosferiche, detti posti auto riservati sono, preferibilmente, dotati di copertura…

La stessa normativa appena richiamata, specifica che le predette disposizioni possano essere applicate anche agli edifici già esistenti all’entrata in vigore della legge e del regolamento di attuazione, se oggetto di ristrutturazione.

-Posti auto disabili per edifici costruiti antecedentemente al 1989: in questo caso, evidentemente, il condomino disabile può incontrare maggiori difficoltà nel vedersi riconoscere e destinarsi un posto auto ad esso esclusivamente assegnato, per le seguenti ragioni:

1- la legge in esame, come già anticipato, prevede l’applicabilità delle disposizioni solo alle ristrutturazioni degli edifici preesistenti al 1989;

2- non è invocabile il superamento delle barriere architettoniche, visto che nella definizione tassativa delle medesime [3], non rientra la circoscrizione di una parte del cortile condominiale a vantaggio e sosta esclusiva per il disabile.

Se a tutto ciò si aggiunge che si sta parlando di un bene comune (il cortile condominiale) e che sullo stesso deve essere garantito l’uso paritario a tutti i condomini [4], l’assegnazione in via esclusiva del posto auto al disabile, senza la necessaria approvazione/autorizzazione del condominio, potrebbe risultare difficile da ottenere in sede giudiziale.

CASO CONCRETO

Se il condominio in cui abita la lettrice è stato costruito in data successiva al 1989, la normativa da citare nella sua richiesta per ottenere l’assegnazione in via esclusiva di un posto auto, in quanto disabile, è quella richiamata nelle note [1] e [2], indicate in premessa.

Viceversa, se si tratta di un edificio sorto antecedentemente alla predetta data, potrebbe invocare questo diritto soltanto in presenza di una ristrutturazione del condominio, ma non in una fase in cui i lavori di rifacimento non sono stati deliberati.

Ad ogni buon conto, se quest’ultimo dovesse essere il caso confacente a quello specifico, il consiglio alla lettrice è quello di inoltrare ugualmente la sua richiesta all’amministratore, magari avvalendosi dell’assistenza di un legale, per attribuire maggior peso alla sua domanda, invitando il condominio ad autorizzare/deliberare la descritta assegnazione, senza costringerla ad un’azione legale.

In caso contrario, cioè se il condominio non dovesse volontariamente accogliere la richiesta della lettrice, confermando, invece, l’uso a turnazione del cortile condominiale, le alternative a disposizione di quest’ultima sarebbero:

– l’azione legale verso il condominio fondata sulla normativa citata e sui diritti costituzionalmente garantiti, ad una normale vita di relazione, al superamento di situazioni che favoriscono la diseguaglianza ed alla salute [5] (ma si tratterebbe di un procedimento dall’esito non necessariamente scontato);

– la richiesta di assegnazione di un posto disabili sulla strada comunale o sul vialetto privato (se di uso collettivo) da rivolgere al suo comune di residenza (sempreché la lettrice non l’abbia già fatto).

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Marco Borriello

Confesercenti: locazione commerciale e prelazione

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Anni fa ho acquistato un immobile locato alla Confesercenti di zona e la proprietaria ha comunicato al tempo la sua intenzione di vendere al locatore. La Confesercenti mi ha chiesto un corrispettivo in denaro per la rinuncia alla prelazione. Ho dovuto quindi pagare per avere la loro rinuncia alla prelazione (non erano interessati all’acquisto). La Confesercenti rientra nelle categorie che hanno titolo per la prelazione? È stata legittima la loro richiesta di farsi pagare per rinunciare alla prelazione?

Alla luce del quesito posto, è opportuno esporre sinteticamente quanto segue:

– Locazione commerciale: il diritto di prelazione sulla vendita dell’immobile

Si tratta di un diritto previsto dalla legge [1], nel momento in cui il locatore intende cedere l’immobile locato. In pratica, mediante ufficiale giudiziario, il locatore notifica al conduttore questa sua intenzione,specificando il prezzo della potenziale cessione. Successivamente alla descritta comunicazione, il conduttore ha sessanta giorni di tempo per accettare o meno questa proposta contrattuale e per esercitare, di fatto, il proprio diritto di prelazione. Scaduto questo termine, il venditore potrà vendere l’immobile ad una terza persona, ma ad un prezzo non inferiore a quello indicato nella predetta proposta.

Infatti, il conduttore, potrebbe esercitare il diritto di riscatto [2] nei confronti dell’acquirente e dei successivi aventi causa:

– se non ha ricevuto alcuna comunicazione e, quindi, non è stato messo nelle condizioni di esercitare la prelazione in esame;

– se, dopo non averla esercitata, magari perché il prezzo era troppo alto, il locatore dovesse cedere l’immobile già in locazione ad un prezzo inferiore a quello proposto al conduttore.

Se dovessero ricorrere le predette circostanze, il conduttore medesimo potrebbe esercitare il diritto di riscatto, entro sei mesi dalla trascrizione dell’atto di compravendita, compiuto in violazione del proprio diritto di prelazione.

CASO CONCRETO

La Confesercenti è un’associazione di categoria, per caratteristiche e scopi, praticamente assimilabile ad un sindacato.

Ebbene, a questo proposito, la legge di riferimento dice che alle locazioni commerciali a favore dei sindacati si applicano le disposizioni in materia di diritto di prelazione per il conduttore, soltanto se questi ultimi abbiano esercitato nei propri locali attività di contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori [3].

In altri termini, essi devono svolgere un servizio di tipo commerciale, finalizzato a fornire servizi al pubblico che, per questa ragione deve comunque necessariamente recarsi nell’immobile locato [4].

Pertanto, se la Confesercenti e, nello specifico nella sede in esame, svolgeva un servizio di questo tipo, appariva legittimo e riconoscibile il descritto diritto di prelazione e la conseguente rinuncia ad esercitare tale diritto dietro corrispettivo.

Se invece, ad esempio, nella sede in questione si svolgeva un’attività di carattere esclusivamente amministrativo, senza fornire al pubblico alcun servizio e senza alcun contatto con potenziali consumatori, il conduttore in questione non aveva alcun diritto di prelazione e la successiva rinuncia dietro corrispettivo potrebbe, quindi, essere tacciata di nullità, per mancanza dell’oggetto [5] (in quanto si tratterebbe di un diritto inesistente).

Tuttavia, anche in quest’ultima ipotesi, considerando che difficilmente il conduttore restituirebbe con facilità il corrispettivo ricevuto e che sarebbe probabilmente necessaria allo scopo avviare un’azione legale, con tutto ciò che essa comporta, il consiglio al lettore è quello di far esaminare ad un professionista la scrittura privata avente ad oggetto la predetta rinuncia dietro corrispettivo, in modo da poter esser più precisi nella risposta ed esaminare puntualmente le iniziative più opportune da assumere.

 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Marco Borriello

Come scoprire se la casa intestata al figlio è ipotecata?

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Dieci anni fa ho acquistato un appartamento, intestandolo a mio figlio ma ora, non so se i debiti da lui contratti siano ricaduti sulla casa. Vorrei donare la casa all’altro mio figlio. Cosa devo fare?

Al fine di verificare se, a causa dei debiti contratti dal figlio intestatario dell’immobile, sia stata iscritta un’ipoteca o un pignoramento immobiliare, occorre effettuare una visura ipo-catastale. Eventuali vincoli e garanzie sul bene sono infatti iscritti/trascritti nei pubblici registri immobiliari ed è eventualmente indicato anche il soggetto creditore (per esempio istituto di credito, Agenzia delle Entrate ecc.) che ha proceduto con la formalità.

Per effettuare la visura, occorre recarsi presso gli sportelli dei Servizi di pubblicità immobiliare degli uffici provinciali dell’Agenzia delle Entrate del luogo in cui è situato l’immobile, oppure presentare domanda on line sul sito dell’Agenzia delle Entrate al seguente link (previa registrazione ai servizi finanziari di Poste italiane on line): https://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/Nsi/Schede/FabbricatiTerreni/Ispezione+ipotecaria/Ispezione+ipotecaria+online/?page=schedefabbricatieterreni.

Se la richiesta viene presentata dal titolare dell’immobile è gratuita, altrimenti deve essere pagata una tassa ipotecaria (9,45 euro se la visura è richiesta on line, 7,00 euro se la visura è richiesta fisicamente in ufficio).

La richiesta può essere presentata fornendo i dati dell’immobile oppure il nominativo/codice fiscale del proprietario.

Qualora l’immobile ipotecato dovesse essere donato all’altro figlio, questi lo riceverebbe con l’ipoteca. Inoltre, se è in corso un’azione di recupero del credito, il creditore potrebbe agire con un’azione revocatoria per far accertare e dichiarare che l’immobile è stato donato ad un familiare solo per frodare le ragioni creditorie e diminuire le garanzie patrimoniali e che pertanto l’atto dispositivo deve considerarsi inefficace.

Prima di procedere con la donazione del bene, si suggerisce alla lettrice dunque di effettuare la predetta ispezione ipotecaria per verificare eventuali iscrizioni di ipoteche o altri vincoli sull’immobile.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Maria Monteleone

Ascensore in condominio: spese per i comproprietari

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Si tratta di un ascensore costruito nel cortile interno di proprietà esclusiva di tre condomini dello stabile, a spese esclusive degli stessi. Le fermate dell’ascensore ai vari piani dello stabile sono collegati a quest’ultimo da una passerella che va dall’autonoma struttura dell’ascensore al muro perimetrale che consente l’accesso ai vari pianerottoli delle scale, laddove esisteva una porta finestra opportunamente modificata (non è compromessa nè la stabilità del fabbricato nè il suo decoro architettonico). Oggi il condomino che non partecipò all’impresa invoca il disposto dell’art.1121 c.c., offre rimborso spese sostenute e future. I tre condomini intendono rifiutare l’offerta. Su cosa possono fondare il rifiuto? Quali sono i precedenti giurisprudenziali?

Alla luce del quesito posto, è opportuno esporre sinteticamente quanto segue:

1- L’Ascensore è un bene condominiale

Secondo la legge, l’ascensore è un bene di natura condominiale. Lo afferma il codice civile [1], riportandolo nell’elenco dei beni condominiali, lo conferma la giurisprudenza, in relazione alla funzione strumentale dell’ascensore, quale bene destinato per caratteristiche all’uso comune [2]. Detto ciò, poiché non è infrequente il caso in cui l’ascensore sia realizzato successivamente alla costruzione del fabbricato, se dovesse essere istallato a spese e a cura soltanto di alcuni condomini, lo stesso è ritenuto di proprietà privata, fatto salvo il diritto degli altri condomini, di diventarne comproprietari, alla luce dello specifico diritto in tal senso riconosciutogli dalla legge [3].

2- Il diritto del condomino di partecipare all’ascensore

Come scritto in precedenza, se da un lato non è raro che l’ascensore sia previsto e costruito successivamente alla nascita del condominio e che soltanto alcuni dei condomini potrebbero accollarsene l’onere iniziale e la gestione di conseguenza, è altrettanto frequente che coloro che inizialmente ritenevano inutile la relativa partecipazione, possano invece e in un secondo momento, diventarne comproprietari ed altrettanto utilizzatori.

Anche in questo caso si tratta di un diritto specificatamente riconosciuto dalla legge (si veda nota [3]) e che trova ampio e pacifico riconoscimento nell’interpretazione e nell’applicazione della giurisprudenza della predetta norma.

Molteplici [4], infatti, sono le pronunce della Suprema Corte di Cassazione, in base alle quali è diritto del condomino, inizialmente volutamente esclusosi dalla compartecipazione all’istallazione e gestione dell’ascensore, di diventarne comproprietario.

Anche una recente decisone degli Ermellini, conferma la descritta conclusione, affermando testualmente, a proposito dell’ascensore, che…essa può essere attuata anche a cura e spese di uno odi taluni condomini, salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera

CASO CONCRETO

È diritto del condomino originariamente escluso dalla compartecipazione all’ascensore, di diventarne comproprietario. Non esistono motivi o precedenti giurisprudenziali che possano legittimare il rifiuto dei tre condomini e/o il mancato riconoscimento di un diritto sancito a livello legislativo e pacificamente confermato dalla giurisprudenza della Cassazione.

Appare pertanto corretta la richiesta avanzata nei riguardi dei tre condomini nonché la precisazione di voler accollarsi le spese già affrontate e quelle future.

A quest’ultimo proposito, si noti che il condomino neo partecipante dovrà versare le somme, proporzionalmente dovute per l’esecuzione e la manutenzione dell’opera, rapportandole all’attuale valore delle medesime [5]. Pertanto, se si dovesse rifiutare, ad esempio, offrendo una cifra minore o non adeguatamente rivalutata, potrebbe essere questo un legittimo motivo di rifiuto alla richiesta compartecipazione.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Marco Borriello

Come fa il fisco a scoprire un affitto in nero?

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Denuncia affitto in nero senza prove: se l’Agenzia delle Entrate non ha documenti scritti non può contestare l’evasione fiscale. 

Hai appena salutato l’inquilino che, per alcuni anni, ha abitato il tuo appartamento. I rapporti tra voi non si sono chiusi in modo sereno. Gli hai contestato alcuni danni che avrebbe procurato all’immobile e, dinanzi al suo rifiuto di risarcirti, hai detto che avresti trattenuto la caparra. Lui, per tutta risposta, ha minacciato di rivolgersi alla Guardia di Finanza o all’Agenzia delle Entrate per denunciare l’affitto in nero. Già! …perché all’epoca, quando avete firmato il contratto, tu non lo hai registrato; in questo modo gli hai consentito di pagare un canone di locazione meno alto (e, in più, hai evitato di pagare le tasse). Ti chiedi quanto puoi rischiare in una ipotesi del genere. A chi crederà l’Ufficio delle Imposte quando si troverà a giudicare la tua versione contro la sua? Così ti chiedi come fa il fisco a scoprire un affitto in nero?

Certo, il tuo inquilino potrebbe bluffare perché, se è ben informato, sa già che l’evasione dell’imposta di registro – quella cioè che si paga all’atto della registrazione della scrittura privata – comporta la responsabilità solidale del locatore e del conduttore. Ciò significa che, se l’Agenzia delle Entrate accerterà l’esistenza di un affitto irregolare, se la potrà prendere anche lui e il ligio inquilino rischierà una  cartella di pagamento.

Ma è anche vero che tu hai evaso l’Irpef sui canoni di locazione e, alla fine dei conti, il danno maggiore ricadrebbe su di te, con un accertamento fiscale che potrà ricoprire gli ultimi cinque anni (che però decorrono dall’anno successivo a quello in cui avresti dovuto denunciare i redditi: il che significa che l’accertamento riguarderà almeno sei anni).

Le bollette e le utenze attive a nome di un soggetto diverso dal proprietario dell’immobile possono dimostrare un affitto in nero

Insomma, nell’eventualità che l’inquilino voglia denunciare l’affitto in nero senza prove non ti resta che negare, negare, negare! E, nel caso in cui l’ufficio delle imposte non dovesse crederti, arrivare anche in giudizio e contestare l’accertamento. In quella sede si tratterà di valutare le prove a suo favore. Ed è proprio qui che interviene il punto nodale della questione: come fa il fisco a dimostrare un affitto in nero? La soluzione c’è. E l’ha data la Commissione Tributaria Regionale del Lazio (tanto per intenderci si tratta di un giudice di secondo grado).

In questa sentenza – che, c’è da scommetterlo, farà esultare di gioia tutti i padroni di casa – vengono stabilite le regole per scovare l’evasione dell’imposta di registro, regole però molto rigide che potrebbero andare a favore degli evasori.

Ma procediamo con ordine e spieghiamo, alla luce di quelle che sono state le motivazioni dei giudici di appello tributari, come fa il fisco a scoprire un affitto irregolare.

La regola della prova scritta

Sai che, nel processo tributario, non valgono prove testimoniali? Ad esempio, se in una causa civile per un incidente stradale, la ragione e il torto si decidono quasi sempre con i testimoni, ciò non può succedere quando il giudizio verte davanti a una delle Commissioni Tributarie, i tribunali cioè che decidono sulle imposte o sulle cartelle di pagamento. Ad esempio, se l’Agenzia delle entrate ti chiede di dimostrare l’origine dei soldi con cui hai comprato un’auto non puoi portare tuo padre a confermare, verbalmente, che è stato lui a darti il denaro; dovrai depositare dei documenti (come la copia di un bonifico o di un assegno) che attesti la donazione.

Bene, questa regola vale sia per il contribuente che per la controparte, ossia il fisco.

Denuncia di affitto in nero senza prove: che valore ha?

È proprio su questo aspetto che la sentenza in commento fonda la sua motivazione a favore del locatore: le dichiarazioni dell’inquilino che attesta di aver firmato un contratto di affitto in nero, se non suffragate da altri elementi certi, sono dei semplici indizi e mere presunzioni, ma da sole non possono provare l’evasione. Servono prove documentali di sostegno, come ad esempio come copie di assegni o altri mezzi di pagamento dei vari canoni mensili, oppure lo stesso contratto di locazione che le parti hanno nascosto nel cassetto senza mai registrarlo.

Nel caso di specie, i giudici hanno infatti rilevato che l’accertamento fiscale dell’affitto in nero era basato solo su semplici presunzioni, ossia sulla “denuncia dell’inquilino”, come tale priva dei requisiti di certezza.

Invece le prove dell’omessa registrazione devono fondarsi su accertamenti di tipo documentale, non potendo trovare valore probatorio le semplici dichiarazioni rese da terzi nell’ambito della verifica.

Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto legittimi gli accertamenti basati sulle utenze dell’energia elettrica o del gas. Ad esempio, se l’Agenzia delle entrate dovesse rilevare – e può farlo facilmente – che un contribuente è titolare di un immobile sul quale risultano attive delle utenze a nome di un altro soggetto siamo chiaramente in presenza di una locazione non dichiarata.

Come si dimostra in giudizio un affitto in nero

In sintesi, le dichiarazioni di terzi, come nel caso dell’inquilino che attesti di aver abitato un appartamento con un contratto irregolare, se non suffragate da altri elementi, costituiscono meri indizi da approfondire, a cura dell’ufficio delle imposte, e non consentono da sole di provare l’evasione. Il fisco insomma, se vuol dimostrare l’affitto in nero, deve avere in mano uno o più documenti.


Nuova Imu 2019: addio Tasi

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In arrivo la nuova imposta municipale sugli immobili, che assorbirà la tassa sui servizi indivisibili e semplificherà le aliquote.

In principio si chiamava Ici, imposta comunale sugli immobili. Quest’imposta è poi stata sostituita dall’Imu, l’imposta municipale unica, ed affiancata dalla Tasi, la tassa sui servizi indivisibili, caricando i contribuenti non solo di un fardello eccessivo di tasse da pagare, ma soprattutto di una mole di rebus da risolvere per essere in regola con gli adempimenti: tra Imu e Tasi, difatti, considerando che ogni comune adotta il proprio regolamento, le aliquote sono oltre 200mila.

Dal 2019, però, è prevista una radicale semplificazione, grazie al nuovo “testo unico dell’Imu”: questo testo, composto da 13 articoli, è stato recentemente presentato in un emendamento firmato da Alberto Gusmeroli, vicepresidente della commissione Finanze della Camera. Dovrà essere votato a breve, e con tutta probabilità sarà accolto, considerando che nelle scorse settimane è stato oggetto del confronto tecnico con l’Anci (associazione nazionale comuni italiani) ed è tra gli interventi su cui è positivo anche l’orientamento del ministero dell’Economia.

Ma come funzionerà la nuova Imu 2019? Addio Tasi, innanzitutto: la nuova imposta unica, difatti, assorbirà la tassa sui servizi indivisibili. Quindi i cittadini risparmieranno, con una tassa in meno? Purtroppo no, anzi: la nuova Imu unica potrebbe salire fino all’11,4 per mille, un tetto che ora può essere raggiunto solo nei comuni in cui nel 2014 è stata applicata una maggiorazione alla Tasi, poi mantenuta negli anni in cui le aliquote sono state congelate. Attualmente, i comuni in cui è applicata l’aliquota massima rappresentano circa il 14% del totale: l’Imu unica potrebbe dunque determinare un aumento generalizzato della pressione fiscale sugli immobili. Sul punto, comunque, un emendamento presentato dal Pd prevede un tetto massimo del 10,6 per mille, a cui aggiungere l’eventuale maggiorazione dello 0,4 per mille nei comuni che già la applicano.

Raddoppierebbe, invece, passando dal 20 al 40%, la deducibilità dell’Imu dall’Ires per le imprese proprietarie dei capannoni: non si tratta di un “regalo” fatto ai contribuenti, perché, a differenza dell’Imu, attuale o unificata, la Tasi è integralmente deducibile dall’Irap. Raddoppiando la deducibilità si dovrebbe dunque compensare il vantaggio perso, relativo alla deducibilità della Tasi.

L’Imu unificata potrà essere pagata, ad ogni modo, con un bollettino precompilato: nel dettaglio, le aliquote della nuova Imu sarebbero differenziabili solo in base a una griglia pre-determinata dalla legge stessa. Nello specifico, per le seconde case sarebbero previste solo tre aliquote: una per le abitazioni vuote, una per quelle affittate con contratto registrato da almeno due anni, e una per quelle concesse in comodato gratuito a figli o genitori. Per gli altri fabbricati, le aliquote sarebbero differenziate a seconda della categoria catastale, con un’unica aliquota, quindi, per i negozi, una per i capannoni, e così via.

Per quanto riguarda le agevolazioni, resterebbero quelle già previste stabilmente allo stato attuale, come lo sconto del 25% sulle abitazioni affittate a canone concordato e l’esenzione degli immobili merce.

Ricordiamo ora, brevemente, che cosa sono e come funzionano Imu e Tasi, per capire la possibile portata della nuova Imu.

Che cos’è l’Imu?

L’Imu è l’imposta municipale unica: si tratta dell’imposta sugli immobili che sostituisce la vecchia Ici. L’Imu non è più dovuta sulla prima casa, escluse le abitazioni di lusso (categoria A1/A8 ed A9).

Chi deve pagare l’Imu?

L’Imu deve essere versata:

  • dai proprietari o dagli usufruttuari (o da chi possiede un altro diritto reale; il nudo proprietario non paga) di immobili diversi dalla prima casa, di aree fabbricabili e terreni;
  • da chi è assegnatario della casa coniugale, in caso di separazione o divorzio;
  • dai conduttori (inquilini) di immobili, in caso di stipula di leasing immobiliare;
  • dai concessionari di aree demaniali.

Chi non deve pagare l’Imu?

Sono esenti dall’Imu, oltre alle abitazioni principali non di lusso:

  • gli immobili di proprietà di persone anziane o disabili, se risultano ricoverate in modo permanente in istituti, nel caso in cui la casa non sia data in affitto;
  • gli alloggi sociali;
  • gli immobili di cooperative edilizie;
  • i terreni agricoli montani o semi-montani, o i terreni di proprietà di coltivatori e imprenditori agricoli professionali, o situati all’interno delle isole minori;
  • i terreni a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale, a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile;
  • le unità immobiliari (massimo una) in possesso del personale di servizio permanente delle Forze armate o della Polizia, dei Vigili del fuoco e del personale della carriera prefettizia, se non affittate;
  • le unità immobiliari (massimo una) di proprietà di un cittadino italiano residente all’estero e iscritto all’Aire, solo se già pensionato nel Paese dove risiede e se l’immobile non risulta né in affitto né in comodato d’uso.

Queste esenzioni dovrebbero permanere anche con la nuova Imu.

Quali sono le agevolazioni Imu

Se un immobile, ad uso abitativo, è concesso in comodato a familiari entro il primo grado di parentela, è prevista la riduzione del 50% della base imponibile, se si rispettano determinate condizioni.

In particolare, la base imponibile Imu di un immobile e delle pertinenze può essere ridotta del 50%, se l’immobile è:

  • concesso in comodato dal soggetto passivo ai genitori o ai figli;
  • se i genitori o i figli comodatari utilizzano l’immobile come abitazione principale, purché siano soddisfatte le seguenti condizioni:
    • il conduttore deve avere la residenza anagrafica nell’abitazione;
    • il contratto di comodato deve essere registrato;
    • il comodante deve risiedere anagraficamente e dimorare abitualmente nello stesso comune in cui è situato l’immobile ceduto in comodato;
    • il comodante non deve possedere altri immobili in Italia, con l’unica possibile eccezione dell’immobile adibito a propria abitazione principale e delle eventuali pertinenze;
    • l’abitazione ceduta in comodato e quella adibita ad abitazione principale non devono essere censite nelle categorie catastali A1, A8 o A9.

Il Comune può inoltre riconoscere ulteriori agevolazioni Imu per gli immobili (e le eventuali pertinenze) concessi in uso gratuito ai parenti ed affini di 1° grado in linea.

Il contribuente è in ogni caso tenuto a dichiarare al Comune il diritto alle riduzioni, per poterne fruire.

La base imponibile viene ridotta del 50% anche per:

  • i fabbricati dichiarati inagibili o inabilitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell’anno durante il quale sono verificate queste condizioni, che vanno accertate dall’Ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, oppure tramite dichiarazione sostitutiva;
  • i fabbricati di interesse storico o artistico individuati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Se l’immobile è affittato a canone concordato, l’Imu che si ottiene applicando l’aliquota comunale è ridotta al 75%.

Possono beneficiare della riduzione tre tipologie di contratti di locazione:

  • i contratti agevolati, della durata di 3 anni più 2 di rinnovo;
  • i contratti per studenti universitari, di durata da 6 mesi a 3 anni;
  • i contratti transitori (di durata da 1 a 18 mesi), se stipulati nei comuni nei quali il canone deve essere stabilito dalle parti applicando gli accordi territoriali (aree metropolitane di Roma, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Torino, Bari, Palermo, Catania; comuni confinanti con tali aree; altri comuni capoluogo di provincia).

Le agevolazioni attualmente previste dovrebbero restare in piedi anche con la nuova Imu.

Che cos’è la Tasi?

La Tasi è la tassa sui servizi indivisibili: è dovuta da chiunque possieda o detenga, a qualsiasi titolo, un fabbricato o un’area edificabile, ad eccezione, in ogni caso, dei terreni agricoli e dell’abitazione principale.

La Tasi, infatti, non è più dovuta sull’abitazione principale per i proprietari, ad esclusione delle abitazioni di lusso (categoria A1/A8 ed A9); gli inquilini non sono tenuti a pagare la loro quota Tasi se l’immobile affittato è l’abitazione principale.

Come si calcola la base imponibile Imu e Tasi

Prima di calcolare l’Imu e la Tasi, è necessario calcolare la loro base imponibile, ossia l’ammontare su cui applicare l’aliquota (cioè la percentuale dovuta) d’imposta. Il calcolo della base imponibile si effettua in questo modo, a seconda del tipo di immobile:

Tipologia immobile
Categoria catastale
Calcolo base imponibile
Abitazioni:garage, box, depositi, tettoie A/1 A/2 A/3 A/4 A/5 A/6 A/7 A/8 A/9 C/2 C/6 C/7 Rendita Catastale x 1,05 x 160________________________________________
Uffici A/10 Rendita Catastale x 1,05 x  80
Negozi C/1 Rendita Catastale x 1,05 x  55
Laboratori artigianali,stabilimenti balneari, palestre C/3 C/4 C/5 Rendita Catastale x 1,05 x 140
Scuole, collegi, ospedali, caserme B/1 B/2 B/3 B/4 B/5 B/6 B/7 B/8 Rendita Catastale x 1,05 x  140
Capannoni industriali,
fabbriche, alberghi, centri commerciali
D/1 D/2 D/3 D/4 D/6 D/7 D/8
D/9 D/10
Rendita Catastale x 1,05 x  65
Terreni agricoli Rendita Dominicale x 1,25 x  135
Terreni edificabili Valore venale

Mentre la base imponibile si calcola allo stesso modo in tutti i comuni, le aliquote sono invece stabilite da ogni comune in misura differente, a seconda della categoria dell’immobile. Con la nuova Imu, come abbiamo osservato, le aliquote dovranno essere unificate, a seconda della tipologia d’immobile.

Quali sono le aliquote Imu e Tasi

Come anticipato, per determinare l’imposta dovuta, alla base imponibile devono essere applicate le aliquote, cioè le percentuali dovute a titolo d’imposta. Le aliquote sono diverse da comune a comune, ma possono variare:

  • per l’Imu, da un minimo dello 0,46% (0,40% in alcune casistiche particolari) a un massimo dell’1,06%;
  • per la Tasi, sino a un massimo dello 0,25%;
  • la somma delle aliquote dei due tributi non può superare l’1,06%, 1,14% in caso di applicazione della maggiorazione.

Per sapere quale aliquota deve essere utilizzata, è necessario controllare le aliquote in vigore nel 2018, all’interno del sito web del proprio comune o prendendo visione delle delibere.

Quali saranno le aliquote della nuova Imu?

Come abbiamo osservato, con la nuova Imu la Tasi scomparirà.

L’aliquota potrebbe arrivare all’11, 4 per mille. In ogni caso, le aliquote saranno differenziate secondo la tipologia di immobile: abitazioni vuote, abitazioni affittate con contratto registrato da almeno due anni, abitazioni concesse in comodato gratuito a figli o genitori. Per gli altri fabbricati, le aliquote sarebbero differenziate a seconda della categoria catastale, con un’unica aliquota, quindi, per i negozi, una per i capannoni, e così via.

Imu e Tasi: calcolo saldo 2018

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Versamento dell saldo Imu e Tasi 2018: chi deve pagare, come calcolare le imposte, come si determinano le sanzioni e gli interessi per il ritardo.

Scadono lunedì 17 dicembre 2018 i termini per pagare il saldo dell’Imu e la Tasi, due delle principali imposte sugli immobili.

L’Imu, in particolare, è l’imposta municipale unica, dovuta sulla generalità degli immobili, ad esclusione delle prime case non di lusso. La Tasi, invece, è la tassa sui servizi indivisibili, un tributo che colpisce sia i proprietari di immobili che gli inquilini in affitto. Non tutti i comuni prevedono il pagamento della Tasi: la somma delle aliquote Imu e Tasi, ad ogni modo, non può superare un determinato tetto massimo.

Ma come si calcolano Imu e Tasi? Il calcolo della base imponibile, cioè della cifra su cui applicare l’imposta, è uguale sia per l’Imu che per la Tasi: sono differenti, invece, le aliquote applicate, che cambiano non solo a seconda dell’imposta, Imu e Tasi, ma anche a seconda del comune e della tipologia d’immobile. Senza dimenticare le esenzioni e le agevolazioni applicabili.

Grazie al nuovo testo unico sull’Imu, dal 2019, con l’istituzione della nuova Imu unica, che assorbirà la Tasi, il calcolo dell’imposta dovrebbe risultare più semplice, soprattutto grazie alle aliquote uniche ed alla possibilità di ricevere a casa un bollettino precompilato: ne abbiamo parlato in Nuova Imu 2019.

Ma torniamo alla situazione attuale, e facciamo il punto su Imu e Tasi: calcolo saldo 2018,  come funzionano le imposte, chi è obbligato a pagarle, come si determinano, come calcolare le sanzioni e gli interessi utilizzando il nuovo ravvedimento operoso.

Come funziona l’Imu

L’Imu è l’imposta municipale unica: si tratta dell’imposta sugli immobili che sostituisce la vecchia Ici. L’Imu non è più dovuta sulla prima casa, escluse le abitazioni di lusso (categoria A1/A8 ed A9). Si calcola applicando l’aliquota stabilita dal comune in cui è ubicato l’immobile (differente a seconda della tipologia d’immobile; possono essere poi previste riduzioni in presenza di particolari situazioni, ad esempio abitazione concessa in comodato a un familiare) sulla base imponibile Imu.

Chi deve pagare l’Imu?

L’Imu deve essere versata:

  • dai proprietari o dagli usufruttuari (o da chi possiede un altro diritto reale; il nudo proprietario non paga) di immobili diversi dalla prima casa, di aree fabbricabili e terreni;
  • da chi è assegnatario della casa coniugale, in caso di separazione o divorzio;
  • dai conduttori (inquilini) di immobili, in caso di stipula di leasing immobiliare;
  • dai concessionari di aree demaniali.

Chi non deve pagare l’Imu?

Sono esenti dall’Imu, oltre alle abitazioni principali non di lusso:

  • gli immobili di proprietà di persone anziane o disabili, se risultano ricoverate in modo permanente in istituti, nel caso in cui la casa non sia data in affitto;
  • gli alloggi sociali;
  • gli immobili di cooperative edilizie;
  • i terreni agricoli montani o semi-montani, o i terreni di proprietà di coltivatori e imprenditori agricoli professionali, o situati all’interno delle isole minori;
  • i terreni a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale, a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile;
  • le unità immobiliari (massimo una) in possesso del personale di servizio permanente delle Forze armate o della Polizia, dei Vigili del fuoco e del personale della carriera prefettizia, se non affittate;
  • le unità immobiliari (massimo una) di proprietà di un cittadino italiano residente all’estero e iscritto all’Aire, solo se già pensionato nel Paese dove risiede e se l’immobile non risulta né in affitto né in comodato d’uso.

Quali sono le agevolazioni Imu

Se un immobile, ad uso abitativo, è concesso in comodato a familiari entro il primo grado di parentela, è prevista la riduzione del 50% della base imponibile, se si rispettano determinate condizioni.

In particolare, la base imponibile Imu di un immobile e delle pertinenze può essere ridotta del 50%, se l’immobile è:

  • concesso in comodato dal soggetto passivo ai genitori o ai figli;
  • se i genitori o i figli comodatari utilizzano l’immobile come abitazione principale, purché siano soddisfatte le seguenti condizioni:
    • il conduttore deve avere la residenza anagrafica nell’abitazione;
    • il contratto di comodato deve essere registrato;
    • il comodante deve risiedere anagraficamente e dimorare abitualmente nello stesso comune in cui è situato l’immobile ceduto in comodato;
    • il comodante non deve possedere altri immobili in Italia, con l’unica possibile eccezione dell’immobile adibito a propria abitazione principale e delle eventuali pertinenze;
    • l’abitazione ceduta in comodato e quella adibita ad abitazione principale non devono essere censite nelle categorie catastali A1, A8 o A9.

Il Comune può inoltre riconoscere ulteriori agevolazioni Imu per gli immobili (e le eventuali pertinenze) concessi in uso gratuito ai parenti ed affini di 1° grado in linea.

Il contribuente è in ogni caso tenuto a dichiarare al Comune il diritto alle riduzioni, per poterne fruire.

La base imponibile viene ridotta del 50% anche per:

  • i fabbricati dichiarati inagibili o inabilitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell’anno durante il quale sono verificate queste condizioni, che vanno accertate dall’Ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, oppure tramite dichiarazione sostitutiva;
  • i fabbricati di interesse storico o artistico individuati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Se l’immobile è affittato a canone concordato, l’Imu che si ottiene applicando l’aliquota comunale è ridotta al 75%.

Possono beneficiare della riduzione tre tipologie di contratti di locazione:

  • i contratti agevolati, della durata di 3 anni più 2 di rinnovo;
  • i contratti per studenti universitari, di durata da 6 mesi a 3 anni;
  • i contratti transitori (di durata da 1 a 18 mesi), se stipulati nei comuni nei quali il canone deve essere stabilito dalle parti applicando gli accordi territoriali (aree metropolitane di Roma, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Torino, Bari, Palermo, Catania; comuni confinanti con tali aree; altri comuni capoluogo di provincia).

Come funziona la Tasi

La Tasi è la tassa sui servizi indivisibili: è dovuta da chiunque possieda o detenga, a qualsiasi titolo, un fabbricato o un’area edificabile, ad eccezione, in ogni caso, dei terreni agricoli e dell’abitazione principale.

La Tasi, infatti, non è più dovuta sull’abitazione principale per i proprietari, ad esclusione delle abitazioni di lusso (categoria A1/A8 ed A9); gli inquilini non sono tenuti a pagare la loro quota Tasi se l’immobile affittato è l’abitazione principale.

Si calcola applicando l’aliquota stabilita dal comune in cui è ubicato l’immobile (differente a seconda della tipologia d’immobile) sulla base imponibile Tasi, che è la stessa base imponibile Imu.

Come si calcola la base imponibile Imu e Tasi

Prima di calcolare l’Imu e la Tasi, è necessario calcolare la loro base imponibile, ossia l’ammontare su cui applicare l’aliquota (cioè la percentuale dovuta) d’imposta. Il calcolo della base imponibile si effettua in questo modo, a seconda del tipo di immobile:

Tipologia immobile
Categoria catastale
Calcolo base imponibile
Abitazioni:garage, box, depositi, tettoie A/1 A/2 A/3 A/4 A/5 A/6 A/7 A/8 A/9 C/2 C/6 C/7 Rendita Catastale x 1,05 x 160________________________________________
Uffici A/10 Rendita Catastale x 1,05 x  80
Negozi C/1 Rendita Catastale x 1,05 x  55
Laboratori artigianali,stabilimenti balneari, palestre C/3 C/4 C/5 Rendita Catastale x 1,05 x 140
Scuole, collegi, ospedali, caserme B/1 B/2 B/3 B/4 B/5 B/6 B/7 B/8 Rendita Catastale x 1,05 x  140
Capannoni industriali,
fabbriche, alberghi, centri commerciali
D/1 D/2 D/3 D/4 D/6 D/7 D/8
D/9 D/10
Rendita Catastale x 1,05 x  65
Terreni agricoli Rendita Dominicale x 1,25 x  135
Terreni edificabili Valore venale

Mentre la base imponibile si calcola allo stesso modo in tutti i comuni, le aliquote sono invece stabilite da ogni comune in misura differente, a seconda della categoria dell’immobile. Come abbiamo osservato, per particolari situaizoni possono poi essere previste delle riduzioni o agevolazioni.

Quali sono le aliquote Imu e Tasi

Come anticipato, per determinare l’imposta dovuta, alla base imponibile devono essere applicate le aliquote, cioè le percentuali dovute a titolo d’imposta. Le aliquote sono diverse da comune a comune, ma possono variare:

  • per l’Imu, da un minimo dello 0,46% (0,40% in alcune casistiche particolari) a un massimo dell’1,06%;
  • per la Tasi, sino a un massimo dello 0,25%;
  • la somma delle aliquote dei due tributi non può superare l’1,06% nella generalità dei casi e l’1,14% in caso di applicazione della maggiorazione dello 0,8%.

Per sapere quale aliquota deve essere utilizzata, è necessario controllare le aliquote in vigore nel 2018, all’interno del sito web del proprio comune o prendendo visione delle delibere.

Come si calcola il saldo Imu e Tasi

Per calcolare il saldo dell’Imu e della Tasi, da pagare entro il 17 dicembre 2018, bisogna:

  • calcolare la base imponibile;
  • calcolare l’imposta, applicando le aliquote che risultano dalla delibera più recente del comune in cui è ubicato l’immobile (le aliquote sono reperibili anche all’interno del sito web del comune stesso, oltreché nel sito del Dipartimento delle Finanze);
  • dividere l’importo a metà.

Ravvedimento operoso Imu e Tasi per pagamento in ritardo

Una volta quantificata l’imposta dovuta, se si paga dopo la scadenza, cioè dopo il 16 dicembre per il saldo (per il 2018 dopo il 17 dicembre, in quanto il 16 dicembre cade di domenica), devono  essere calcolate le sanzioni. Le sanzioni non sono previste in misura fissa, ma in misura percentuale, che aumenta all’aumentare dei giorni di ritardo.

Le sanzioni sono ridotte, grazie allo strumento del ravvedimento operoso. In particolare, si può beneficiare del:

  • ravvedimento sprint: prevede la possibilità di sanare la propria situazione versando l’imposta dovuta entro 14 giorni dalla scadenza con una sanzione dello 0,1% giornaliero (1/15 di 1/10 del 15%) del valore dell’imposta, più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale;
  • ravvedimento breve: applicabile dal 15° al 30° giorno di ritardo, prevede una sanzione fissa del 1,5% (1/10 del minimo) dell’importo da versare più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale;
  • ravvedimento intermedio: è applicabile dopo il 30° giorno di ritardo fino al 90° giorno, e prevede una sanzione fissa del 1,67% (cioè 1/9 del minimo, pari al 15%) dell’importo da versare più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale;
  • ravvedimento lungo: è applicabile dopo il 90° giorno di ritardo, ma comunque entro i termini di presentazione della dichiarazione relativa all’anno in cui è stata commessa la violazione, oppure, se non è prevista dichiarazione periodica, entro un anno dall’omissione o dall’errore; prevede una sanzione fissa del 3,75% (1/8 del minimo) dell’importo da versare, più gli interessi giornalieri calcolati sul tasso di riferimento annuale;
  • ravvedimento biennale: è applicabile per versamenti eseguiti entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo o, se non è prevista la dichiarazione, due anni dall’omissione; la sanzione applicabile è pari al 4,29% (1/7 del minimo);
  • ravvedimento lunghissimo o ultra biennale: è applicabile per versamenti eseguiti oltre il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello nel corso del quale è stata commessa la violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, oltre due anni dall’omissione o dall’errore; la sanzione è pari al 5% (1/6 del minimo); questo ravvedimento è applicabile ai soli tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate, per cui non può essere utilizzato per i tributi comunali;
  • ravvedimento successivo a p.v.c.: questo ravvedimento può essere utilizzato se la regolarizzazione avviene dopo il processo verbale di constatazione (p.v.c.), fatta esclusione per i casi di mancata emissione di ricevuta fiscale, ddt, scontrini fiscali o di omessa installazione dei misuratori fiscali;
  • ravvedimento trimestrale: è applicabile per il versamento delle rate omesse dopo la prima, nei casi di accertamento con adesione, concordato, conciliazione, avvisi bonari; resta la possibilità di utilizzare il ravvedimento sprint o breve se la regolarizzazione avviene in un termine più breve.

Calcolo degli interessi per ravvedimento operoso

Perché un versamento possa considerarsi ravveduto non basta saldare la sanzione, ma è necessario anche il pagamento degli interessi legali.

L’ammontare del tasso d’interesse legale varia ogni anno: nel 2014 era pari all’1%, nel 2015 è sceso allo 0,50%, nel 2016 è sceso allo 0,2%, nel 2017 era pari allo 0,1% e nel 2018 è pari allo 0,3%.

La formula per calcolare gli interessi, relativa a ogni annualità, è la seguente:

  • imposta da pagare, moltiplicata per il tasso d’interesse legale, diviso 365, per il numero dei giorni di ritardo.

Ad esempio, se un contribuente deve pagare 400 euro di saldo Imu 2018, con 14 giorni di ritardo, il calcolo sarà:

  • [(400 x 0,30%):365] x 14.

Quindi verserà 5 centesimi d’interessi (0,04603, arrotondato per eccesso).

Come si compila l’F24 per l’Imu

Per pagare l’Imu, con o senza ravvedimento operoso, bisogna compilare il modello F24, nella sezione Imu ed altri tributi locali, con i seguenti codici tributo:

  • 3912 per l’abitazione principale e relative pertinenze (solo per i non esenti);
  • 3914 per i terreni agricoli;
  • 3916 per le aree fabbricabili;
  • 3918 per altri fabbricati;
  • 3930 per “fabbricati ad uso produttivo gruppo “D” incremento Comune;
  • 3925 per “fabbricati ad uso produttivo gruppo “D” Stato.

Non esistono, al contrario di quanto era previsto per la vecchia Ici, dei codici appositi per il pagamento di sanzioni e interessi, perciò questi andranno sommati all’imposta principale, nello stesso codice tributo.

Come si compila l’F24 per la Tasi

Per pagare la Tasi dovrà essere compilato il modello F24, nella sezione Imu ed altri tributi locali, con i seguenti codici tributo:

  • 3958 per l’abitazione principale;
  • 3959 per fabbricati rurali ad uso strumentale;
  • 3969 per i servizi indivisibili per le aree fabbricabili;
  • 3961 per i servizi indivisibili di altri fabbricati.

I codici relativi al ravvedimento operoso Tasi sono:

  • 3962 per gli interessi;
  • 3963 per le sanzioni.

Danneggiamento della porta del palazzo condominiale

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Chi risarcisce i danni per la chiave rotta nella serratura del portone dell’edificio condominiale o per il vetro infranto dolosamente con un calcio?

Quante volte, nel tuo condominio, è stato chiamato il fabbro per riparare il portone di ingresso. Tra tutte le parti comuni è quella che si rompe più spesso e facilmente. A volte è colpa di qualche condomino maldestro e frettoloso che ha spezzato la sua chiave dentro la serratura. Altre volte è l’usura o, magari, il risultato del tentativo  – non andato a buon fine – di un ladro di forzare l’entrata allo stabile. Ma potrebbe anche essere che uno dei condomini lo faccia apposta. Immagina di notare, dal balcone, che il proprietario dell’appartamento all’ultimo piano, che non ha pagato da diverso tempo gli oneri condominiali e contro cui avete avviato un procedimento giudiziale di recupero crediti, sferri alcuni calci contro la porta del condominio. O magari, a denunciarlo, è proprio l’impianto di videosorveglianza che rileva il suo scatto d’ira. Ebbene che potete fare contro di lui? Come agire in caso di danneggiamento della porta del palazzo condominiale? 

Ecco alcuni interessanti consigli forniti dalla giurisprudenza in merito, l’ultimo dei quali contenuto in una sentenza della Cassazione dello scorso 29 ottobre [1].

Danneggiamento della porta del palazzo condominiale: quando non è reato

Chi rompe paga: ma non sempre commette reato. Affinché scatti l’illecito penale di danneggiamento è innanzitutto necessario che il bene sia esposto alla pubblica fede, ossia si trovi in un luogo pubblico o aperto al pubblico e che, per convenzione, non sia protetto da protezioni. È proprio il caso del portone dello stabile.

In secondo luogo è necessario il cosiddetto dolo, ossia la malafede. In termini più pratici chi agisce deve “farlo apposta”, deve cioè avere l’intenzione di rompere la serratura, il vetro o qualsiasi altra componente del portone.

Quando il danno è provocato solo per colpa o leggerezza (pensa al caso di chi spezza le chiavi nel tamburo della serratura perché ha utilizzato il mazzo sbagliato o perché, pur avendo usato quelle giuste, ha impresso eccessiva forza sul movimento). Anche se l’episodio si ripete spesso, in assenza di dolo non ci può essere un’incriminazione penale. 

Chi paga però il tecnico della porta intervenuto per colpa di un condomino? Anche qui la giurisprudenza [2] ci offre un’interessante regola da seguire. L’assemblea di condominio non può addossare le spese a carico del responsabile. Non lo può fare almeno in prima battuta, senza cioè un accordo espresso con questi o, in alternativa, senza intraprendere contro di lui un’azione civile di risarcimento del danno. La regola resta quindi sempre quella della ripartizione delle spese secondo millesimi. In mancanza quindi di un riconoscimento di responsabilità da parte del condomino colpevole del danno oppure di un accertamento da parte del giudice, la spesa relativa alle riparazioni va ripartita tra tutti i condomini.

Pertanto, se anche nel tuo palazzo c’è sempre un proprietario che rompe puntualmente il portone di ingresso, siete tutti tenuti a pagare le spese per la riparazione.

Danneggiamento della porta del palazzo condominiale: quand’è reato 

Immaginiamo però che la porta sia stata danneggiata dolosamente, ossia in malafede, da uno dei condomini o da un terzo. In tal caso si può querelare il responsabile entro 3 mesi dall’accertamento del fatto illecito.

Ci deve essere, chiaramente, una prova che può consistere anche in una testimonianza oculare o in un filmato di una telecamera di controllo. 

Il giudizio penale contro il colpevole non assicura il risarcimento del danno che, comunque, va richiesto in una apposita causa civile.

La Cassazione ha però ritenuto che, per reati di questo tipo, ossia dall’effetto “blando” (la cui pena non supera 5 anni di reclusione), il procedimento penale può essere subito archiviato, senza applicazione della pena. Resta però ferma la macchia sul casellario giudiziale del colpevole e la possibilità di chiedere il risarcimento. È una norma del codice penale a prevedere tale possibilità [3], e ciò in ragione della natura esigua del danno arrecato. La disposizione stabilisce infatti che «Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo (…) l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».

La Suprema Corte ha precisato così che il comportamento di un soggetto che, sferrando un calcio a un portoncino condominiale, ne distrugge il vetro, è considerato non punibile in quanto è applicabile la causa di esclusione della punibilità dovuta alla particolare tenuità del fatto. Secondo i giudici, infatti, la rottura della porta condominiale non costituisce un danno grave, ma appunto esiguo, consentendo l’applicabilità della causa di non punibilità.

Ordine di demolizione di abuso edilizio con sanatoria in corso

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Sospensione dell’ordine di demolizione: rileva la presentazione di un’istanza di condono in data anteriore?

Alcuni vicini di casa ti hanno fatto delle domande impertinenti in merito ad una veranda e a un bagno che hai ricavato, tempo fa, sul balcone di casa. È vero: si tratta di costruzioni per le quali non è mai stata chiesta l’autorizzazione al Comune, ma nessuno ha mai detto nulla e, in condominio, c’è sempre stato una reciproca “copertura”. In quel momento hai maturato la decisione di voler mettere tutto a norma, anche in vista di una possibile vendita dell’immobile. Hai presentato una domanda di sanatoria all’ufficio competente. Ma qualche settimana dopo, quando ancora pendeva l’istruttoria della tua richiesta, ti è stato notificato un ordine di demolizione. È probabile che qualcuno ti abbia segnalato alla polizia municipale e che il conseguente procedimento amministrativo volto a verificare l’irregolarità urbanistica sia stato più veloce di quello invece azionato da te per la regolarizzazione delle opere. A questo punto ti chiedi se è possibile bloccare l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio con la sanatoria in corso. 

La questione è stata di recente affrontata dalla Cassazione [1], ma è tutt’altro che nuova. Sono numerosi i precedenti giurisprudenziali che hanno risposto allo stesso quesito: è possibile ottenere la sospensione dell’ordine di demolizione in presenza della presentazione, in data anteriore ad esso, della istanza di condono? Ecco qual è, a riguardo, l’orientamento delle aule dei tribunali italiani.

Abuso edilizio: cos’è?

Tutte le volte che si realizza un’opera di nuova costruzione, di natura stabile e che crea volumetria abitabile, è necessario richiedere l’autorizzazione al Comune, ciò che un tempo si chiamava “licenza edilizia” e che oggi va invece sotto il nome di “permesso di costruire”. Nonostante sia stato ampliato l’elenco dei lavori in casa che non richiedono il permesso, restano ancora numerose le ipotesi di irregolarità. In tali casi la legge [2] prevede quattro tipi di sanzioni:

sanzioni amministrative: si sostanziano nell’ordine di demolizione. Può essere emesso sia dal Comune che dal magistrato competente a decidere il procedimento penale di abuso edilizio;

  • sanzioni civili: si tratta di tutte le sanzioni per le conseguenze negative che l’abuso cagioni a terzi. Di solito si tratta del risarcimento del danno o dell’annullamento del contratto di vendita di un immobile con un abuso nascosto all’acquirente;
  • sanzioni penali: sono quelle che scattano per il reato di abuso edilizio;
  • sanzioni accessorie che si aggiungono per scoraggiare ulteriormente l’abusivismo.

È possibile evitare di incorrere in tali sanzioni attraverso la domanda di “concessione in sanatoria”. È una sorta di autorizzazione concessa a posteriori, dopo cioè la realizzazione dell’opera con applicazione di sanzioni limitate proprio per via del “ravvedimento” del privato. Tuttavia la sanatoria è riconosciuta solo a due condizioni:

  1. che l’opera fosse conforme ai piani urbanistici in vigore al momento della sua realizzazione: non si può sanare una costruzione che, quando è stata realizzata, era illegale, ma solo quella per la quale, se opportunamente chiesta, la concessione sarebbe stata rilasciata;
  2. che l’opera sia conforme ai piani urbanistici in vigore al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria (se mutati rispetto a quelli precedenti).   

Quando si parla di sanatoria si usa anche impropriamente il termine condono. In realtà, a voler essere precisi, si tratta di due cose diverse. La sanatoria (o sanatoria ordinaria) è prevista dalla legge ed è sempre possibile nel rispetto delle condizioni appena viste [3]; il condono è invece quello approvato, di tanto in tanto, dal Parlamento e valido solo per determinati periodi e luoghi.

L’ordine di demolizione va in prescrizione?

C’è innanzitutto un chiarimento che deve essere fatto prima di spiegare se è possibile sospendere la demolizione con la sanatoria in corso. A differenza di quanto comunemente si crede, non c’è un termine massimo entro cui può essere comunicato l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio. Se è vero che, per il procedimento penale esiste una prescrizione e questa è pari a quattro anni (cinque se c’è stata una citazione a giudizio) – per cui il colpevole non può essere né processato né sanzionato allo spirare del tempo utile per la condanna – invece il procedimento amministrativo non è soggetto a decadenze. Il che significa che il titolare dell’immobile, a prescindere dal fatto che sia o meno l’artefice della costruzione abusiva (come potrebbe succedere nell’ipotesi in cui abbia acquistato una casa non a norma), potrà in qualsiasi momento ricevere un ordine del sindaco che gli impone lo smantellamento delle opere realizzate senza la concessione edilizia o in difformità da quella rilasciatagli.

Si può sospendere l’ordine di demolizione con l’istanza di condono?

Vediamo ora se il privato ha la facoltà di bloccare, sul nascere, un ordine di demolizione o di sospendere quello già notificatogli solo presentando una istanza di condono (cosiddetta concessione in sanatoria). Secondo la Cassazione, non è possibile rispondere in modo netto con un “sì” o con un “no”: tutto dipende dalle concrete possibilità di accoglimento della domanda e dai tempi in cui il procedimento si concluderà. Il giudice, valutati i possibili esiti del procedimento amministrativo sanante messo in moto dal privato, deciderà se concedere la sospensione della demolizione o meno.

Leggi anche Come evitare la demolizione di un abuso edilizio.

In particolare, è necessario verificare la sussistenza sia del «prevedibile risultato dell’istanza e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo accoglimento» che «la durata necessaria per la definizione della procedura, che può determinare la sospensione dell’esecuzione solo nel caso di un suo rapido esaurimento».

Pertanto se il tribunale dovesse ritenere sussistenti elementi che facciano ritenere prossima l’adozione, da parte dell’autorità amministrativa competente, del provvedimento di accoglimento dell’istanza di condono, sospende l’ordine di demolizione. Viceversa la demolizione dovrà essere effettuata nonostante il deposito, in data anteriore, della richiesta di concessione in sanatoria.

Si può vendere un immobile con abuso edilizio

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Cosa succede se si acquista una casa con un abuso edilizio e lo si scopre dopo la firma del compromesso o del rogito notarile? Quale tutela per l’acquirente di un immobile abusivo?

Hai messo in vendita una casa all’interno del quale, negli anni, hai apportato alcune modifiche. Queste variazioni non sono state denunciate al Comune: non hai mai chiesto l’autorizzazione, né hai presentato un’istanza di concessione in sanatoria. Sicché ora ti chiedi se si può vendere un immobile con abuso edilizio. Vuoi cioè sapere cosa rischi se non informi di ciò il compratore o se, anche avvisandolo, puoi subire delle sanzioni di carattere amministrativo o, peggio, penale.

La giurisprudenza si è spesso trovata ad affrontare il tema della vendita di appartamenti non in regola sotto l’aspetto urbanistico o edilizio. La stessa Cassazione ha definito delle linee guida su come comportarsi prima di cedere la proprietà di un immobile abusivo.

Pertanto, se anche stai per stipulare il rogito di un immobile con un abuso, leggendo le successive righe potrai comprendere come comportarti.

Si può vendere un immobile con un abuso edilizio?

L’irregolarità edilizia di una costruzione non ne determina l’intrasferibilità. In altre parole, si può ben vendere (o anche donare) una casa con un abuso. Il contratto è valido però solo nella misura in cui il titolare del bene rende edotto l’acquirente della presenza dell’abuso. Tale comunicazione deve essere formalizzata tanto nel contratto preliminare (il compromesso), quanto nel contratto definitivo (il cosiddetto rogito). Se consapevole dell’irregolarità edilizia, l’acquirente non potrà più contestare alcunché al venditore o chiedere risarcimenti.

Leggi anche Comprare una casa con abuso edilizio: cosa rischio?

Se invece non c’è stata una informazione trasparente, l’acquirente può impugnare il contratto entro 10 anni e chiederne al tribunale lo scioglimento. In tale sede può anche proporre una domanda di risarcimento del danno. In alternativa, dinanzi a un abuso di piccole dimensioni, l’acquirente può optare per mantenere in vita la compravendita, ma chiedere una parziale restituzione del prezzo, il necessario per le spese di demolizione o per la richiesta di sanatoria, oltre all’eventuale risarcimento del danno.

L’acquirente può procedere giudizialmente contro il venditore anche se, prima della firma del contratto, ha effettuato alcuni sopralluoghi sull’immobile (magari accompagnato da un tecnico di fiducia) nel corso dei quali ha avuto la possibilità di prendere conoscenza dell’abuso. La semplice conoscibilità della costruzione non a norma non esonera il venditore dalla responsabilità civile per non aver informato l’acquirente.

In verità, quando la compravendita viene curata da un’agenzia immobiliare, quest’ultima ha l’obbligo di verificare la conformità urbanistica dell’immobile e accertarsi che non vi siano abusi. In caso contrario, il compratore potrà rivalersi – oltre che contro il venditore – anche contro l’agente.

Se l’acquirente scopre l’abuso dopo la firma del compromesso

Potrebbe succedere che il venditore non comunichi all’acquirente la presenza dell’abuso e i due firmino un compromesso (il cosiddetto contratto preliminare). Se dopo la stipula della scrittura privata, il futuro compratore si accorge dell’irregolarità, può tirarsi indietro dalla vendita? La risposta data dalla giurisprudenza è volta a conservare l’efficacia dell’accordo per quanto possibile. Il che significa che il venditore potrà impedire la risoluzione del contratto (ossia lo scioglimento) solo se, prima della data del rogito notarile, chiede e ottiene la concessione in sanatoria. La sanatoria, anche se intervenuta in data successiva alla firma del preliminare, sana pertanto l’abuso e, con esso, anche il contratto. In altri termini, l’acquirente non potrà più agire contro il venditore e dovrà procedere necessariamente a firmare il rogito.

E se non arriva la sanatoria prima della data del rogito?

Potrebbe succedere che il venditore presenti la richiesta di sanatoria ma il Comune tardi a rilasciarla. Che succede se, nel frattempo, le parti intendono procedere al rogito? In tali ipotesi ci si può accordare in modo tale da salvaguardare il trasferimento della proprietà. In pratica, venditore e acquirente firmano il contratto di compravendita dal notaio subordinando però sia il passaggio di proprietà, sia il trasferimento del prezzo alla concessione della sanatoria. Perciò i soldi del prezzo di vendita non vengono erogati materialmente al venditore ma incassati dal notaio il quale li deposita in un apposito conto corrente. Ivi rimangono fino a quando non interviene la sanatoria. Solo allora il notaio, che in tal modo funge da garante della bontà dell’operazione, svincolerà le somme e le depositerà sul conto del venditore. Viceversa se la sanatoria non dovesse giungere, sarà il notaio a risolvere il contratto e a restituire il denaro all’acquirente.

Che succede se l’acquirente scopre l’abuso dopo il rogito?

Come detto, ferma restando la responsabilità dell’eventuale agente di commercio, l’acquirente può chiedere lo scioglimento del contratto e la restituzione dei soldi versati. In alternativa può optare per la presentazione della domanda di concessione in sanatoria, con addebito delle spese in capo al venditore “reticente”. In ultima istanza egli può scegliere di demolire l’opera, addossando anche in questo caso le spese sul venditore.

Responsabilità penale e amministrativa per l’abuso edilizio

La responsabilità penale per l’abuso edilizio resta in capo a chi lo ha realizzato. Per cui, anche nel caso di vendita dell’immobile, l’acquirente non potrà rispondere penalmente dell’irregolarità.

Viceversa, per quanto riguarda l’obbligo di demolizione dell’abuso, questo può essere imposto all’acquirente senza alcun limite di tempo. Leggi sul punto Ordine di demolizione di abuso edilizio con sanatoria in corso.

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